Giugno 2018
Ricordo esattamente la mattina in cui inviai queste note al mio amico fraterno Armando. Era una mattina calda e pesante e mi trovavo a Siem Reap in un internet point con lo zaino stretto tra i piedi, la macchina fotografica attaccata in vita e il taccuino vicino la tastiera del PC.
Ricordo perfettamente quello che sentivo mentre scrivevo le pagine del taccuino il 22 agosto del 2005 alle 6 e 20 del mattino a Sam Rong, un villaggio al nord della Cambogia.
Ho apportato qualche correzione, necessariamente dovuta, a quelle righe scritte quasi al termine del viaggio nel paese dai confini labili e incerti, rannicchiato tra Thailandia, Laos e Vietnam. Un paese chiamato Cambogia conosciuto soprattutto per tre motivi: Pol Pot, i Khmer Rossi, i templi di Angkor. Il primo è morto, anche se il dubbio aleggia ancora nell’animo di qualcuno, i secondi si sono integrati nel miglior modo che hanno potuto con il resto della popolazione, i templi stanno lì, ricordando ogni giorno alla folla di turisti chi era il popolo Khmer.
Queste tre cose si fondono insieme ai loro figli a Siem Reap, piccola cittadina di alberghi, in mano soprattutto a malesi e a ”cinesi della diaspora”, come li chiamerebbe Terzani, e guest house sviluppata intorno al vecchio mercato e alle ormai poche palazzine coloniali. Vive dei templi, vive di Angkor: i turisti arrivano per i tre giorni di tour e poi vanno via, girando la faccia, ma i figli restano: prostituzione, povertà, mutilazione. L’ordine di precedenza non esiste.
La seconda sera in cui arrivai a Siem Reap, decisi di andare in giro con Luigi, Project Manager della ONG “Progetto Continenti”, qui con la famiglia da due anni. La zona del mercato vecchio, il tutto si riduce ad un paio di strade, è affollata di bar, ristoranti, sale massaggi, una discoteca, insomma tutto ciò di cui ha bisogno un turista occidentale.
Da una di queste strade provenivano le parole di Eduardo Bennato: su due stuoie di paglia due ragazzi suonavano e facevano panini per i bambini di strada. Un riminese di 38 anni, Sergio, cantante e fondatore dell’associazione ”Una Goccia X il Mondo”, che qui ha da poco avviato un laboratorio di lavorazione del ferro per 10 ragazzi con la vita non proprio felice, e Ivan, ticinese ventisettenne, da un anno in Cambogia prima come volontario, ora per lavoro. Entrambi con storie che meriterebbero interi capitoli di un libro.
Alloggiamo alla stessa guest house, la “Smiley’s”. È stato naturale fare amicizia e partecipare alle serate per strada. Vedere questa realtà dal basso, seduto per terra, con l’odore di piscio è tremendo.
I bambini che prima si attaccavano a te per “uan dolar”, ora vogliono solo quel pezzo di pane con pomodoro, cetrioli e maionese e giocare, essere abbracciati, addormentarsi tra le tue braccia. Dimenticare per qualche ora la propria sofferenza, ritornare per quei momenti ad essere bambini. I turisti si fermavano, ci guardavano e con un sorriso andavano via. Solo curiosità. Non potevi far altri che rispondere al sorriso e continuare a giocare e a fare i panini.
Per far tacere lo stomaco i ragazzini sniffavano colla e credo che da allora non sia cambiato molto. La sentivi quando stavi loro accanto. Li minacciavi: “chi ha tirato colla non ha il panino”, la sera dopo l’odore iniziava a svanire, anche se solo per quelle ore.
Una sera c’era un bambino che si era isolato: gli altri gli zompettavano addosso da tutte le parti mentre lui era seduto a qualche metro da noi, le gambe incrociate, gli occhi chiusi e le mani aperte l’una sull’altra. Sulle labbra compariva una piccola fessura per dare libertà alle sue preghiere. Sapeva che ero lì di fronte a lui. Gli accarezzai la guancia: immobile. Solo una lacrima mi bagnò il dito. I suoi occhi ora era aperti e lucidi. Gli presi la mano per farlo venire a giocare con gli altri, ma non ci fu niente da fare. Sapeva che non era e non è questo il mondo di un bambino. Riuscii a farlo sorridere. Triste, questa volta fu lui a prendere la mia mano e giocammo.
Gli altri chiedevano sempre più panini. A volte li nascondevano, soprattutto per i genitori che in un angolo guardavano e soffrivano. Lui, il bambino in preghiera, invece, si avvicinava in silenzio, incrociava le gambe, metteva di nuovo le mani l’una sopra l’altra e aspettava. Uno solo. Un solo panino. Poi iniziò a ridere.
Finché non si andava via i bambini restavano lì. Anche gli adulti, con un’umiltà che faceva venire i brividi, cominciarono ad avvicinarsi. Le loro mani non si allungavano verso noi, aspettavano che tu li notassi. Con un sorriso immenso e con un inchino ancor più grande, ti ringraziavano. La maggior parte erano mutilati, vittime della nostra intelligenza.
Uno di loro aveva entrambe le braccia amputate all’altezza dei gomiti e il corpo attraversato da grandi cicatrici. Si avvicinò mostrando i denti con un sorriso. Prese il panino con i monconi dei gomiti, ma era troppo piccolo, così lo aiutai a mangiare.
La maionese gli sporcò il naso: lui ed io seduti, io con una mano gli tenevo il panino, lui con le braccia sulla mia mano, ed io con l’altra gli pulivo il naso. Cominciammo a ridere e questo fu il suo ringraziamento.
Quando giungeva il momento di andare via i bambini ci seguivano per un po’, tirandoci e saltandoci sulle spalle.
Il mattino aveva sempre lo stesso suono: “uan dolar”, e la sera l’aria si riempiva con
Seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino.
Autore Fabio Picolli
Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!