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Il Théâtre de Poche mette in scena Pinter

1963
'Party Time'


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La suggestiva rappresentazione di ‘Party Time’ affidata alla sapiente regia di Peppe Miale

Ieri, 3 luglio, ore 21:00, presso il Nouveau Théâtre de Poche, Via Salvatore Tommasi, 15, Napoli, è andato in scena, con successo, lo spettacolo ‘Party Time’ di Harold Pinter, con Loris Avella, Francesco Serpico, Claudio Del Vita, Chiara Mattei, Monica Todino, Marta La Greca, Giorgia Marini, Salvatore Solano, Fabio Palliola, Loris Avella, regia di Peppe Miale, assistente alla regia Sergio Di Paola.

Il de Poche ci ha abituati a scelte coraggiose, alla messa in scena di opere non popolari, per puntare a vette di qualità rare pur in un panorama teatrale vivace come quello napoletano.

Anche questa volta non è da meno, affidando a bravi e giovani attori un’interessante ed originale lettura di ‘Party Time’.

Pinter è autore difficile, da rappresentare, da interpretare, ma anche da metabolizzare per lo spettatore, che parte da una personalissima rielaborazione del teatro dell’assurdo, apparentemente legato ad ambienti familiari, della quotidianità, ma che fanno da semplice scenario a situazioni surreali, oniriche, spesso angosciose.

‘Party Time’ rientra ampiamente in questo filone, è opera ostica, fredda, che non travolge, ma solo e semplicemente perché non vuole farlo; non prende allo stomaco, anzi, si adagia su di una sostanziale piattezza emozionale. Ma prende nella testa, insinua tarli, dubbi, riflessioni, se solo si ha la pazienza di seguirne l’intreccio, di cercarne la chiave simbolica che apre la porta su un universo esistenziale, culturale, sociale che assume i tratti dell’inquietante.

L’azione si svolge tutta, o quasi, durante un party presso un club esclusivo e di lusso, in un luogo che potrebbe essere in Inghilterra, ma che si eleva a paradigma di un non luogo, immerso in un non tempo. Drammi grandi e piccoli, lacerazioni interiori, turbamenti, devono essere lasciati fuori, l’imperativo è quello di divertirsi, di far finta di niente. Nonostante quello che si intuisce fuori sia poco rassicurante.

Ma anche in questo caso Pinter non chiarisce; in ‘Party Time’ spesso prevale il non detto, quello che viene taciuto, che viene spinto ai margini, significativamente più rilevante di dialoghi banali, superficiali. Un vago presentimento di quello che accade fuori dal club ci arriva solo dall’intensità variabile di una luce rossa collocata all’esterno.

Conflitto? Rivoluzione? Guerra civile? Dittatura? Tutto questo o niente di questo.
Servirebbe davvero saperlo? In fondo ciò che è importa è il meccanismo di rappresentazione di dinamiche universali di potere, di forza, di sottomissione.

Gran parte degli sforzi dei soci del club sono indirizzati a convincere Gavin, chiaramente l’uomo più influente di tutti, ad associarsi. Perché la sua iscrizione al club, non si sa bene come, è certo che influenzerà in maniera determinante la vita di tutti loro.

Tutto meno che una festa felice e rasserenante; viene ostentata un’allegria non affatto provata con il risultato che la stonatura, voluta, serve ad evidenziare come la quotidianità, apparentemente banale, nasconda, invece, elementi destabilizzanti che contribuiscono a mettere in crisi il sistema preordinato.

E l’inquietudine crescente dilaga tra gli invitati, ma guai ad ammetterlo. Negare, sempre, fingendo che tutto vada bene. O almeno, questo faranno quasi tutti.

Mentre musica assordante e luci intermittenti da discoteca si sprigionano nell’aria, i brindisi si alternano, la droga è condivisa, i preludi di incontri amorosi raccontati, i personaggi si contraddicono a vicenda con versioni completamente opposte di uno stesso argomento.

Il contatto con il mondo esterno è limitato ai pochi momenti in cui alcuni personaggi si affacciano fuori, chi per fumare, chi per controllare con ghigno beffardo cosa stia succedendo in strada, chi per isolarsi nel suo guscio dopo avere subito violenze verbali e minacce di ritorsione dal proprio uomo.

Eppure, è chiaro che alcuni sappiano perfettamente cosa stia succedendo fuori e ne abbiano il pieno controllo, mentre altri, avvertendo semplicemente il pericolo imminente, provano a chiedere spiegazioni con il risultato di essere messi a tacere in modo brusco e sprezzante che non ammette repliche.

Impossibile provare a portare la conversazione su argomenti che sono tabù, come quale sia stata la sorte di Jimmy, o riferimenti a quello che sta accadendo, anche da parte di invitati arrivati dopo.

Pure quelle che vorrebbero essere le affermazioni di posizioni politiche non vanno oltre sterili slogan, che lasciano intravedere solo l’illusione di esprimere la propria opinione, una forma di pensiero critico.

Paradossalmente, anche in una società che Bauman ha definito come liquida, in cui si afferma la possibilità di essere liberi da schemi sociali cristallizzati, si è sempre più omologati, ridotti a massa in un dilagante si anonimo.

Seppure nelle loro distinzioni, i personaggi si confondono, sono marionette del sistema cui non è permesso di sentire, di vedere, di parlare.  Che inseguono miraggi di felicità nei bisogni fittizi, nel sesso facile, nelle droghe, nell’abuso di alcolici, nelle musiche ripetitive sottolineate da luci ipnotiche.

I personaggi di Pinter sono anestetizzati, nel pensiero, nelle emozioni, nella morale, solo richiamata come fantomatico plus del club, in un surreale spot improvvisato a beneficio di Gavin. La neutralità emotiva con la quale Melissa, uno dei personaggi femminili, racconta che tutti i suoi amici sono morti è da gelare il sangue.

L’intervento di Gavin, invece, ha funzione di rottura. Nel ringraziare i presenti dichiarando finalmente di volersi iscrivere al club, asserisce con forza che tutti i problemi saranno risolti al più presto, precisando che è in atto una sorta di “rastrellamento” ad opera sua e dei suoi seguaci e che, a breve, ogni cosa tornerà alla normalità, scandendo il proprio ritmo regolare.

Ma qual è la normalità? In cosa consiste? Non lo sapremo mai.

Solo Dusty, la sorella di Jimmy sembra resistere, quasi a simboleggiare l’ultimo barlume di coscienza, nonostante sia duramente ripresa dal marito e non solo, tanto da essere emarginata, da passare da sola e singhiozzante gran parte della festa.

Ma il senso dell’incomunicabilità è palpabile in generale, anche i dialoghi sembrano, a tratti, una sovrapposizione di monologhi tra i quali è difficile trovare una connessione.

L’emblema dell’isolamento è Jimmy, che in non tempi e non luoghi diversi, all’inizio e alla fine della rappresentazione, riafferma la sua solitudine, la sua emarginazione, la perdita della sua identità, nell’incapacità di riconoscere persino il battito del proprio cuore.

Nel suo intenso monologo parla di se stesso al passato, ed è ricorrente il rifermento al buio, tanto da far pensare che sia morto. Non importa se vittima dell’impossibilità di comunicare, di un regime o dell’indifferenza riservata a chi non si conforma.

Bravi gli attori a rendere gli scontri verbali e fisici tra i personaggi, le continue contraddizioni del testo di Pinter, autore contemporaneo che, in un contesto ricco di contaminazioni e contraddizioni, sa staccarsi dalle consuetudini precedenti facendo sapiente uso della sperimentazione.

Funzionale il gioco di luci, di Nino Perrella, che, invece di risolversi in mero strumento di supporto all’azione scenica, diventa ennesimo protagonista della pièce.
La fonte luminosa sconosciuta, penetrando da una porta dischiusa, si intensifica per poi stabilizzarsi ed affievolirsi a seconda della situazione inscenata, del non detto, dell’azione esterna che viene lasciata all’immaginazione personale dello spettatore più che alla rivelazione definitiva che sgombri il campo da ogni equivoco, da ogni dubbio.
Ad alternarsi principalmente i colori rosso e blu, che stimolano via via sensazioni ed emozioni di forza, velocità, passione o di calma, riflessione, solitudine.

Appropriati i costumi, di Loris Avella, che nella loro apparente semplicità rimarcano comunque aspetti simbolici connessi a personaggi e circostanze.

Perfette le scene, del Théâtre de Poche, con il sofà che opportunamente si divide in poltroncine per lasciare spazio alla pista da ballo, il divano per esterni su cui si consuma un acuto scambio verbale tra la sagace Charlotte e la frivola Liz, reso ancor più ironico dalla superficialità della seconda che non coglie affatto l’atteggiamento canzonatorio della sua interlocutrice e su cui si dispera Dusty, umiliata dal marito che, pur dicendo di amarla in quanto madre dei suoi figli, in realtà la tratta con aria di sufficienza.

Adeguati i movimenti scenici, di Laura Zaccaria, grazie ai quali gli attori fanno un giusto uso del corpo come forma espressiva, dando ulteriore vigore alla recitazione.

Impeccabile, anche stavolta, la regia di Peppe Miale che si avvale dell’ottimo assistente alla regia, Sergio Di Paola.

Il prossimo appuntamento con ‘Party Time’ è per stasera, 4 luglio, ore 21:00, presso il Nouveau Théâtre de Poche, Via Salvatore Tommasi, 15, Napoli.

Per info, costi e prenotazioni:
081-5490928
theatre.depoche@libero.it
Facebook: Théâtre de Poche

Foto di Fabio Vitale

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.