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Un indovino mi disse…

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Cambogia 2005

Dopo una settimana tra Sam Rong e Siem Reap avevo terminato i libri destinati al mio viaggio. Quella sera bussai alla porta di Ivan, alla Smiley’s Guest House, in cerca di qualcosa da leggere. “Un indovino mi disse” fu il primo titolo. Conoscevo Terzani, ma solo come “ombra”. Non avevo mai letto un suo libro. Ora mi si presentava davanti. Ora la sua diventava la mia “ombra”.

Lessi quelle pagine. Ascoltai quelle parole. Quelle parole scritte in Asia, in questa parte d’Asia martoriata, dimenticata, ferita e assassinata migliaia di volte.

Nel 1976 un indovino ad Hong Kong disse a Terzani di non volare per tutto il 1993, avrebbe rischiato di morire. Capodanno 1993, Laos. Terzani conservò dentro di sé quella profezia e il 1993 trascorse viaggiando tra Asia, Russia e Europa via terra e via mare. In quegli anni era corrispondente per Der Spiegel che accettò la scelta fatta dal suo uomo in Asia.

Il 20 marzo di quel 1993 un elicottero delle Nazioni Unite precipitò in Cambogia. Morirono 15 persone. Tra loro c’era il giornalista di Der Spiegel che aveva preso il posto di Terzani in quell’anno sabbatico.

Dal quel momento Terzani divenne l’ombra del mio viaggio. A volte mi fermavo e provavo a immaginarlo percorrere i miei stessi passi. Il suo fu un viaggio simbolo. Un viaggio ad altezza d’uomo, lento, che seguiva l’andare naturale del tempo. Lo seguii.

Un giorno dissi a Barang, Chum Barang che faceva parte dei collaboratori locali, di voler incontrare un indovino. 5 dollari e un futuro roseo. Era il 15 agosto. Incontrai Voun (Uoun) Onn. Cinquanta anni, laureato in economia, iniziò lo studio, la comprensione, l’interpretazione dei numeri, delle date, dei segni del corpo nel 1979, dopo la caduta di Pol Pot.

Il suo maestro, un vecchio dalla lunga barba bianca e sopracciglia folte che solo lui poteva vedere, gli appariva in sogno, gli parlava e Voun prendeva nota. Mi raccontò del mio passato e scrisse il mio futuro su un pezzo di carta bianco. Porto sempre con me quel foglio scritto in Khmer. Barang mi disse di conservarlo.

Quell’uomo “anziano”, quell’indovino, era uno dei più importanti di Sam Rong. L’ultima generazione di quell’arte divinatoria antica quanto l’uomo che cercava di interpretare il mondo, i fenomeni attraverso i segni e i simboli di una natura in continua mutazione. Così antica, così intrinseca nell’essere umano da esistere in ogni cultura e in ogni tempo.

La necessità e il bisogno dell’uomo di spiegare, capire, indagare la realtà che lo circonda e di cui è parte, sta alla base della cultura umana primordiale. L’emanazione del divino in contatto costante con l’uomo. L’uomo sempre alla ricerca del sé attraverso la natura. Attraverso i simboli. L’uomo alla ricerca del sé attraverso il viaggio e la conoscenza.

Attraversavo il cammino di Terzani tra la gente comune, le tradizioni, i vari indovini e stregoni che in ogni luogo consultava. Il mio cammino attraverso villaggi, racconti, storie dimenticate e cicatrici ancora vive. Il mio viaggio avendo le parole di Terzani al mio fianco, come un’ombra sempre presente che non lascia mai i tuoi piedi.

I templi ti fanno compagnia. Compaiono all’improvviso in una radura. Tra alcuni alberi scorgi delle rovine. Mi fermavo. Un ponte di pietra con leoni ormai distrutti. Una testa, una zampa. Un corpo che era l’immagine di un popolo.
Divinità e re che giacevano ormai a terra. Il ricordo di un regno, quello Khmer.

Il centro spirituale a Siem Reap, l’Angkor Wat. L’unico motivo che spinge i turisti ad addentrarsi in un mondo così distante da loro. Si vedono passare per i tre giorni di tour come avvolti in una bolla. Chiusi nella propria realtà che hanno paura di contaminare con questa. Che hanno paura di sfiorare e vedere, osservare, capire il perché di queste menomazioni. Il perché della memoria cancellata.

La Cambogia dei vasti campi di riso che si alternano a villaggi e foreste, del Mekong che la percorre da Nord a Sud, dei confini indefiniti che variano anno dopo anno. Una terra ricoperta di mine anticarro, antiuomo, di mine giocattolo che è rossa per il sangue di cui impregnata.

Quella Cambogia che cerca di sconfiggere il fantasma di Pol Pot, degli americani, dei francesi. Quella Cambogia che si racconta attraverso i nomi delle persone che non hanno più cognome, che non hanno più memoria. Che si racconta nei mercati, nelle città lasciate al proprio destino, che vive nei villaggi dove il tempo è lontano.

La Cambogia che si ferma e pensa. La Cambogia dalle palafitte alte sotto le quali gli animali si rifugiano durante i monsoni e la notte. Le palafitte attraversate dal fiume.
La Cambogia che piange il proprio dolore in silenzio e senza farsi vedere.

Simboli, tutti questi, del viaggio ad altezza d’uomo.
Ho percorso quella Cambogia.

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!