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Uomini, bestie e anima

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Tra bellezza e consapevolezza, alla ricerca dell’umanità

In lavori precedenti abbiamo parlato di anima, di umanità. Discorsi molto complessi ed articolati, sui quali probabilmente non si giungerà mai ad una conclusione, a maggior ragione impossibili da esaurire nel ristretto spazio di un articolo.

Qualche questione abbiamo provato ad approfondirla, altri fili li abbiamo lasciati appesi. Qualcuno lo riannoderemo adesso, altri in un prossimo futuro.

Altre suggestioni, probabilmente, resteranno solo tali.

Spesso seguiamo semplicemente il corso dei pensieri, come in un meccanismo di associazioni libere freudiane. Frammenti di esperienza personale o di cronaca ci portano ad una spinta quasi compulsiva a scrivere, ad esprimerci.

Alcuni aspetti li abbiamo maggiormente sviscerati, come quelli relativi ai tratti che nella letteratura di settore vengono indicati come le possibili differenze tra l’uomo e gli altri animali: la cultura, il linguaggio, la morale.

La conclusione sconfortante ma provvisoria ci aveva portato ad isolare come unico tratto esclusivamente umano l’ipocrisia.

Altri raffronti potevano essere ancora meno lusinghieri. L’uomo è l’unico animale che uccide per il piacere di farlo.

Qualche mese fa si è parlato molto di una storia a lieto fine, quella di Freddie Figgers, abbandonato da bambino nella spazzatura in un paesino rurale della Florida e poi diventato milionario grazie al suo genio informatico.

Se la stampa lo ha individuato come simbolo di riscatto, di mobilità sociale, come l’incarnazione del sogno americano, le riflessioni che la vicenda ci suggerisce sono più amare.

I casi di abbandono di neonati non sono rari. Già questo farebbe pensare. Ma sapere di genitori, di madri, che abbandonano neonati nell’immondizia, addirittura chiusi in sacchetti, ci fa accapponare la pelle.

Avete mai provato a toccare i cuccioli di una gatta? O di un’oca?

Non è per niente consigliabile.

Evitiamo volutamente riferimenti alla cronaca di questi giorni. Il discorso vuole essere più ampio e preferiamo evitare possibili spunti polemici che finirebbero solo per svilirlo.

Preferiamo riferirci a quelli che individuiamo come possibili universali, che hanno bisogno del dovuto distacco per essere presi in considerazione, invece di esempi che per la portata emotiva inquinerebbero la necessaria razionalità.

In un articolo successivo abbiamo, invece, affrontato il discorso della bellezza. Provando a segnare almeno un punto a nostro favore.

Effettivamente l’uomo sembra essere l’unico animale che ricerca la bellezza, che produce arte come tentativo di esprimere una bellezza sia pure costruita.

Pur di fronte a questa ‘concessione‘, avevamo accennato alla difficoltà sempre maggiore non solo di produrre bellezza, quanto di percepirla.

Parlando sempre del bello in se stesso l’abbiamo definito, in un precedente articolo, come qualcosa di assolutamente soggettivo.

Quindi cosa intendiamo quando ci riferiamo ad un mondo in cui il bello è sempre più raro, se poniamo questo come esperienza individuale?

Nello stesso lavoro, facendo riferimento ad un passo di Kant eravamo giunti al rapporto tra bellezza e piacere, che si sembrava fondamentale.

Per discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se non soggettivo.
Immanuel Kant – Critica del giudizio

Ne rintracciamo qualcosa di oggettivo. Se il motivo scatenante può essere diverso per ognuno di noi, la bellezza deve necessariamente essere legata ad un sentimento di piacere.

Per me può essere un brano lirico, per qualcun altro un pezzo rock.

Posso essere colto dalla sindrome di Stendhal davanti ad un Caravaggio, ad un Picasso o ad un Kandinsky.

Oppure, può essere sufficiente contemplare un paesaggio marino, il volo di una farfalla, i colori di un tramonto, i petali di un fiore.

Non importa.

La cosa che unisce esperienze apparentemente così distanti è l’emozione legata alla percezione del bello.

Ma siamo ancora capaci di provarla?

Cosa resta all’umanità senza arte, senza bellezza?
Si continua ad essere uomini?

Era questo che ci chiedevamo in uno degli articoli citati in precedenza.

Ma andiamo oltre.

Prima parlavamo dell’istinto volto alla difesa della prole in altre specie.

Cosa accade in questo altro campo, invece? Siamo gli unici a provare questo tipo di piacere?

Per quanto attiene al mondo animale, il discorso fu affrontato per la prima volta da Darwin.

Per il padre dell’evoluzionismo nei rituali di accoppiamento si parte dalla bellezza come utilità, ma sembra che si possa parlare di un vero e proprio senso estetico.

Darwin distingue diversi tipi di bellezza.

La prima è quella non-estetica; è il caso di specie di vita semplici, come i coralli o le meduse, per le quali l’aspetto non ha nessun vantaggio evolutivo o in termini di possibilità di accoppiamento.

La seconda è quella proto-estetica, ed è invece propria, ad esempio, dei fiori. Le differenze con il caso precedente sono varie. Esiste un aspetto relazionale, la bellezza è rivolta a qualcuno ed ha una funzione riproduttiva.

La vera e propria bellezza legata ad un senso estetico, sempre secondo Darwin, è quella che viene percepita quando serve ad attirare gli esemplari della stessa specie per l’accoppiamento sessuale.

La prima osservazione riguarda le farfalle. Gli esemplari maschi con le ali più belle sono scelti dalle femmine che così hanno portato ad una selezione naturale e ad una maggiore presenza in natura.

Nelle femmine, dunque, esisterebbe un senso del bello.

Volendo dare per scontate le conclusioni di Darwin, appare evidente come il tutto sia limitato alla desiderabilità sessuale.

Anche in questo caso, però, il maschio selezionato dovrebbe avere altre caratteristiche che dovrebbero portarlo ad essere quello più adatto a perpetuare una specie.

Immaginiamo, per assurdo, che ad un certo punto dei maschi di una varietà di farfalle possano sviluppare dei tratti per i quali sarebbero preferiti dalle femmine per una questione estetica ma contemporaneamente si trovino ad essere più deboli, meno longevi, o anche solo meno prolifici. Quella varietà finirebbe, a breve o a lungo termine, per estinguersi.

Ancora, si dovrebbe discernere quanto può essere legato ad un aspetto semplicemente cognitivo.

Un fiore dai colori più vivaci e sgargianti potrebbe essere scelto da un’ape solo perché più facilmente individuabile; in questo caso ogni considerazione estetica verrebbe meno.

Inoltre, mancano studi che confermino le teorie di Darwin secondo le quali tratti del maschio provochino effettivamente maggiore piacere nell’accoppiamento.

Ma la questione non ci interessa.

Preferiamo recuperare quella che lo scienziato evoluzionista definisce bellezza non-estetica.

Che ci riporta al sentimento di piacere di cui parlavamo prima. E che non ha nessuna finalità riproduttiva, o evoluzionistica.

Che può essere anche qualcosa di profondamente intimo.

Ascolto una canzone da solo, per un momento estetico esclusivamente mio.

Resto rapito da un dipinto perché in me suscita delle emozioni.

Ed è un momento soggettivo, personale, che vede solo nell’arte il momento relazionale di chi produce un’opera per creare bellezza, per trasmetterne piacere.

Ed è palese come le convenzioni sociali possano condizionare la percezione estetica.

La cultura, che comunque media il senso del bello, è un altro fattore esclusivamente umano.

Musica che qualche secolo fa sarebbe stata etichettata come rumore oggi coinvolge un numero sempre più alto di appassionati.

Ma gli esempi si sprecherebbero, non è certo quello che ci preme dimostrare.

La bellezza per la bellezza, fine a se stessa, potrebbe essere un tratto distintivo dell’umanità.

In un altro articolo, abbiamo parlato di anima, rifacendoci, pur senza nominarlo ad un film del 2003, 21 grammi.

Nel 1907, Duncan MacDougall, pesando 6 persone al momento della morte, rilevò che subito dopo il trapasso il peso era diminuito proprio di 21 grammi. Da cui lo spunto cinematografico.

E se fosse l’anima a percepire la bellezza?

Se questa percezione dovesse affinarsi, elevarsi con lo sviluppo della Consapevolezza?

Se consapevolezze meno evolute fossero legate ad un senso estetico più rudimentale, relazionato esclusivamente all’aspetto sessuale, alla sopravvivenza della specie?

Se così fosse, perché l’umanità sta perdendo sempre di più il piacere estetico?

La conclusione dell’articolo precedente, ovviamente provocatoria, era che certi meccanismi sociali ci stanno privando di quei 21 grammi.

Adesso potremmo concludere che forse quello di cui ci stanno defraudando è la consapevolezza.

Se stessero anestetizzando le nostre coscienze, come accade per la rana di Chomsky?

Le domande si ripropongono.

Anche se in forma diversa.

Qual è il minimo di consapevolezza che serve per considerarsi umani?

E quello per cogliere la bellezza?

E se dovessimo smarrire anche quella legata alla riproduzione, alla conservazione della specie, cosa resterebbe di noi?

Cosa saremmo?

Ancora uomini, o qualcosa da porre al di sotto degli animali in una scala evolutiva?

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Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.