Questi mesi ci hanno consegnato storie che avremmo voluto non leggere: ragazzi che uccidono ragazzi.
Vittime e carnefici quasi coetanei, cresciuti nella stessa strada, spesso nella stessa vita.
Amori malati, liti di branco, rabbie che esplodono all’improvviso: dietro ogni episodio c’è lo stesso nodo, un’intera generazione che ha smarrito il valore della vita dell’altro. Maschi e femmine uguali e paritetici in questo contesto.
Non ci interessa il movente, che sia un litigio, una gelosia, un no non accettato. Quel che importa è capire cosa accade in quei secondi fatali, quando un ragazzo spegne ogni barriera morale ed emotiva e arriva a fare del male a un coetaneo; magari in branco.
Quale vuoto può far dimenticare che l’altro non è un ostacolo, ma un essere umano? Che, a quell’età, la vita è un bene sacro, fatto di progetti, sogni e speranze?
La risposta è difficile. Ma il fatto che ragazzi non vedano più la vita altrui come qualcosa da custodire dovrebbe inquietare noi adulti più delle loro armi, dei loro pugni, delle loro coltellate.
Che non sono solo quelle fisiche ma, spesso, anche quelle virtuali o digitali, che vengono inferte tramite messaggi, vocali, immagini e tutto ciò che è possibile mediante uno strumento che vittime e carnefici tengono in tasca e usano sempre di più e dal quale, pare, sono sempre più dipendenti.
Colpa delle famiglie assenti? Della scuola che non è più maestra? Della società senza valori? O di questo cocktail già micidiale a cui si aggiunge altro? Di qualcosa che c’è o qualcosa che manca?
I social non insegnano a uccidere. Ma disabituano a vivere. E questa è già una colpa grave.
Ne abbiamo già scritto, ‘I ragazzi della Via Pál’ erano, a conti fatti, una baby gang ante litteram. Franti, quello di ‘Cuore’ di De Amicis, era un bullo ribelle e odioso. Ma esisteva una differenza sostanziale: esistevano anticorpi.
La società di un tempo sapeva raddrizzare le storture, contenere gli istinti. I ‘Franti’ trovavano lungo la strada maestri severi, genitori presenti, comunità che al momento giusto alzavano paletti, davano uno schiaffo morale – e talvolta reale – che riportava alla realtà.
Oggi, invece, quegli anticorpi sembrano scomparsi. Al loro posto, troviamo i social network.
I social non sono la causa di tutto, ma giocano un ruolo preciso: accelerano, amplificano, deformano.
È qui che un ragazzo impara a fare del rifiuto un’offesa imperdonabile e della violenza una soluzione possibile. È qui che lo schermo trasforma gli altri in ostacoli, in oggetti, in nemici da abbattere. Come nei giochi elettronici, basta un click. O, tragicamente, un coltello.
Non possiamo dare la colpa (solo) ai social. Ma sarebbe da irresponsabili non vedere il buco nero che si è creato. Un vuoto culturale e umano, dove tutto è dovuto, tutto è ego, e nulla è educazione.
Non si uccide (solo) per rabbia o per frustrazione. Si uccide anche per essere visti. Un video, una foto, un gesto estremo diventano un macabro biglietto da visita per ricevere l’approvazione del branco. Una volta si chiamava successo; oggi, deformato dal digitale, si chiama visibilità e approvazione.
Cosa pensare, infatti, di scene di violenza o pestaggi riprese da decine di coetanei che, invece di intervenire, pensano a postare sui loro social la violenza?
Già; postare. I social non creano la violenza, ma la rendono spettacolare. Le pulsioni più basse, che un tempo sarebbero rimaste circoscritte a una stanza, a una strada, a un litigio, ora finiscono online, amplificate da chi guarda, commenta, applaude. E così la violenza si esibisce e diventa contagiosa.
Gli adulti, in tutto questo, non sono spettatori innocenti. Chi si fa video con i figli per raccogliere like, chi misura l’amore con il numero di cuori su Instagram, chi trasforma ogni momento privato in una performance pubblica è il primo responsabile di questa distorsione.
Come possiamo chiedere ai ragazzi di distinguere tra affermazione e spettacolo, tra riconoscimento e ostentazione, se siamo noi i primi a confondere le carte?
Il risultato è che, per alcuni, la vita altrui perde valore: non più un universo di sogni e speranze, ma un ostacolo da superare, uno strumento per ottenere visibilità. Come nei giochi elettronici, l’altro non è un essere umano: è un bersaglio.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.