‘Diceria dell’untore’ di Gesualdo Bufalino e ‘Terra matta’ di Vincenzo Rabito
Capita spesso che, se non sempre, nell’istante successivo la fine un libro a cui mi sto appassionando, prima ancora di posarlo consunto sull’affollatissimo scaffale della libreria, mi trovi a scrivere di esso, o come in questo caso, di due.
E questo perché sento la necessità di fotografare, nero su bianco, la sensazione che il testo mi ha lasciato, con la speranza che tutto lo scombussolamento emotivo di quel momento se ne vada il più lentamente possibile dal mio corpo.
Da persona a cui complicarsi la vita sembra un gioco, invece che una cattiva abitudine, ho deciso di cimentarmi nel difficilissimo compito di provare a restituire a chi mi legge almeno una minuscola parte delle emozioni provate attraverso due libri divorati in questo terribile momento di quarantena.
Il primo dei due è ‘Diceria dell’untore’, di Gesualdo Bufalino, edito da Classici Bompiani ed il secondo è ‘Terra matta’ di Vincenzo Rabito, edito da Einaudi.
Prima di iniziarne l’analisi, vorrei però premettere che quello che cercherò di evidenziare sono le differenze, le analogie ed i contrasti attraverso parallelismi che alcuni potranno trovare forzati ma che in me non hanno cessato, invece, di ronzare nella testa, sperando che questo tipo di approccio diverso rispetto alla classica recensione possa in qualche modo incuriosire.
Innanzitutto, andiamo per gradi e cerchiamo di capire chi erano Gesualdo Bufalino e Vincenzo Rabito.
Gesualdo Bufalino nasce nel 1920 a Comiso, in provincia di Ragusa. Figlio di un fabbro con l’hobby della lettura, già in giovanissima età divora libri a più non posso, dimostrando una curiosità ed una dedizione allo studio sopra la media che lo porta a vincere, nel 1939, il Premio letterario di prosa latina conferito a Roma da Benito Mussolini.
Si iscrive all’Università di Lettere di Catania ma, nel 1942, parte per la guerra. Nel 1943 viene fatto prigioniero. Riesce a scappare, torna a Palermo malato di tubercolosi ed è costretto a ritirarsi in un sanatorio a Conca d’Oro, da cui esce solo nel 1946.
Bufalino da lì in poi vivrà una vita dedita allo studio, alla tranquillità e all’insegnamento presso un istituto magistrale.
Nel 1981, a 61 anni, incoraggiato dal suo amico Leonardo Sciascia, decide di pubblicare il suo primo romanzo, ‘Diceria dell’untore’, a cui ha dedicato tutta la vita dal 1950, ma che ha sempre avuto remore a proporre a qualche editore. È un successo. L’opera vince il Premio Campiello e, in poco tempo, ne viene tratto anche un film.
Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire…
Si tratta di un romanzo che prende spunto dalla sua esperienza all’interno del sanatorio sulle alture di Palermo. Il protagonista è malato di tisi e convive in questo luogo di cura insieme ad altri personaggi, caratterizzati da nomignoli, con cui instaura un rapporto di privilegiata intimità attraverso conversazioni che hanno come argomento per lo più la morte o la natura di Dio.
In questo ambiente malsano l’unica luce è Marta, anche lei un’ospite del sanatorio. E la luce, la redenzione, passerà forse proprio attraverso il rapporto che il protagonista proverà ad instaurare con Marta.
A voi lascio la scoperta di questo commovente libro ed il suo finale.
L’altro lavoro, quello letto immediatamente dopo questa perla di Bufalino, è invece ‘Terra matta’ di Vincenzo Rabito il cui autore ha conseguito la licenza elementare a 35 anni.
Questa nota serve per darci una prima ed esaustiva fotografia dello scrittore.
Vincenzo Rabito, nato a Chiaramonte, in provincia di Ragusa, nel 1899, appartiene alla famosa generazione dei “ragazzi del ’99”, quelli della battaglia sul Piave e dalla grande vittoria italiana sul nemico austriaco.
Morto nel 1981, all’età di ottantadue anni, Vincenzo Rabito ha percorso nella sua “misera et sfortunata vitae” quasi tutto il ‘900.
Ex bracciante e semi analfabeta in pensione, un giorno si chiude nello studio della sua casa di Ragusa, prende la macchina da scrivere e decide di lasciare la più grande eredità ai propri tre figli, raccontare sotto forma di diario tutta la sua vita. Il ragazzo che fu, l’uomo che è stato, il lavoratore e il padre.
Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare.
Ne esce fuori un’opera di più di mille pagine nella quali indugia, con memoria attenta ai particolari più minuziosi, sugli avvenimenti più importanti e quelli meno della sua vita.
Dal suo primo lavoro a sette anni fino alla chiamata alle armi nella Grande Guerra.
Dal suo viaggio come operaio in Africa alla nuova partenza come soldato nella seconda grande guerra.
Ma ci sono anche, anzi, soprattutto, aneddoti di vita quotidiana, racconti di rapporti conflittuali con l’odiata suocera o con la moglie. Spunti ironici e altri sarcastici di come Vincenzo affronta la vita e le sfortune.
Un lavoro immenso ed intimo destinato ai figli o forse ad una simpatica lettura tra amici.
È solo alla sua morte che il terzo figlio, Giovanni, salva l’intero lavoro dalla furia devastatrice della madre e il diario esce per la prima volta fuori dalle mura domestiche.
Quasi vent’anni dopo la morte di Vincenzo, nel 1999, il testo viene inviato all’Archivio Diaristico Nazionale suscitando immediatamente un fortissimo interesse che porta ‘Terra matta’ a vincere il Premio Pieve per la Diaristica.
Nel giro di poco tempo, diviene un caso letterario, superando le quarantamila copie vendute, con successivo adattamento teatrale prima e cinematografico poi.
Fatte le dovute presentazioni degli autori e delle loro opere proviamo ora a tracciare un parallelismo tra questi due importantissimi personaggi ed il loro lavoro.
Innanzitutto, sono entrambi figli della Sicilia e in tutti e due è presente, in maniera molto forte e allo stesso tempo diversa, la sicilianità.
Bufalino è uomo di cultura immensa, amico di scrittori importanti come appunto Leonardo Sciascia, che si dedica tutta la vita all’insegnamento. Ama il cinema francese, il jazz di cui è un profondo conoscitore, ed è anche un importante traduttore di letteratura francese.
Rabito, invece, è tante cose ma men che meno un letterato. Ha conosciuto il lavoro e la fatica sin da piccolo e la sua più grande preoccupazione è quella di far mangiare la famiglia, da giovane la madre e i fratelli e poi crescendo la moglie ed i figli, fino a che questi ultimi non si “sistemano”, lavorativamente.
È contadino, operaio, soldato e nel suo libro non c’è traccia di amore, quello romantico nel senso stretto, ma solo amore verso i familiari.
Ci troviamo dunque davanti a due uomini tanto diversi come il giorno e la notte, l’opposto l’uno dell’altro, ma proviamo ad analizzare queste differenze.
Innanzitutto l’età.
Rabito nasce, come detto precedentemente, nel 1899 e Bufalino nel 1920.
Ventuno anni li separano. Una generazione di differenza, quindi, ma mentre durante la prima guerra mondiale Rabito va al fronte come soldato, combatte e vede atrocità così lontane dal suo mondo bucolico, Bufalino nasce.
Gesualdo ha un papà che lo indirizza alla lettura, a differenza di Vincenzo che, rimasto in giovanissima età orfano di padre, sente su di lui la responsabilità della famiglia e di provvedere ad essa. Nel diario c’è più di un episodio in cui lui stesso esalta la sua curiosità, la sua particolare capacità di apprendimento ed il dispiacere di non aver potuto studiare.
Potremmo continuare all’infinito ma, invece, proviamo a parlare ora delle due opere.
Personalmente ho trovato questi due lavori parimenti belli nonostante le enormi differenze che le contraddistinguono.
‘Diceria dell’untore’ ha una delicatezza e di una raffinatezza stilistica eccezionale e trabocca di figure retoriche. Ogni parola, ogni frase di Bufalino è ricercata. L’uso di un italiano arcaico è puramente votato alla forma e al colpo di scena linguistico. Leggendolo possiamo assolutamente affermare che si ha come l’impressione di osservare un’opera del Bernini con le sue colonne tortili e piene di minuziosi particolari. Ogni perifrasi ricercata sembrerebbe a discapito del contenuto del romanzo ma prestando accuratamente attenzione non è così.
Il tema all’inizio sembra quello della morte:
Com’è difficile stare morti fra i vivi…
Invece, scopriremo che la vera paura sarà quella di ritornare a vivere tra i vivi.
La storia d’amore con Marta è semplicemente un escamotage per affrontare temi a lui molto cari come la speranza.
Dopo ‘Diceria dell’untore’ passiamo a ‘Terra matta’.
La prima cosa che ci balza agli occhi è sicuramente la differenza di forma narrativa. Mentre il libro di Bufalino è un romanzo (e che romanzo) quello di Vincenzo Rabito è scritto sotto forma di un diario. Per di più il diario di un semi-analfabeta, in un italiano dialettale, colmo di errori o forzature linguistiche.
Lo stile di Rabito è sincero e schietto come lui. Si racconta senza filtri di parte, così come narra con crudezza uno stupro a cui è costretto ad assistere oppure l’omicidio in trincea di un suo Caporale da parte di un commilitone che non ce la faceva più ad essere vessato.
Nella motivazione che accompagna il Premio Pieve per la Diaristica, ‘Terra matta’ viene paragonato ad un
Gattopardo popolare per la sua capacità di disegnare un affresco così nitido della Sicilia attraverso gli anni del novecento.
Questa frase ci aiuta a capire l’importanza e la bellezza di questa opera che sta tutto nella sua sincerità e nella sua capacità di simpatizzare con Vincenzo, affezionarci a lui e alle sue vicissitudini:
Questa fu la prima battaglia che io ho fatto.
[…]
E poi che li autriace per 2 ciorne non ci l’hanno voluto fenire più di terare cannonate sopra Monte Fiore. E per tre ciorne fuommo abandunate del Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che la strada era tuta voltata sotta e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e piene di fanco.
E il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto.
La “bestemia per noie era il vero conforto” è il manifesto dell’antitesi dello stile di Bufalino.
A conclusione di tutto possiamo affermare che la discrepanza tra i due libri non risiede solo nello stile o nella forma narrativa. ‘Terra matta’ è un inno alla vita. Vincenzo cerca sempre di sopravvivere lottando contro la morte e gli ostacoli che la vita gli para davanti, narrando il coraggio della lotta alla sopravvivenza.
Invece, ‘Diceria dell’untore’ è più esistenzialista e, forse anche in maniera autobiografica descrive la paura di essere vivi in mezzo alle persone.
Le sensazione che si hanno dopo aver letto entrambi i libri è che ognuno ha una sua poetica forte, personale ma che possono essere in qualche modo complementari.
Per chi trovasse interessanti questi argomenti e volesse approfondirli consiglio di leggere ‘Conversazioni in Sicilia’ di Elio Vittorini e ‘Il mondo dei vinti’ di Nuto Revelli.
Autore Marco Trotta
Marco Trotta è nato a Napoli nel 1981. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico-Artistico alla S.U.N. con una tesi sul restauro del Duomo di Napoli. Ha conseguito un master regionale di “Rilievo architettonico per i Beni Culturali”. Restauratore di beni culturali e poi catalogatore per la Soprintendenza di Caserta. Attualmente è anche redattore per Campaniarock.it e per la prestigiosa Art apart of culture.