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Valzer con Bashir, la necessità di ricordare l’assurdità della guerra

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L’impatto di un’opera come ‘Valzer con Bashir’ su un qualsiasi spettatore rende giustizia all’immensità del Cinema, quella Settima Arte troppo spesso bollata come industria di intrattenimento: questo documentario d’animazione dimostra quanto un film possa essere utile a livello umano, educativo.

Ari Folman è un cineasta oramai affermato nel suo paese, Israele, ma a 18 anni era nell’esercito e partecipò alla Prima Guerra del Libano all’inizio degli anni ’80.

Quel conflitto cominciò per sradicare da quei territori i terroristi palestinesi che lanciavano missili sul nord d’Israele ma, come troppe volte nelle battaglie in Medioriente, portò ad una carneficina di vittime innocenti che ebbe il proprio culmine nel massacro di Sabra e Shatila avvenuto per mano dei Falangisti Cristiano Maroniti.

Ari pare aver rimosso ogni particolare di quei giorni da soldato, eppure non riesce ad accettare questa assoluta negazione della sua memoria di un evento che riconosce essere stato tragico e spaventoso, ma in cui non sa collocarsi: lui c’era, ma non ricorda quale fu il suo ruolo in tutto quello che avvenne.

La necessità di fare i conti con i propri ricordi lo porta a cercare i commilitoni di quel tempo, a farsi raccontare episodi, paure e incubi di quella guerra; grazie a loro anche la sua memoria ricomincia a mostrargli immagini, scene in cui si ritrova, fino a quel fatidico giorno di settembre del 1982 quando, in seguito all’assassinio di Bashir Gemayel, carismatico generale dei falangisti libanesi, entrò a Beirut con l’esercito israeliano.

Il ricordo di quel giorno comincia a farsi sempre più chiaro; Ari torna a quei momenti vissuti in Libano e si rende conto di aver lasciato che a trecento metri da lui avvenisse un massacro di inermi civili palestinesi come ritorsione per l’omicidio di Bashir; non è stato lui ad ucciderli, non sono stati i suoi compatrioti, ma hanno coperto le spalle agli assassini cristiano maroniti di cui erano alleati, li hanno agevolati, aiutati.

Nonostante la forma documentaristica, quasi da inchiesta giornalistica, ‘Valzer con Bashir’ riesce ad essere intenso ed emozionante; la scelta di utilizzare l’animazione amplifica il coinvolgimento perché lo spettatore viene catapultato in una sorta di limbo tra incubo e realtà, lo stesso che colpisce il protagonista inquietato dalla mancanza di ricordi e bisognoso di iniezioni psicanalitiche che ricerca attraverso testimonianze di quella guerra e spiegazioni alla sua condizione.

Le sue interviste si alternano alle scene in Libano e quelle che parevano immagini dell’inconscio si rivelano vita vissuta, tragiche esperienze che la memoria ha tentato di rimuovere o di trasformare in situazioni irreali.

Così affiorano esperienze a dir poco incredibili, come quella di un fotoreporter dell’esercito che, per riuscire a sopravvivere alle impressionanti immagini di morte, si rappresenta il campo di battaglia come un parco a tema dove gli è possibile scattare foto straordinarie, fino a quando, al cospetto di cavalli sofferenti o trucidati, la sua sopportazione vacilla, come se la sua macchina fotografica si fosse rotta, perché gli uomini sono vittime naturali della guerra, ma quelle povere bestie che colpa avevano?!

Boaz, un amico di Ari Folman, gli racconta un incubo ricorrente che il regista utilizza come inizio del film: un branco di 26 cani inferociti attraversa la città diffondendo terrore, fino a giungere sotto casa sua, abbaiando e ringhiando all’infinito, quasi ad annunciargli la fine che lo aspetta una volta uscito.

Folman chiede come faccia a sapere che i cani del branco siano proprio 26 e Boaz risponde che ne è sicuro perché quando faceva parte dell’esercito, il giorno che iniziarono i rastrellamenti in Libano nei villaggi di profughi palestinesi il capitano gli disse che, dato che non era capace a sparare agli uomini, da quel momento in poi aveva l’incarico di ammazzare tutti i cani che, abbaiando al loro arrivo, rischiavano di far scappare i ricercati; ne dovette uccidere esattamente 26 e da allora li ricorda perfettamente tutti, uno per uno.

È in seguito a questi racconti che la coscienza del regista comincia a riaprirsi ai ricordi e, grazie alla testimonianza di un giornalista che gli accosta la visione dei profughi palestinesi che escono dal campo di Sabra e Shatila a braccia levate a quella di una foto dei deportati ebrei che lasciano il ghetto di Varsavia, si rende conto che la sua psiche ha sovrapposto le due tragedie, quella vissuta dal suo popolo e dai suoi familiari e quella che lo ha visto se non proprio da carnefice da complice silente.

Per quanto possa essere impressionante il racconto di simili eventi, il film riesce a regalare scene memorabili a livello visivo che non perdono affatto di intensità con la narrazione animata.

Si va dall’immagine del regista che con i suoi commilitoni in piena notte esce lentamente dall’acqua in una Beirut dai colori infuocati al valzer di un soldato israeliano che, sotto i suoi stessi colpi, sparati all’impazzata verso gli invisibili cecchini, pare danzare forse il suo ultimo ballo.

Il finale straziante che passa dal cartone animato alle immagini reali è un ulteriore quanto sensato pugno nello stomaco, la rappresentazione dell’idiozia della guerra, la negazione della vita verso cui ci si sente impotenti; ed è significativo che queste immagini di morte, del terribile silenzio della morte, chiudano ‘Valzer con Bashir’ improvvisamente, senza altri dialoghi, spiegazioni o didascalie.

L’atroce destino, la perfida casualità ha voluto che il film di Folman arrivasse nelle sale proprio mentre nella striscia di Gaza si consumava l’ennesima carneficina della popolazione palestinese: quasi duemila vittime in poco più di due settimane per una incomprensibile escalation di violenza che non può essere giustificata dalla necessità di Israele di combattere i terroristi di Hamas.

La storia, invece di insegnare, si ripete e il popolo israeliano, che meriterebbe finalmente di vivere libero da quel terrore quotidiano rappresentato dal terrorismo e dall’antisemitismo, è costretto, dai suoi ottusi quanto sanguinari governanti, a diventare l’odiato nemico dei palestinesi, di quella popolazione la cui esistenza è costantemente in balia del fanatico integralismo terrorista di alcuni suoi componenti e dei bombardamenti e rastrellamenti di massa della milizia israeliana.

Ari Folman ha sottolineato che il suo obiettivo con ‘Valzer con Bashir’ era di attirare la gente verso la conoscenza dei fatti, di rendere consapevoli quante più persone possibili dell’assurdità della guerra, di questa guerra tra israeliani e palestinesi in particolare.

Secondo lui, al mondo, ci sono quelli che non credono alla violenza e gli altri, che giustificano le guerre con ragioni diverse, la religione, l’ideologia, la razza, un pezzo di terra; giocano alla guerra senza vedere la sofferenza delle persone, la distruzione, i bombardamenti sono la soluzione più facile per chi non si interessa di tutto questo.

Un film del genere è importante soprattutto perché fatto da un israeliano che è stato un soldato. Al giorno d’oggi quasi tutto si dà per scontato e la visione di ‘Valzer con Bashir’ vuole sfidare proprio questa convenzione, aiutando a riflettere a prescindere dalle verità imposte dai media tradizionali.

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Autore Paco De Renzis

Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.