Gli eventi di cronaca che ci spingono a realizzare la ridotta garanzia di sicurezza per la fisicità della propria persona, in inglese unsafety, e come ciò sia una insicurezza della collettività delle persone che, come accade, sono colpite proprio quando sono insieme.
Questa accettazione è la base della condizione per ognuno di insicurezza esistenziale, insecurity, e quindi del senso più ampio, più presente e rappresentabile di incertezza, di uncertainty. Per via della unsafety ci siamo trovati ad invocare ed accettare misure straordinarie che ambiscono a ridurre i rischi personali o a mitigarne il risvolto.
Ma, ricordando l’etimo di sicurezza da sine cura, non è forse che la creazione di paure e nuove paure concatenate possa tendere a far incedere alla richiesta di protezione sempre più ampia perché di fatto si nega la necessità e l’appello di cura per il bisogno connaturato alla singolarità della persona umana? Non è forse che affermando il perseguimento della condizione di sicurezza, sine cura, di fatto si neghi la condizione ed il ruolo dell’alterità?
Questo al tempo stesso ha favorito lo sviluppo di comportamenti basati sul sospetto, sul prendere le distanze. E la reiterazione di questi comportamenti assurge oramai a cultura dell’isolamento fino alla non accettazione della diversità. La non conformità è il primo motivo di sospetto.
Al tempo stesso siamo disposti a scendere in piazza manifestando, gridando e bloccando strade e città come nel caso, che non sarà l’ultimo, di Charlie Hebdo e tornando il giorno dopo nella routine quotidiana. Ma questo è anche il sintomo di una condizione patologica accessoria ed aggiuntiva, ma non meno grave, della nostra condizione umana che viene spinta alla ritualizzazione di un eccesso offerto in contrapposizione ad un altro eccesso, giustificando, così, in una mortale equazione l’eccedere. Ricordate le lapidazioni, le impiccagioni, le ghigliottine, le fucilazioni, la sedia elettrica.
La ritualizzazione dell’eccesso è offerto in mancanza e/o per la privazione di spazi fisici e sociali di esercizio di capacità della socialità. Questa affermazione parte dalla considerazione che anche le nostre città sono, di fatto, divenute infide alla vita all’aperto dei nostri ragazzi, sono funzionali, e spesso mal funzionanti solo per l’apparato produttivo.
Gli eventi di cronaca che ci spingono a realizzare la ridotta garanzia di sicurezza per la fisicità della propria persona, in inglese unsafety, e come ciò sia una insicurezza della collettività delle persone che, come accade, sono colpite proprio quando sono insieme. Questa accettazione è la base della condizione per ognuno di insicurezza esistenziale, insecurity, e quindi del senso più ampio, più presente e rappresentabile di incertezza, di uncertainty. Per via della unsafety ci siamo trovati ad invocare ed accettare misure straordinarie che ambiscono a ridurre i rischi personali o a mitigarne il risvolto.
Ma, ricordando l’etimo di sicurezza da sine cura, non è forse che la creazione di paure e nuove paure concatenate possa tendere a far incedere alla richiesta di protezione sempre più ampia perché di fatto si nega la necessità e l’appello di cura per il bisogno connaturato alla singolarità della persona umana? Non è forse che affermando il perseguimento della condizione di sicurezza, sine cura, di fatto si neghi la condizione ed il ruolo dell’alterità?
Ovvero, siamo sempre più assecondati alla mancanza di spazi che sappiano essere privati e pubblici al tempo stesso ove poter avere la serenità di rappresentare la propria uncertainty, la propria sofferenza, ove condividerla, ove lanciare l’appello ed esercitare l’ascolto.
Mancano sempre più spazi dove esser consci di sé stessi a sé stessi, ove potersi rappresentare ci apra la possibilità di idee ed azioni che partendo dal miglioramento della personale vita interiore, propria come quella propria dell’altro, ci si possa condurre alla realizzazione di azioni rivolte al bene comune.
Mancano agorà. Manca quello spazio dove la ricerca di senso ci vorrebbe, dove ci porterebbe, e dove si esercita l’agéirein, il radunare, il condurre. Il nome agorà deriva dalla stessa radice di ageiro, raduno, e indica nel mondo omerico l’assemblea dei liberi; più tardi passò a significare il luogo nel quale si riuniva l’assemblea e quindi il cuore pulsante della città.
A volte accade, e per fortuna solo a volte, ma accade, che la sofferenza sia aggravata dall’insofferenza, ovvero dalla perdita di capacità a sopportare, a tollerare qualsiasi cosa, e peggio ancora, qualsiasi cosa che sia all’interno di un qualsiasi ordine delle cose.
Succede che nella società corrente alcuni si connotano del totale distacco e della totale avversione ad ogni conformazione sociale. La solitudine e la debolezza di costoro viene fatta esplodere con le bombe e con le armi che gli possano permettere di distruggere con le stesse pezzi di aggregazione sociale e con questi tutti coloro che vi partecipano.
La sofferenza interiore del singolo viene, di fatto, trasformata in arma da coloro che perseguono il terrore come strumento ai loro fini. Chi decide di terminare la sua condizione terminando la vita di molti lo fa colpendo nelle agorà. Tentando e riuscendo a sottrarci alle stesse. Anche per il timor di esser colpiti. Provar paura, per la violenza che colpisce gli spazi sociali ci porta quasi istintivamente a ridurne la frequentazione.
Al tempo stesso questa violenza, con le paure concatenate è il più grande alleato di chi tende a far credere che il pensiero di ognuno sia irrilevante fino all’impotenza. È alleato di chi teme che il pensiero espresso, condiviso in tutte le sue espressioni anche estetiche, abbia il potere di condurre. Facendole perdere, svuotare ed inaridire, così, per ben due motivi contrapposti.
Ma, ritengo, che occorre ascoltare l’edicolante come il ristoratore che ci dicono: io non chiudo! Come anche di ascoltare e comprendere le note suonate dal pianista davanti il BataClan che ritmano, continuare ad essere ed esserci.
Occorre riflettere sul rischio di riduzione dei già troppo scarsi standard sociali in risposta alla paura.
Autore Alfredo Marinelli
Alfredo Marinelli è Professore di Oncologia presso l’Università Federico II di Napoli, nonché docente e componente del board scientifico dell’Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale “Luigi De Marchi” di Roma. Oltre che di pubblicazioni scientifiche è coautore di testi universitari per Mcgrow Hill et al. È componente del Grande Oriente d’Italia – Massoneria Universale. Profilo ed attività presenti su www.Linkedin.com