L’amore e l’odio non sono ciechi, bensì accecati dal fuoco che covano dentro.
Friedrich Wilhelm Nietzsche
Definire esattamente cosa si intenda con ‘parole dell’odio’ è un processo complesso e spesso non univoco, che rientra nel processo maggiore di definizione di hate speech, in tedesco hassrede, in italiano linguaggio d’odio o discorso d’odio. Denominazioni alternative sono comunque possibili.
L’Oxford English Dictionary, nella sua versione online, specifica la motivazione da cui scaturisce l’odio o l’intolleranza verso un gruppo sociale, che esplicita sulla base di alcuni esempi concreti: appartiene ad una certa etnia, ha particolari credenze religiose, ha una data visione della sessualità.
La locuzione anglo-americana hate speech, risalente agli anni Ottanta del secolo scorso, si diffonde nella stampa italiana a partire dal 2007 per espandersi, successivamente, e specializzarsi nell’ambito del digitale.
Nell’ultimo periodo, il linguaggio d’odio è stato oggetto di ricerca di diverse discipline, dall’analisi del discorso alla psicologia, dalla sociologia alla linguistica, dalla filosofia alla giurisprudenza, fino alla politica e gli studi di genere.
Si tratta di un fenomeno sempre più al centro del dibattito pubblico: è soprattutto con i nuovi mezzi sociali di comunicazione che si estende in maniera rapida e pericolosa.
Questi nuovi strumenti permettono una comunicazione senza confini, lo scambio di messaggi e la possibilità di interazione indipendentemente dalle distanze e dalle differenze sociali, ma, allo stesso tempo, favoriscono anche aggressioni verbali, una propaganda offensiva sia nel linguaggio scritto che quello parlato.
Nei discorsi pubblici e, in modo particolare, in quelli politici, è diventato una vera e propria strategia di comunicazione. Abbiamo sempre cercato di attribuire al linguaggio, nelle sue molteplici forme, le più svariate funzioni, a partire da quella descrittiva: con la parola, l’uomo ha cercato di distinguere il reale e l’irreale, definendo un orizzonte degli eventi entro cui muoversi. Uno strumento o un potere utilizzato soprattutto in ambito sociale, per stabilire relazioni, creare una comunità o dare vita a conflitti, includere e, specialmente, escludere altri individui.
Recentemente, la discussione sul linguaggio e sui suoi effetti sociali è diventata sempre più accesa: da un lato la sempre più ampia diffusione dei social network, che, ormai da anni, ha modificato, irreversibilmente, il modo in cui comunichiamo, dall’altro la crescente esigenza di utilizzare un codice – parlato, scritto e visivo – sempre più inclusivo, attento alle esigenze e sensibilità di minoranze storicamente marginalizzate.
Non si può quindi negare la dimensione pubblica e politica della questione concernente al linguaggio, alle sue conseguenze sulle relazioni e sulla tutela dei diritti umani.
La dimensione è duplice: positiva, per quanto riguarda la tutela della libertà di espressione e manifestazione del pensiero, e negativa, relativa alla portata di quelle limitazioni necessarie per prevenire e combattere eventuali abusi, nella forma di hate speech e linguaggio discriminatorio.
Il ventaglio di possibilità infinite che offre ricomprende forme di palese incitamento all’odio e di manifestazione del pensiero che, benché accettate dalla maggioranza dei consociati, possiedono, in maniera più o meno evidente, un potenziale discriminatorio.
Nello specifico, il linguaggio d’odio va letto non soltanto nella sua immanenza, ossia per il danno che è capace di causare alle vittime, ma anche in una prospettiva ‘storica’, che tenga conto del sottotesto comunicativo e dei radicati pregiudizi esistenti nella società nei confronti di membri di determinati gruppi.
I rimedi per combattere il linguaggio d’odio, in termini molto generali, appartengono a due categorie: di tipo preventivo e di carattere punitivo.
La prima è rappresentata dal ricorso a programmi educativi e di sensibilizzazione, che formino la collettività, innanzitutto i più giovani, alla consapevolezza circa l’esistenza di fattori di discriminazione strutturali; la seconda, particolarmente discussa, da vere e proprie sanzioni, di natura penale, come suggerito anche dalle istituzioni europee, e civile, ad esempio, con un risarcimento a favore delle vittime.
Entrambi i rimedi presuppongono, inevitabilmente, il supporto nel primo caso o l’intervento diretto nel secondo dell’autorità pubblica a tutela dei diritti delle persone offese. E in ambedue si suppone, irrimediabilmente, che le autorità siano dotate della giusta competenza e sensibilità per affrontare episodi di hate speech.
Inoltre, c’è anche altro: il linguaggio d’odio ha valenza performativa. Esso non descrive né rispecchia, ma crea e alimenta gerarchie sociali ingiuste. Ciò è particolarmente evidente se chi parla lo fa da una posizione di supremazia. L’autorità amplifica il potere delle parole di cambiare i limiti di quello che può essere detto e può essere fatto. Fa delle parole potenti mezzi di costruzione di una nuova normalità, mediante i quali pratiche prima ritenute illegittime vengono, a poco a poco, rese accettabili, non problematiche, normali.
Mentre la società si interroga su quali strumenti legislativi siano corretti e opportuni per contrastare l’hate speech e prevenirne le tragiche conseguenze, un ruolo importante va riconosciuto alla Cultura, all’Arte, alla Filosofia, forme potenti di resistenza a questo tipo di linguaggio, che ci permettono di immaginare modi alternativi in cui le cose potrebbero andare, mondi possibili diversi dal nostro, in cui mettere alla prova le nostre intuizioni sulla natura delle cose, degli individui e delle loro relazioni.
E ci consentono di venire in contatto con individui da cui ci sentiamo lontani, divisi da cultura, geografia, epoca storica, situazione personale, casi della vita, di entrare nella loro pelle e condividerne emozioni, sentimenti e riflessioni.
La filosofia ci dà la possibilità di mettere a punto modalità inedite di interpretare il creato, che, lentamente, entrano a far parte del bagaglio culturale non solo di cittadini comuni ma anche del settore giuridico, medico, educativo.
L’odio è stato descritto da scienziati sociali, giuristi, neuroscienziati o psicologi come una passione, un sentimento, un’emozione, ma, nel complesso, appare evidente come, a prescindere dalla prospettiva con cui si provi a spiegarlo, il concetto stesso resti ambiguo, difficilmente riconducibile a rigidi contenitori interpretativi che appaiano esaustivi.
In realtà, neppure in singoli ambiti disciplinari sembra possibile riscontrare una definizione univoca della sua natura ampiamente condivisa e accettata, e il termine stesso continua ad essere utilizzato per indicare fenomeni e realtà profondamente diverse.
Risposte altrettanto differenti, a seconda della prospettiva di analisi adottata, sono state date agli interrogativi sul perché e come l’odio nasca, in quali forme si manifesti più frequentemente, a quali comportamenti possa portare e quali possano essere i modi più efficaci per contrastarlo.
Questa società vive di sentimenti selvaggi, dove la violenza è spesso un alibi per difendere la trasgressione intima del proprio essere fuori dal mondo.
Oggi stiamo assistendo al dilagare di fenomeni di radicalizzazione, quel processo di trasformazione attraverso cui una persona acquisisce un sistema di valori estremisti che legittima l’uso della violenza per il conseguimento di un cambiamento sociale. Un processo tramite cui l’individuo o un gruppo adotta ideologie estremiste e violente come mezzo per raggiungere obiettivi politici, sociali o religiosi.
Spesso la radicalizzazione violenta è associata al terrorismo e alla criminalità organizzata con azioni di incitamento alla violenza, alla promozione dell’odio per destabilizzare o rovesciare le istituzioni esistenti.
Influenzata da diversi fattori, tra cui l’alienazione sociale, la marginalizzazione, la frustrazione politica, l’adesione a comunità online radicali, ma anche all’esposizione a contenuti estremisti, la radicalizzazione può aumentare la probabilità che un soggetto consideri l’uso della violenza come un’opzione accettabile.
Come possiamo affrontare la situazione?
Il sistema della formazione può svolgere un ruolo significativo nella prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione violenta. Educazione alla cittadinanza, alfabetizzazione mediatica, inclusione sociale, sensibilizzazione degli insegnanti e degli operatori, collaborazione e scambio di informazioni sono alcuni degli strumenti utilizzabili in quest’ottica.
La prevenzione della radicalizzazione violenta richiede un approccio multidisciplinare, che coinvolga le istituzioni, il sistema della formazione, la famiglia, la comunità, le istituzioni religiose, le organizzazioni giovanili e altri attori rilevanti.
Un tempo si contavano i m’ama non m’ama, oggi t’odio e t’odio.
L’odio deve rendere produttivi, altrimenti è più intelligente amare.
Karl Kraus
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.