Ottant’anni dopo Alfred Hitchcock (1927), il testo teatrale ‘Virtù facile’ di Noel Coward viene riportato sul grande schermo da Stephan Elliott. Inutile ricercare inesistenti similitudini tra le due messinscene: solo i nomi dei personaggi restano immutati.
Sir Alfred, ancora agli albori della sua carriera, accentuò la chiave misteriosa della storia narrando una sorta di dramma individuale della protagonista che con la sua “virtù facile” condiziona la vita di tutti intorno a lei; il film era muto e quindi decisamente in balia delle scelte visive di Hitchcock, nel bene e nel male.
Il regista australiano ha eluso con intelligenza il confronto con la direzione del maestro del brivido mutando completamente il senso della vicenda: Elliott ha diretto una commedia classica e di ampio respiro, mettendo in evidenza le contraddizioni di ognuno dei personaggi, i differenti modi di pensare e le manie di stili di vita agli antipodi.
Umorismo sfacciato o sottile, ma sempre “all’inglese”, che devasta anche le scene più semplici, quelle cosiddette di passaggio; il lavoro di scrittura di ‘Un Matrimonio all’inglese’ è straordinario perché ogni singolo dialogo è servito in maniera deliziosa per tagliare qualsiasi tentativo di virata buonista della storia.
Una storia semplice, dopotutto: tra anni ’20 e anni ’’30, un ragazzo inglese, John Whittaker, di famiglia più che benestante conosce, si innamora e sposa Larita, un’americana più grande di lui, spigliata, fin troppo socievole e gelosa della propria libertà, del suo stile di vita, acquisito in un passato non troppo chiaro.
Tutto bene fino a quando non arriva il momento di farla conoscere a suoceri e sorelle, che abitano a dir poco imbalsamati nella campagna inglese; nonostante gli sforzi della “yankee” di essere accomodante e di cercare di adattarsi alla nuova realtà la situazione è tutt’altro che idilliaca e l’ostilità delle componenti femminili della famiglia Whittaker diventa sempre più insostenibile.
Gli unici che paiono essere dalla parte di Larita, oltre all’innamorato John, sono il maggiordomo e il suocero, un reduce della prima guerra mondiale che da quando è tornato a casa vive senza tante aspettative e alcuna emozione in balia di una moglie dispotica e nevrotica.
Con il passare dei giorni e a causa di eventi tanto tragici quanto paradossali, il conflitto non pare avere possibilità di tregua e la soluzione, inevitabile anche se imprevedibile, servirà da insegnamento a tutti i protagonisti della vicenda.
Il cast di ‘Un Matrimonio all’inglese’ è da elogiare complessivamente con alcuni plausi da fare in particolare: le piacevoli sorprese che sono venute dai due protagonisti, Jessica Biel e Ben Barnes, hanno avuto un supporto notevole da due interpreti eccezionali come Kristin Scott-Thomas e Colin Firth, che hanno disegnato due maschere d’altri tempi nei panni dei coniugi Whittaker.
Addirittura memorabile Kris Marshall nel ruolo del maggiordomo Furber, esilarante nel suo umorismo cinico e imperturbabile; brave Kimberley Nixon e Katherine Parkinson che, nella parte delle cognate di Larita, ricordano non tanto alla lontana Anastasia e Genoveffa, le sorelle di Cenerentola.
Elliott, a dieci anni dall’insipido ‘The Eye’, è tornato a fare commedia ed in maniera egregia, con uno stile narrativo impeccabile e divertente e con una tecnica registica per nulla invasiva; forse proprio la regia non può ancora definirsi ai livelli del suo lavoro migliore, ‘Priscilla – la regina del deserto’, ma la scelta di privilegiare l’incisività corrosiva dei dialoghi e l’umorismo pungente gli hanno permesso di dare vita a un bel film.
Autore Paco De Renzis
Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.