Parlare Scrivere Comunicare
Un giapponese, traducendo alla lettera ‘please help yourself’, ‘si serva da solo, prego’, si sentirebbe molto in imbarazzo.
Non riuscirebbe a vedere il tutto come una forma di cortesia. Per lui sarebbe un segno di disinteresse, perché si sentirebbe abbandonato a se stesso in una casa di sconosciuti.
Tradurrebbe l’invito con:
si serva da solo perché nessuno lo farà per lei
vedendo la cosa come una grave forma di scortesia.
La cultura giapponese prevede che si debbano prevenire i bisogni degli ospiti perciò non sarebbe in grado di tradurre mentalmente ‘please help yourself’ in modo maggiormente appropriato:
non esisti a servirsi di ciò che desidera
cioè in una forma di cortesia che prevede anche la libertà di scelta.
Per chi, come me, ha rapporti epistolari con diverse amicizie asiatiche, è difficile rispondere adeguatamente, poiché, se non si conoscono le lingue e le usanze del luogo, il rischio di essere fraintesi è sempre in agguato.
Perfino per chi parla la stessa lingua, però, le interpretazioni possono essere inadeguate, soprattutto quando si usano termini astratti come per esempio, amore, amicizia, solitudine, compassione…
Prima di proseguire ogni discussione, quindi, è bene chiedere:
cosa intendi per…?
Altrimenti, pur usando le stesse parole, potremmo parlare due lingue interiori diverse.
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Autore natyan
natyan, presidente dell’Università Popolare Olistica di Monza denominata Studio Gayatri, un’associazione culturale no-profit operativa dal 1995. Appassionato di Filosofie Orientali, fin dal 1984, ha acquisito alla fonte, in India, in Thailandia e in Myanmar, con più di trenta viaggi, le sue conoscenze relative ai percorsi interiori teorici e pratici. Consulente Filosofico e Insegnante delle più svariate discipline meditative d’oriente, con adattamento alla cultura comunicativa occidentale.
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