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The Neapolitan man on the Moon



Quando muore un personaggio famoso la prima cosa che mi viene in mente è la mini storia a vignette del fumettista romano Zerocalcare. Se non l’avete letta vi consiglio vivamente di farlo.
Nel bene e nel male, quindi, assistiamo impotenti a questa celebrazione, dell’uomo o del mito, da parte di un popolo web che, nel 99% dei casi, non ha letto, visto o studiato nulla di quel personaggio ma semplicemente sente il bisogno di attirare l’attenzione su di sé partecipando attivamente al lutto collettivo dell’etere.

Addirittura c’è chi, come la scrittrice napoletana Sara Bilotti, ci trova persino una vena romantica in tutto questo paragonando le centinaia di post di cordoglio ad un moderno coro greco di dolore proprio della tragedia.

Come il fumettista Zerocalcare io ci vedo, invece, esclusi i pochi sinceri addolorati, un ennesimo e costante richiamo di attenzioni che la nostra generazione agogna nella costante e persistente ricerca di approvazione, da qui la parola like, da parte degli altri, fossero perfino degli sconosciuti.

Questa premessa perché? Perché negli ultimi giorni, come una maledizione, la parte sana dell’Italia è stata colpita da diversi lutti uno dietro l’altro: prima lo scrittore siciliano Andrea Camilleri; poi lo scrittore, filosofo, ingegnere Luciano De Crescenzo ed infine lo sceneggiatore e scrittore romano Mattia Torre, l’unico morto in età prematura, a soli 47 anni. E da qui la precedente premessa. Ma dato che questo non vuole essere un articolo di polemica, ma uno sciocco e banale tentativo di scaturire nel lettore una riflessione, vado avanti.

Alla scomparsa di Andrea Camilleri, che di anni ne aveva 93, ne sono rimasto sì dispiaciuto ma non avendo mai letto nulla di suo né, tantomeno visto nessun episodio televisivo tratto dai suoi libri che narrano le vicende del commissario Montalbano, il mio è stato solo un semplice dispiacere come cittadino italiano di aver perso un fine intellettuale che, alla veneranda età di 93 anni, riusciva ancora ad avere un pensiero lucido e chiaro su molte vicende sociali e politiche con cui spesso mi trovavo in completa sintonia.

Della morte inaspettata di Mattia Torre, scrittore e co-autore, tra le tante, di una serie televisiva di enorme successo di nome ‘Boris’, la quale raccontando lo spietato mondo della TV riusciva a dipingere un quadro grottesco non solo delle dinamiche televisive, ma dell’Italia tutta, compresa quella politica, sono rimasto più rammaricato in verità. Anche perché si priva il mondo di tutte le potenziali future opere.

Ma il vero colpo io l’ho avuto alla notizia della morte di Luciano De Crescenzo, anche lui giunto alla venerabile età di 90 anni. E non perché io fossi legato in quanto napoletano al personaggio De Crescenzo, ma perché tutte le mie letture, le mie curiosità, le mie scelte scolastiche sono state influenzate dall’ingegnere filosofo napoletano.

Era il 1991. Avevo appena 10 anni e mio padre, in una più unica che rara occasione mi fece sedere davanti alla TV. Sullo schermo comparì quest’uomo brizzolato. Occhi di un azzurro chiaro come un cielo d’estate, sguardo furbetto e voce di una leggera cadenza napoletana, ma bella chiara. Questa persona ad un certo punto disse:

Signore e signori buonasera, incominciamo con un chiarimento: al tempo di Socrate non c’era la televisione. E allora voi vi chiederete: “Cosa facevano i Greci in quel tempo senza la TV?” Semplice, ascoltavano i miti.

Iniziava la trasmissione Zeus – Le gesta degli Dei e degli Eroi. Da lì seguirono altre 35 puntate che io, senza che ve lo stia a dire, vidi tutte, aspettandole come un bambino può aspettare il giorno di Natale. La mia passione era così forte ed ero stato così contagiato che mio padre si sentì quasi in obbligo di regalarmi il mio primo libro che, come la Numero Uno di zio Paperone, conservo tuttora come un cimelio: un’enciclopedia mitologica di tutti i miti del passato, non solo greci e romani ma proprio tutti i miti.

Che infanzia infelice molti magari ora penseranno, perché, probabilmente, sono stato il prototipo del nerd, ma non immaginate la gioia che mi dava leggere ed imparare quelle storie fatte di eroi, uomini, tradimenti ed inganni.
E soprattutto a lui è dovuta la scelta dei miei studi universitari, ovviamente in campo umanistico.

Passano gli anni, più di 25 anni da allora, e in un giro fatto alla libreria Feltrinelli circa due anni fa, decido di comprare come prossima lettura ‘La storia della filosofia’ di Luciano De Crescenzo. E rieccomi catapultato nell’antica Grecia grazie ai materialisti, ai naturalisti, ai presocratici ed ai sofisti. Platone, Aristotele e Sant’Agostino e così via. Spiegati con scientificità da filosofo ma con la capacità da far comprendere anche ad un bambino ragionamenti complessi.

Io, come tanti altri spero, ricorderò Luciano De Crescenzo come un uomo capace di far capire concetti complicatissimi. Un uomo di una cultura immensa e di un acume unico. Coraggioso. Tanto coraggioso perché capace di fare quella scelta che ognuno di noi sogna di compiere un giorno, abbandonare un lavoro sicuro come ingegnere all’IBM a 47 anni e dedicarsi alle sue passioni con successo. Un successo che ci racconta di più di 50 libri scritti, più di 20 milioni di copie vendute nel mondo, un uomo che ha saputo rimanere se stesso dopo il successo. A cui va il mio eterno grazie. Irraggiungibile come la luna.

Ed ora dove andiamo?

Dopo questo doveroso omaggio a tre grandi uomini, prendiamo spunto dal titolo del film di Nadine Labaki, per porci delle domande.
La dipartita di Camilleri, De Crescenzo e Torre giunte così tutte insieme ci fa sentire privati di qualche cosa di indefinito che a lungo ho cercato di focalizzare. È giusto piangere e dare il doveroso tributo a personaggi così enormi nel panorama culturale italiano, ma è anche vero che questi, se si esclude Torre, avevano raggiunto un’età in cui, prima o poi c’era, da aspettarselo che sarebbero andati, spero, verso lidi migliori.

Il problema per noi, poveri mortali che invece siamo rimasti, è un altro. Capire se il vuoto lasciato da questi uomini così grandi sia colmabile, in maniera diversa certamente, da qualcun altro.

Una delle mie ultime letture è stata ‘Diario Minimo’ di Umberto Eco del 1963. Una raccolta di saggi sulle pagine delle riviste ‘Il Verri’, ‘Il Caffè’, ‘l’Espresso’ e ‘Pirelli’.
A colpirmi di più di questo libro, per usare un termine non propriamente giusto ma forse più adatto di altri, è stata la capacità “micidiale” di Umberto Eco di inquadrare immediatamente e con una nitidezza eccezionale tematiche non solo attuali ma anche future. Ciò mi porta a fare un piccolo passo indietro e immaginare quel periodo:
siamo negli anni ’60, in pieno boom economico italiano, e c’è un fervente clima culturale.

In piena attività anche Pasolini, Sciascia, Calvino, Caproni e tanti, tanti altri.
Oggi, invece, ad ogni morte siamo sempre più poveri. Non solo perché se ne vanno menti eccezionali ed uniche ma perché, alla luce degli ultimi tempi, noi, intesi come società, non siamo stati capaci di forgiarne all’altezza di quelle precedenti. Non solo non ci sarà più nessun Eco, nessun Sciascia, nessun De Crescenzo ma abbiamo problemi con il loro retaggio e la loro eredità. Non ci sono più intellettuali così lucidi ma la figura stessa dell’intellettuale è spesso derisa e messa in discussione da chi ne sa molto meno di lui.

‘Così parlò Bellavista’. Credo che conosciamo tutti questo film tratto dall’omonimo romanzo di De Crescenzo del 1984.

Gennaro Bellavista è un professore di filosofia in pensione, che si diletta a esporre le sue teorie al proprio cenacolo di discepoli, composto dagli amici Salvatore, Saverio e Luigino. In particolare, riallacciandosi scherzosamente alle categorie sociologiche esposte nel trattato tedesco Gemeinschaft e Gesellschaft, egli distingue l’umanità in «uomini d’amore», come i napoletani, e «uomini di libertà», come i milanesi.

La sua vita tranquilla viene disturbata dall’arrivo del dottor Cazzaniga, il nuovo direttore del personale dell’AlfaSud: costui, proveniente da Milano, va ad occupare un appartamento all’interno dello stesso stabile di Bellavista. Immediatamente si nota il contrasto tra le abitudini di Cazzaniga, che è ligio al dovere, puntuale, preciso e quelle più confusionarie degli amici del professore che, ad esempio, non si spiegano come mai Cazzaniga, nonostante sia il direttore del personale, voglia andare al lavoro in perfetto orario.

Nel film e nel romanzo, dunque, abbiamo la figura del professore Bellavista e dei suoi discepoli – amici Salvatore, vice vice aiuto portiere, Saverio, netturbino, e Luigino, poeta nullafacente.

La Napoli qui descritta è la Napoli che si ama. Da cartolina. Quella fatta di espedienti per sopravvivere, dall’inganno innocente, di furbizia e di superstizione. I discepoli del docente sono persone semplici che discutono, dialogano con lui, ma che, mai e poi mai, mettono in discussione la figura di chi conosce perché ha studiato e sa. Il depositario del sapere, in questo caso il professore, è una figura rispettata proprio perché detiene la conoscenza.

Oggi, nella realtà, probabilmente il professore verrebbe chiamato semplicemente per nome: “Gennà, Gennà” gli direbbero e, forse, Salvatore e Saverio, grazie a due potentissimi smartphone di ultima generazione, metterebbero in discussione le sue stesse parole relegando i suoi monologhi a semplici vaneggiamenti inutili ed inconcludenti: “Gennà state dicendo una fesseria, quelli, i vaccini, fanno venire la sindrome di Down ai bambini”.

Magari, perché no, deridendolo o attaccandolo sotto un suo post pubblicato su di un social.

E per concludere quello che doveva essere sì un omaggio ma, che come ogni dipartita, appare come un momento di riflessione su ciò che è rimasto e su quanto siamo più poveri oggi, perché loro, i Professori, hanno finito di vedere gli orrori di questa povera terra mentre noi, invece, rimaniamo qui giù, sempre più soli, non c’è considerazione migliore di questa:

Non ci rendiamo conto che la vera povertà è rappresentata dall’ignoranza, in quanto a stabilire le differenze sociali non sono i soldi, ma la cultura che si ha e quella che non si ha.
Luciano De Crescenzo

Autore Marco Trotta

Marco Trotta è nato a Napoli nel 1981. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico-Artistico alla S.U.N. con una tesi sul restauro del Duomo di Napoli. Ha conseguito un master regionale di “Rilievo architettonico per i Beni Culturali”. Restauratore di beni culturali e poi catalogatore per la Soprintendenza di Caserta. Attualmente è anche redattore per Campaniarock.it e per la prestigiosa Art apart of culture.

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