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Tele-bani

Neonato Afghanistan


Non lasceremo che l’Afghanistan diventi il rifugio dei terroristi. È una missione di vitale interesse per la nostra sicurezza.
Barack Obama – Premio Nobel per la Pace, 2009

Ci sono foto che sono una storia e ci sono foto che fanno la Storia. L’immagine del neonato che passa tra le braccia levate di un uomo al guanto di un soldato statunitense in assetto mimetico sopra il muro e il filo spinato dell’aeroporto di Kabul è la sintesi più efficace e allo stesso tempo drammatica delle ore che si stanno vivendo nella capitale afghana.

È una nuova ‘Pietà’ michelangelesca ma con più speranza. Lì si descriveva, con la più struggente bellezza possibile, la morte di un figlio, qui si intravvede l’amore per un figlio che, pur di salvarlo, lo si lascia in mano estranee. C’è la fiducia verso un mondo nuovo che lo possa accogliere e dargli il futuro che potrebbe non avere se restasse dietro quella cortina fatta di cemento e acciaio.

In questi giorni abbiamo assistito, impotenti e indifferenti, all’avanzata talebana che non si è arrestata e che ha messo in ginocchio ben due terzi dell’Afghanistan. Una marcia per conquistare il controllo dell’intero Paese, che nessuno sembra in grado di fermare o, quanto meno, ha voluto fermare: né le milizie afghane addestrate dai soldati italiani ad Herat, né le bombe sganciate dagli aerei americani.

Si sono avverate così le previsioni rese dagli analisti, quando era stato comunicato il ritiro truppe NATO a fine aprile. Infatti, l’esercito aveva abbandonato l’Afghanistan quando ancora una metà del Paese era in mano agli “studenti coranici”, nome con cui sono conosciuti i talebani, che cercavano di conquistare più territorio possibile per poi dirigersi a Kabul, ultima importante roccaforte del Governo. Un’avanzata senza tregua, che è stata determinata da sempre maggiore velocità, sotto lo sguardo impenitente dell’Europa e quello impaurito del governo afghano.

È difficile spiegare il mondo afgano: le differenti forme e interpretazioni religiose, le molteplici etnie e i diversi interessi politici, hanno sempre reso complicato chiarire la complessa situazione dei Paesi come l’Afghanistan. Intanto, mentre i miliziani hanno messo le mani sull’arsenale lasciato dagli USA, oltre diecimila persone restano intrappolate mentre sono in attesa di ricevere il visto che permetterà loro di lasciare la Patria.

Nel frattempo, le operazioni sono gestite da ogni Paese straniero separatamente, con i militari statunitensi che presidiano l’aeroporto. L’ONU sta provando a coordinare con grande fatica l’esodo dei privati e delle ONG, ma si sta auspicando la formazione di una organizzazione internazionale esclusivamente dedicata al compito di risolvere la crisi.

Sembra un assurdo, un capovolgimento del tempo, un azzardo del destino, ma possiamo affermare che ad oggi l’Afghanistan non esiste più. O almeno, non esiste più questo nome. Nessuno si aspettava una resa così rapida.

La capitale Kabul – circa 4 milioni e mezzo di abitanti – è caduta in poche ore, il Presidente Ghani è fuggito all’estero, prima in Tagikistan e poi in Uzbekistan “per evitare ai cittadini un bagno di sangue” ha detto; i diplomatici avevano già iniziato a lasciare gli uffici nei giorni scorsi.

Dopo 20 anni di guerra il Paese torna in mano ai talebani. La nuova offensiva talebana è partita a maggio 2021: in poche settimane le milizie islamiche hanno falciato via tutto. Le forze NATO si sono ritirate, l’esercito regolare si è disfatto, nessuna alleanza straniera è intervenuta con nuove missioni di peacekeeping o, perlomeno, di cessate-il-fuoco. Con pochi combattimenti, i talebani hanno riconquistato il potere a piene mani. Forse, una delle più gravi vergogne di questo secolo.

Dove sono i potenti che facevano a gara per dimostrare di essere i benefattori dell’umanità? Dove sono le grandi superpotenze che occupavano i territori stranieri per permettere il ritorno alla civiltà dei Paesi martorizzati da dittature violente? Sono finiti gli interessi e con essi sono tornati i fantasmi dell’integralismo facinoroso e sanguinario.

Ricordiamo che i talebani sono un gruppo islamista radicato in Afghanistan. Si definiscono “studenti coranici” che hanno l’obiettivo finale di giungere all’originaria interpretazione dell’Islam e del suo testo sacro, il Corano. Sono prevalentemente di etnia Pashtun, la più diffusa nel Paese asiatico e presente anche in Pakistan. La visione che hanno della religione viene definita radicale e integralista.

Sono la deriva della guerra contro l’URSS in Afghanistan, negli anni 80. Questa guerra diviene palestra e laboratorio per quelli che saranno i leader di gruppi terroristici negli anni successivi, come Osama Bin Laden e Al-Zawayri, che combatterono in quel periodo.

È qui che nascono molte sigle che si rifanno alla jihad, la guerra santa contro gli invasori: tra queste, il Movimento rivoluzionario islamico a cui aderisce il giovane Mohammed Omar. Al termine della guerra Omar diviene un mullah, ovvero un esperto teologo dell’Islam. Egli si contrappone ai locali signori della guerra con i suoi studenti che si fanno chiamare talebani; il gruppo islamista diviene, quindi, un punto di riferimento e la fama è destinata ad aumentare.

I loro principali obiettivi sono di natura religioso – culturale e politica, ma queste sfere non sono precisamente separate. Essi traggono ispirazione da due scuole di pensiero che li hanno profondamente influenzati a livello ideologico e, quindi, politico: Deobandi, predominante in India, e Wahhabismo, prevalente nella penisola arabica, due visioni molto rigide dell’Islam rifacendosi a un’interpretazione, a volte letterale, del Corano.

L’obiettivo di queste due scuole di pensiero è quella di far ritornare la religione alla “purezza” delle origini. Così nasce la triste e famosa severità nell’applicare i principi coranici: un’esegesi letterale del testo sacro, che rasenta un’overdose di fondamentalismo pregno di rigidità medioevale e di tenace e virulenta visione del mondo.

I talebani considerano eretici gli sciiti, principale ramo minoritario dell’Islam, e non ammettono alcuna raffigurazione religiosa, motivo che si trova alla base della distruzione di templi o statue religiose nel Paese. Sono trascorsi 15 anni da quando, nel 2001, i Talebani afghani distrussero con la dinamite i monumentali Buddha di Bamyan, due enormi statue alte 55 e 33 metri scolpite nella pietra a 230 chilometri da Kabul.

Essi vietano le manifestazioni musicali, il vestire all’occidentale e tagliarsi la barba; la donna è legata agli ambiti privati e non pubblici, per uscire deve essere sempre condotta da un uomo della famiglia e deve indossare il burqa, l’indumento di colore azzurro che dalla testa copre tutto il corpo, permettendo solo una retina davanti agli occhi.

Il loro più grande obiettivo è quello di fondare un emirato in Afghanistan dopo aver riconquistato i due terzi del Paese. La disperazione è ovunque, mentre l’Occidente, devastato dalla paura covidiana e in un assetto di riunificazione, guarda assonnato la situazione, paventando riunioni di urgenza e lanciando strali o, addirittura, promettendo un dialogo con i talebani.

Senza contare il rischio di una sicura massiccia migrazione dove non si potranno distinguere i buoni dai cattivi. A deteriorare i fatti vi è la percezione che l’Occidente vede i talebani come possibili alleati contro l’ISIS con i quali vi è una certa opposizione ideologica.

Inutile nascondere che il pericolo di una deriva del rispetto dei diritti umani è certa e che la libertà per un popolo stremato come quello afgano potrebbe diventare una chimera straziante.

La verità, almeno per chi scrive, la trovo in quelle mani che lanciano quel bambino oltre la disperazione; la verità, per chi vi scrive, è nel drammatico volo di chi si è aggrappato ad un aereo cargo militare americano ed è andato giù a morire nelle viscere della sua terra matrigna e maligna, come un’agghiacciante fotocopia dell’11 settembre a New York.

Queste sono le immagini che ci porteremo dentro e che sentenziano un crollo di idee, la morte della verità e, soprattutto, come il mondo non abbia mai avuto dalla sua parte i supereroi, ma sia sempre riuscito a vincere le sue paure grazie alla forza delle persone semplici.

L’Occidente ha deciso di mettersi da parte e buttare vent’anni e più di sforzi e sacrifici, regalando danaro e sudore di uomini e donne che hanno lottato per la libertà e la democrazia.

Un fallimento che ha la firma di Obama, Trump e Biden, di Merkel e Macron, dei vari primi Ministri italiani e inglesi che si sono succeduti nel tempo. Un fallimento che potrebbe scrivere pagine tristi e feroci non solo per l’Afghanistan ma anche per i nostri figli.

Mentre qualcuno dice che bisogna parlare con questi assassini perché sono cambiati: ve li immaginate i vari Mullah a lanciare i futuri proclami su Tik-Tok?

Da talebani a telebani: non meravigliatevi, lo spettacolo deve andare avanti. Sopra ogni cosa e sopra tutti.

Nel profondo del mio cuore speravo di parlare a ogni bambino e bambina che, ascoltandomi, possa trovare il coraggio di alzarsi per far valere i propri diritti.
Malala Yousafzai 

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.

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