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Visioni di un uomo contrario

1873
Dante Virgili


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Noi proclameremo la distruzione. Perché ancora una volta, questa piccola idea così affascinante? Verrà un tale sconquasso, come il mondo non l’ha finora veduto.
Fëdor Dostoevskij – I Demoni

Ci sono scrittori che muoiono prima di nascere, scrittori marchiati perché ritenuti eretici fino dal loro primo respiro letterario. Sono visionari e dimenticati. Per questo più facilmente rintracciabili dai posteri nel gorgo degli autori infernali.

Ci sono scrittori che dipingono la realtà con occhi voraci, aprono le fauci alle parole composte, delineano scenari di una apocalisse prossima a venire che solo loro hanno già compreso e vissuto.

Ci sono scrittori che nessuno conosce per volontà di una maggioranza intellettualoide che decide chi merita di esistere e chi no, chi può salire sul piedistallo e chi deve educare la folla dal proprio pulpito.

Una maggioranza che ha il potere di distruggere la memoria, di omologare il pensiero, di renderci incapaci di distinguere e di scegliere se non allineati. Non è il pensiero forte, è il pensiero unico che pretende solo adepti e non ammette uomini contrari.

Dante Virgili è stato uno di questi scrittori. Contrario e contrariato, libero fino a morire di solitudine, odioso e odiato. Virgili ha letto il male prima di molti, ne è rimasto affascinato ma non succube, ha pagato con l’intolleranza il suo grido anti-democratico e perennemente onirico. È stato riscoperto dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, per il clamore suscitato dalla ri-pubblicazione dei suoi romanzi.

Nel 1970 viene dato alle stampe ‘La distruzione’: una copiosa e sperimentale composizione che pare una autobiografia corrotta dalla disperazione e dal sogno. La sua lettura è difficile perché criptica, priva di punteggiatura, esaltante e feroce con rimandi a Burroughs e Ballard. Ha una cifra stilistica violenta che addenta l’attenzione ma ti fa scoprire indifeso e quindi più incazzato di prima.

Taglia, copre e scopre, sfrutta un plurilinguismo critico e non contemporaneo.
C’è desolazione e cattiveria, perché soverchia i canoni del dolce e tradizionale romanzo italiano. Virgili costruisce una gabbia intorno al suo io-personaggio, lo costringe ad essere farneticante per non vivere un presente frustrante e non igienizzato.

Questo romanzo è ambientato nel 1956 durante la crisi di Suez: il protagonista è un anonimo correttore di bozze, ex interprete delle SS in Italia durante la Guerra; lavora per un giornale governativo ma è un nostalgico di Hitler. Riesce a sopravvivere ai suoi incubi quotidiani sognando con la fine del mondo un’improbabile rivincita del Terzo Reich.

È un romanzo ossessivo, trasversale, febbrile, assurdo, vero perché pulsante e fatto della nostra materia umana: sanguina e patisce, senza banalizzare mai l’origine di ogni cosa, quell’eterno conflitto tra bene e male. Non c’è ambiguità ma fervido realismo di uno che inventa la parola per fuggire dalla complessità della vita stessa, solo chi non ama la letteratura non può percepire il dolore e la tenerezza delle sue parole.

Fu trattato da misantropo e asociale anche dopo la sua morte: solo dopo interventi esterni di suoi ammiratori la salma sfuggì all’ossario comune. Fu accusato di essere un nazista. Ancora oggi molti nel mondo editoriale lo ritengono tale, pertanto immeritevole di avere attenzione e critica. Non meravigliamoci tanto, noi siamo nell’epoca dell’abbattimento delle statue: oggi i feticci della storia cadono a forza di picconate dal loro piedistallo perché ritenuti razzisti o, comunque, portatori insani di un pensiero corrotto.

Oggi le mani spingono a terra chi prima riceveva applausi e riconoscimenti, ognuno fa la storia come desidera, si inventa il proprio atlante storico-sociale contemplando in una oscura lavagna chi è ritenuto buono e chi cattivo. Come se oggi a sir Churchill fregasse molto di veder sbattuto il suo paffuto muso sull’asfalto.

Quello che ci deve far paura è la scintilla che degenera e porta la massa a scegliere chi è da salvare e chi, invece, da lapidare.

È la stessa folla che osannava il Duce a piazza Venezia o era ipnotizzata dalle moine rapaci del Führer?

È la stessa folla che incitava Craxi a cambiare la storia del Socialismo italiano per poi infangarlo di monetine sotto l’Hotel Raphaël a Roma?

È la stessa folla che esaltava i tiranni di mezzo mondo per poi assalirli e calpestare le loro ossa?

O è la stessa folla che crede nella sua unica verità a costo di offendere la memoria e il pensiero libero di chi non crede al suo nuovo ideale, al nuovo totem creatosi dalla simbiosi malsana di chi vende le ragioni al prezzo speciale del populismo bieco?

La storia la si può riscrivere in mille modi e ognuno può generare la sua fiaba o il suo orrore. Basta ammettere quello che non si può negare e rispettare quelle verità che, seppure non assolute, hanno il dovere di non morire dietro fanatismi sterili e miti sopravvissuti e deliranti.

Ci sono verità scomode ma prepotentemente autentiche, verità che godono di un passaporto diplomatico che possono accedere ovunque, verità prossime all’oblio che abbiamo il dovere di difendere e ricordare sempre.

Le statue sono accessori della storia, sono la preghiera laica a chi abbiamo ritenuto onestamente capace di dare un segnale all’umanità. Pertanto, fragilmente precarie. Qualche volta abbiamo alzato statue a chi meritava di essere reciso dal cordone ombelicale della nostra storia, qualche volta, tante, abbiamo innalzato statua a chi in vita ci stava togliendo la vita.

Non sono le statue che ci devono far paura ma il sentimento che ci costringe a costruirle e il sentimento che ci spinge a distruggerle. Ci deve far paura chi detiene la verità e sa utilizzarla a suo vantaggio o, quanto meno, ci illude di muoversi in ragione di una forza e di una energia che reputa sana ed unica nel suo genere.

Riflettendo sulla falsariga del politicamente corretto non in grado di contestualizzare le epoche storiche si oserebbe infatti di mandare al macero buona parte della letteratura antica, distruggere tutte o quasi le vestigia risalenti all’epoca romana e così via. Di opere d’arte ne resterebbero davvero poche. La storia sarebbe vuota.

Non dovremmo seguire i guru e i mattatori delle verità pseudo buoniste, quelli che sono sempre pronti a trovare un capo-espiatorio, che col ghigno dei primi della classe ci indicano la strada migliore.

Virgili ha pagato perché non apparteneva a nessuna casta, non solo per quel suo carattere di uomo contrario, di visionario impresentabile. Virgili va letto perché ha l’antidoto alla letargia, perché nel suo furore ci costringe a fare i conti con la parte buia della nostra anima, con il segreto che ci portiamo dentro che quando viene fuori a volte è odio e collera.

Non esiste una trama vera ne ‘La distruzione’, c’è lo sfacelo e una impressionante anarchia letteraria che non si inginocchia a nessun stile precedente. Nelle pagine c’è il mondo di oggi o, almeno, una parte di esso. La rappresentazione gotico-realistica dei nostri tempi con una accelerazione che è anche abiezione. Un flusso di coscienza che abolisce la verità consolidando il pregiudizio: ci sono parole che vi faranno orrore e parole che drammaticamente si riveleranno pornografiche. Sono le stesse parole che usiamo oggi a fari spenti, nella gola asciutta del nostro io, quando lo specchio ci restituisce la sagoma buia e deformata di quello che siamo.

Antonio Franchini alla vicenda umana ed editoriale di Virgili ha dedicato un libro ‘Cronaca della fine’, Marsilio, 2003, e ha affermato:

Abbiamo voluto sdoganare l’idea di una letteratura che faccia dibattere e scontrare, capace di ridarci la coscienza che la letteratura è scoprire, errare, riesumare, non consentire a ogni costo, non celebrare qualche vivo e molti morti, non agghindare le loro case e le loro tombe.

In questo libro ripercorre il tormentato iter che portò i funzionari di allora alla decisione di pubblicare l’unica opera apertamente e dichiaratamente nazista della letteratura italiana.

Deflagra la figura intima di Virgili: mostro e visionario, che scrisse in lode al demone che covava l’uovo del suo malessere, un’altra opera terribile e intrisa di paura, ‘Metodo della sopravvivenza’.

Virgili rientra nel mondo dei sommersi e salvati di cui è piena la letteratura. Un mondo dove un giudizio può commettere l’omicidio di una carriera, dove il riscatto della scrittura non ha sempre un lieto fine.

Chi leggerà almeno uno dei due romanzi si troverà asserragliato: vedrà luci e sciabolate, miserie e perversioni, si troverà a guardare negli occhi il male assoluto che è dentro di noi. Quel male che talvolta ci porta ad una verità impalpabile, ingovernabile e, spesso, talmente visionaria da essere.

E pensare che ‘La distruzione’ fu un insuccesso, nonostante si sperasse allo scandalo.

Per Ferruccio Parazzoli, entusiasta a tal punto da auspicarne una trilogia, ebbe a dire:

Ho l’inquietante sensazione che ci troviamo di fronte a uno scomodo capolavoro. Impassibile, tragico e trasgressivo con lucida e maniacale fermezza. Totalmente amorale, non cambia tono sia che parli di Goethe o della carne trita. Scrittura di ghiaccio con sistema nervoso allo scoperto, ma senza sperimentalismi. Prendere o lasciare.

Quello che voleva lasciare Virgili alla nostra letteratura era un romanzo che raccogliesse i cocci di una società agonizzante, dove parolai, criminali e speculatori governavano indisturbati. Voleva cogliere quel deterioramento perché diventasse verbo artistico.

Una società dove

i mass media alimentano un fanatismo dissennato per distogliere il popolo dalla realtà.

Virgili alla fine dovette accettare quel ruolo di solitario e visionario uomo contrario alle regole di ingaggio, ammettendo di aver comunque tutelato la sua libertà, lottando contro tutto, ignorando quella società che lo rigettava, accettando solo libri e conoscenza.

Ma… la prossima volta non saranno eterni santuari. Le città yankee combuste e dilaniate. VEDO i grattacieli di acciaio sotto un diluvio di fiamme.
Dante Virgili – La distruzione

In queste parole non è difficile rintracciare il presagio: la caduta delle Twin Towers, profetizzata oltre trent’anni prima. Quelle colonne di fumo che irrompono lo schermo e diventano storia filmata come se fosse una fiction di rara brutalità.

Disse Karlheinz Stockhausen che l’attentato terroristico era stato

la più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo.

Un paradosso, per metterla piano, che voleva mettere in rilievo un fatto reale: gli attentatori avevano messo di fronte alla lor inaudita opera uno sterminato pubblico senza possibilità di sottrarsi alla rappresentazione. Ecco che la verità subisce il contraccolpo del pensiero scevro dagli archetipi dell’opportunismo del politicamente corretto ma si sublima in una definizione che riconosce l’uomo come essere pensante e che nemmeno il male riesce a plagiare e a deviare.

Insomma, crediamo che si possa parlare, scrivere e confrontarsi su ogni orrore senza essere, per questo, denigrati e accusati di essere filo qualcosa o qualcuno. Virgili era un asociale vero, convinto e forse fiero che vedeva nella maggioranza una filiera ripugnante di deboli.

Per lui, citando Schopenhauer

solo la storia rende un popolo pienamente cosciente.

Dirlo oggi è una vera eresia, saremmo tacciati di essere nazionalisti, seguaci di un filo-razzismo dilagante e messi al bando in attesa del mattatoio televisivo. Per molti Virgili sarà l’ennesimo scrittore annoverato nella banale categoria dei maledetti ma io credo che, in contraltare ad un Pier Paolo Pasolini, la sua voce oggi risulterebbe più genuina anche in un affronto di quella che dobbiamo subire dei saltimbanchi della nuova politica organizzata.

Di lui si direbbe che è un nostalgico del nazismo e di Hitler, probabilmente, ma, almeno, avremmo di fronte un uomo che amava la sua vita accettando, per la libertà di essa, di essere rinnegato dai suoi prossimi.

Anche solo per aver scritto un libro che rivela l’orrore quotidiano e l’urgenza frenetica di accedere ad un’onirica realtà, come fosse un sottopassaggio al cielo degli eletti, per dare un senso a questo misterioso viaggio, tra la noia e la pazzia, che chiamiamo vita.

Chi sono io perché sono qui
Dante Virgili – La distruzione 

 

 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.