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Woke

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Il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale.
Karl Marx 

Il termine woke sta entrando nel linguaggio comune anche in Italia, ma con un senso radicalmente mutato rispetto all’originale. Letteralmente, significa sveglio, cioè consapevole, attento alle tematiche sociali e rispettoso della diversità, nei comportamenti e nel linguaggio.

La parola, innanzitutto, è uscita dai confini della comunità afroamericana e il suo significato è stato progressivamente ‘tirato’ e diluito in un generale ‘empatico’ o ‘attento al linguaggio’.

Nel discorso pubblico ha poi preso un’accezione sempre più negativa: è woke chi corregge gli altri quando parlano, chi ha un atteggiamento censorio verso le opinioni non in linea con le proprie (leggi: conservatrici).

Insomma, woke è passato ad indicare un impegno solo di facciata, legato a questioni triviali come le parole senza portare a nessun cambiamento reale.

Woke è l’equivalente del nostro ‘politicamente corretto’: un termine nato con la nobile intenzione di non discriminare nessuno, ma progressivamente usato per denigrare e ridicolizzare alcuni cambiamenti sociali in atto.

A livello aziendale, sono sempre di più le grandi società che decidono di abbracciare cause politiche tradizionalmente progressiste – diritti civili, sostenibilità ambientale, antirazzismo, giustizia sociale -, una tendenza che è stata definita capitalismo woke, ovvero consapevole.

Woke, dicevamo, è una buzz word, cioè una parola modaiola. Nei dizionari è stata registrata nel 2017 e racconta la bugia del risveglio non richiesto dell’umanità dal possibile letargo nei confronti della presunta ingiustizia contro tutto e tutti, onde imporre la categoria e il cliché della riparazione globale.

E il capitalismo woke è la nuova frontiera del capitale. Le metamorfosi sinuose del capitalismo sono in linea con il nichilismo che lo sostanzia, dicono i benpensanti.

Per me, è il lasciapassare per tutte quelle che chiamano castronerie e abilita all’abbattere statue, al correggere letterature, all’inginocchiarsi negli stadi di tipi che non sanno nemmeno cosa significhi genuflettersi. Riempie la bocca di un buon sapore e recentemente pare avere più fortuna di espressioni come combinato disposto.

Questo importante fenomeno è nato alla fine del XX secolo ed esploso nel XXI, dalla responsabilità sociale d’impresa degli anni Cinquanta al neoliberismo degli anni Ottanta, passando per l’appropriazione del lemma woke, in origine usato, come scritto sopra, dalla cultura afroamericana, fino ai dibattiti odierni, sino a discutere criticamente che cosa esso significhi per il futuro della democrazia.

Nel 1953, l’economista americano Howard Bowen sostenne che i leader aziendali avrebbero dovuto riconoscere che le loro attività riguardavano non solo i loro azionisti, dipendenti e clienti, ma la società in generale.

Per qualche studioso, il capitalismo woke rappresenta una boriosa forma della responsabilità sociale d’impresa delineata da Bowen, con molte imprese che oggi cercano di agire ed essere viste agire, in modo socialmente responsabile in arene che non hanno alcuna relazione con i loro affari.

I critici conservatori del capitalismo woke hanno sostenuto che estendere la responsabilità aziendale al di là degli interessi degli azionisti sia un tradimento del principio capitalista.

Come ha affermato Milton Friedman:

C’è una sola responsabilità sociale delle imprese: utilizzare le risorse e impegnarsi in attività progettate per aumentare i profitti rimanendo entro le regole del gioco.

Esaminando numerosi esempi di strategie aziendali politicamente corrette, si è evidenziato come l’ascesa del capitalismo woke nella vita economica e politica contemporanea abbia conseguenze pericolose.

Lungi dal risolvere i problemi della società, l’attivismo di multinazionali che dominano molti aspetti della nostra vita ha effetti antiprogressisti: trasformando la moralità in profitto, esso non solo legittima e consolida un’economia globale in cui miliardari e corporation si accaparrano quote sempre maggiori di ricchezza, ma espande il potere delle imprese a scapito delle istituzioni della democrazia.

Per Carlo Galli:

il capitalismo woke qui è criticato non perché le campagne che sponsorizza sono sbagliate, o perché fa politica invece che profitti, né perché è poco coerente, ma perché è una funesta degenerazione delle forme politiche occidentali […] manifesta, dandola per ovvia e irreversibile, la fine della distinzione tra politica, società e terzo settore […]

L’economia non si limita a invadere l’intera società, ma si sostituisce direttamente allo Stato.

È tempo di abbandonare l’idea che le imprese, in quanto attori principalmente economici, possano in qualche modo aprire la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile.

Il capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e politico e per sedare ogni critica. Mai prima d’ora l’ambiente di lavoro è stato così politicizzato e le aziende faticano per adattarsi alle richieste dei consumatori e dei dipendenti più giovani.

Oggi le ditte e le company fanno la predica nelle pubblicità e ammorbano con una morale d’accatto per sostituire lo stucchevole Stato etico con un’ancora più stucchevole imprenditoria etica. Perché sì, il capitalismo woke sta sabotando la democrazia ma questo per il fatto che l’incultura woke del nichilismo contemporaneo divora dall’interno.

Eppure, il capitalismo è il termometro della crescita dell’umanità dall’alba della storia. Quella capacità nobilmente umana di affrontare i problemi, cercare soluzioni e inventare, modernizzare, riformare, realizzare, produrre, costruire, edificare, fondare.

Quando il vampirismo woke ne avrà succhiato l’ultima goccia di sangue, della civiltà genuinamente umana non resterà infatti più nulla, non solo la democrazia. È un rischio che corriamo e che sottilmente stiamo subendo da tempo.

Lo vediamo come vivono in maniera fortemente contraddittoria il tema tassazione: sottolineando che il pagamento delle tasse è la responsabilità sociale delle imprese per poi impegnarsi contemporaneamente in un’aggressiva elusione fiscale.

Secondo fonti giornalistiche e non solo, le aziende stanno privando i Paesi di tutto il mondo di miliardi di dollari di entrate fiscali, che potrebbero essere investiti in programmi di welfare, mentre si autoproclamano eroine nella lotta per la giustizia sociale.

Il capitalismo ha sfondato i suoi confini e ha occupato l’intera società, c’è stata una privatizzazione della democrazia, quando si sostituisce l’intervento pubblico con i contributi privati si sta delegando ad organismi aziendali non democratici la gestione dello Stato e della società. Questo mi pare evidente.

Sono le aziende che decidono se dobbiamo essere aperti o meno verso i nuovi diritti, se dobbiamo interessarci o meno alle questioni ambientali e via di seguito. Proprio perché questo è un potere completo anche la lotta alla diseguaglianza è formalmente perseguita, quando, in realtà, è alla base di tale sistema.

Il capitalismo è ateo, poiché non contempla la verità, ma non la avversa. L’ateismo del capitalismo è libertà da ogni vincolo veritativo. Il capitalismo è assoluto, in quanto ab solutus, sciolto da ogni vincolo etico e da ogni progettualità politica. La comunità non è contemplata, essa è solo ‘mercato’.

Il capitalismo woke è l’arma egemonica contro la politica e, specialmente, contro l’elaborazione di percorsi politici alternativi al capitale. Tale salto qualitativo è reso possibile dal vuoto della politica, ormai dipendente dalla catena di comando dei grandi gruppi economici e dalle multinazionali.

Il travestimento del capitalismo in fogge progressiste è anche il sintomo palese del vuoto culturale e politico di una certa appartenenza politica, per cui il workismo può avanzare indisturbato con l’applauso trasversale e con la tragica ammirazione delle masse che divengono sempre più impotenti e depauperate nello spirito di classe e materialmente.

Si difendono i diritti individuali, si trasformano taluni eventi di cronaca in manifestazione semireligiosa con cui addestrare le masse ai dogmi del capitale.

I popoli divengono plebe ubbidiente alla mangiatoia dei diritti individuali e allo stesso tempo gli effetti dei tagli dei diritti sociali sono abilmente oscurati.

Le campagne su taluni casi di cronaca che in modo sincronico occupano ogni spazio mediatico, dimostrano la manipolazione dell’informazione e la sudditanza organizzata dei media al ‘credo’ della religione del capitale.

Il capitalismo corre sempre il rischio di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere.
Martin Luther King 

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.