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Un agosto italiano

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agosto


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Cerco l’estate tutto l’anno
E all’improvviso eccola qua.
Paolo Conte – Azzurro 

Nell’agosto del 2004 perdevo cinque milioni di euro al giorno, sono entrato in azienda e in ufficio non c’era nessuno. Mi è stato detto che il personale era tutto in ferie e io mi son chiesto: ma in ferie da cosa?

In un’azienda che fondamentalmente è una multinazionale, in Brasile e in America in agosto si lavora, ma la FIAT chiudeva.

Questa affermazione del compianto manager della FCA, Sergio Marchionne, nel maggio 2013 rivolta agli studenti dell’Università Bocconi scatenò un consenso unico. Ci fece sentire tutti in colpa, sgretolò le nostre certezze italiote, fece divampare quel senso di provincialismo tipicamente raccontato da alcune commedie del nostro cinema.

Non sono trascorsi nemmeno dieci anni da quella frase così arguta e, per lunghi versi, assai coerente per le dinamiche che impattano l’uomo aziendale. Si intercettava in maniera lampante un evidente rigetto verso un certo modo “fiscale” di intendere il lavoro: gli applausi vennero un poco da tutti i ceti della nostra scala societaria.

La pigrizia italiana veniva smontata, quel modo diretto ed essenziale come era nelle corde dell’uomo che aveva reinventato la FIAT, annientava. senza troppi compromesse, se non con una punta di arrendevole amarezza verso i suoi compatrioti, un concetto stereotipato che era parte integrante del modello di vita dell’italiano medio e no.

Dopo oltre un decennio, la situazione sembra essersi capovolta. L’homo pandemicus ora ha resuscitato – se mai fosse morta – l’esigenza di tornare a vivere dettando lui l’agenda della sua esistenza, magari facendo a meno del successo e delle sue ambizioni.

A proposito di successo: quella frase di Marchionne veniva da una lieve ma costante crescita economica dopo la lunga crisi iniziata nel 2008. Era l’inizio del boom digitale. Eravamo tutti al centro di un sogno, si insinuava ovunque l’idea che il successo premiasse la professionalità e l’impegno.

L’Italia imparava ad essere gestita dai tecnici, mentre i politici si facevano da parte perché troppo presi dal difendere la propria poltrona, evitando di sporcarsi le mani in prima persona. I partiti litigavano, facevano pace, si accoppiavano e poi abbandonavano magari come un lascito un mini-movimento sotto la soglia dello sbarramento elettorale.

Tutto questo sognare pretendeva soldi e ricchezza, i social cominciavano a divenire lo specchio delle nostre cattive intimità e la fiction delle nostre buone intenzioni. Per questo, il lavorare diventava sempre di più una patente: più uno menava le mani nel suo ambiente, più riscuoteva successo e veniva catapultato sulla nuvoletta dell’Olimpo. Insomma, più uno lavorava e lo faceva con forte senso di appartenenza alla sua categoria, più si potevano far crescere le probabilità di scalare la vetta del successo.

Oggi in pieno flusso e riflusso pandemico, con una guerra sempre più a tinte mondiali fuori le mura di casa nostra, è sicuramente mutato qualcosa in noi, più che nella società che abbiamo costruito.

Ne abbiamo parlato anche in un precedente articolo, il forte rischio che si vive di questi tempi è derivato proprio dal sovraccarico scaturito dal mancato equilibrio tra lavoro, vita e tempo. In tilt siamo andati tutti e qualcuno ha scoperto che quella che poteva essere a prima vista una certa fragilità, era diventata la reazione di un corpo e di una mente stanchi di essere tra il cortocircuito e lo spasimo dell’ultimo chilometro.

Si è parlato di burnout, ovvero la pesantezza mentale e fisica da lavoro dovuta ad una incapacità di staccare la spina e di smettere di essere sempre reperibili, sempre dipendenti dall’approvazione altrui. L’effetto può essere anche più irruento e comportare disagi nella personalità, sconvolgendone la vera immagine, completando un distaccamento tra realtà e doppia vita, suscitando un senso di precarietà ambiguo.

Una condizione preoccupante, che può interessare molte professioni, in particolare quelle caratterizzate da ruoli sociali con un carico emotivo rilevante, come medici, infermieri, insegnanti, formatori, personale delle forze dell’ordine, manager. Ora si cerca un lavoro più flessibile e più auto-gestito: lo smart working, come abbiamo detto in passato, è stato il cavallo di Troia per ritrovare certi valori.

Non sarà di certo un caso se l’Organizzazione Mondiale della Sanità di recente ha riconosciuto questa sofferenza, ovvero lo stress, la perdita di energia e di interesse sul lavoro, l’atteggiamento di stanca e pensosa se non penosa disillusione verso se stessi e verso la vita, come una vera e propria sindrome, con specifici sintomi che vanno tempestivamente riconosciuti e curati. Tanto è vero che alcune aziende importanti sono corse al riparo: lo scorso anno Nike ha donato ai dipendenti una settimana extra a casa, prima del rientro in ufficio. “Do not work”, non lavorate, la lezione da imparare a memoria imposta da Matt Marrazzo, manager della divisione marketing della sede centrale dell’azienda, in Oregon.

L’applicazione di dating al femminile, Bumble, ha accordato sette giorni retribuiti di tempo libero ai suoi dipendenti a giugno sempre dello scorso anno. La medesima strategia identificata da Linkedin ad aprile, congedo extra retribuito per evitare che l’esaurimento delle energie fisiche, ma soprattutto nervose, producesse danni sul posto di lavoro.

Insomma, bisogna staccare, altrimenti il rischio di stress è dietro l’angolo. E lo stress estivo può causare danni nel recupero della piena quotidianità a settembre: si ritorna stanchi, già scarichi e privi di voglia nel riprendere le abitudini lasciate per un poco di tempo.

Agosto con la calura, ma anche luglio, poi fa degenerare ogni situazione: si vive sotto lo stesso cielo come un capriccio involontario, il sudore è il collante ad una frustrazione sempre più crescente e quel continuare a guardare il cellulare non è la noia che ti fa bene, ma la paura di stare troppo fuori dal tuo mondo.

E rimani lì a fissare le mail e i messaggi delle innumerevoli chat, rispondendo a tutti e provando a non staccare per niente quella spina che il tuo aggancio alla sicurezza che ti sei costruito. Che imprechi ogni giorno ma che, alla fine, è il tuo non luogo perfetto.

Vuoi vedere che, in fin dei conti, Marchionne, da illuminato quale era, aveva intuito, al di là del puro tema economico che poteva impattare, che bisognava staccare la spina non per forza ad agosto ma, magari come avviene in altri Paesi, nei periodi antecedenti alla piena estate? Così da salvare tutto: la nostra mente e il comune portafoglio. Chissà…

Personalmente, non amo agosto: da bambino lo vedevo come un mese che non ti lasciava grosse speranze. Al contrario di giugno e luglio che ti facevano illudere in un’estate infinita, agosto mi appariva come una clessidra capovolta che ti rosicchiava i giorni prima di tornare a scuola, che io amavo.

Forse, anche perché non ho vissuto estati da nababbo come tantissimi di voi: una cabina in un lido verso la zona flegrea, un pallone da tenere custodito contro ogni invisibile nemico, qualche paletta e secchiello per sentirsi un aspirante ingegnere e poi tanta luce azzurra sotto un sole che non era così violento come quello di oggi. Una sensazione che, sicuramente, un lettore scienziato mi annullerà, scagliandomi contro tutte le temperature dal 1980 comprovando la mia ignoranza.

La mia estate era tutta lì: nell’anguria e nelle bibite ghiacciate stipate dentro un contenitore che in quei due mesi diventava uno di famiglia che doveva essere trattato con i guanti bianchi. In estate da bambino non mi sono mai innamorato: ero perso dietro ai due mesi precedenti che non avevano mantenuto le promesse e mi rivolgevo al mio agosto targato Italia con una certa bile, illudendomi che settembre sarebbe stata la mia rivincita. Sbagliavo lo so, ma in fin dei conti anche io, nel mio piccolo, pensavo: “Ma in ferie da cosa?”

Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente
Con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente.
Fabrizio De André – Canzone per l’estate 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.