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Syri i Kaltër

Syri i Kaltër


Albania, Settembre 2015
Lasciamo presto l’albergo. Attraversiamo le valli circondate da montagne che seguono i corsi del Vjosa e del Drinos fino ad arrivare ad Argirocastro. La città d’argento. L’idea è di raggiungere Syri i Kaltër con un  autobus, ma ce lo sconsigliano per un tratto di 2 km da fare a piedi. Si sale e poi si scende lungo la strada che collega Argirocastro a Saranda.

I monti Mali i Gjerë con la terra grezza e ruvida di roccia. Nei pressi di Muzinë un cartello ci indica di lasciare l’asfalto e proseguire per lo sterrato. Due ragazze, palesemente turiste, aspettano sedute sotto quel cartello un passaggio. Forse per la costa, verso Saranda. Oppure per le montagne. Altre strade che s’incociano.

Poco prima dell’indicazione, sulla destra compare un piccolo agglomerato rom. Quattro o cinque baracche affiancate con vicino una recinto di legno e un cavallo. Una donna, seguita da alcune capre, va verso il pozzo. Penso a Chatwin. Il nomade. La mente va.
Abitazioni ricoperte di pelli. Un uomo a cavallo esce dal bosco di ritorno da una battuta di caccia. Uno squarcio di vita di un tempo che fluisce altrove. Il tempo del nomade.

Quell’eterno e incessante moto, l’azione in progresso dell’andare. Il viaggio di una vita la cui stabilità non è un luogo in cui ritornare, ma oggetti che viaggiano insieme a quella donna e a quell’uomo. Ricordi. Storie racchiuse in quelle pelli, in sacche cariche di pentole, mestoli, pochi abiti, oggetti rituali. L’essenziale. Il superfluo non esiste.

Lo zaino di Chatwin che protesse le sue spalle. Pochi oggetti che racchiudono l’intera storia di un uomo e una donna. La storia di un cavallo nel recinto di legno e di un cane che beve vicino a un pozzo. Non c’è altro. Tutto finisce in questo quadro. In questa foto in bianco e nero di un luogo che non è questo. Il luogo del ricordo del nomade. Ritorno al tempo.

Quasi un quarto d’ora per i 2 chilometri di sterrato. Arriviamo e i turisti già sono lì. Camper, moto, auto. La sorgente. Un profondo occhio blu la cui profondità non è stata ancora accertata. La massima raggiunta è di 50 metri. La sorgente. Il simbolo.

Qui tutto ha inizio a cominciare dal fiume Bistricë. Dal suolo l’acqua fuoriesce nitida, pura. Lava ribollente. Un flusso costante di vita. Resto incatenato a quella profondità. Dal centro della terra sembra nascere costantemente il reale. L’occhio blu che ti guarda dal buio della propria origine ancora ignota.

Cerco di isolare i pensieri e il sentire dallo schiamazzo di alcuni turisti. Un luogo comune, un luogo di tutti che suscita intimità diverse ricercate dal singolo. Ognuno ha la propria in questo pozzo blu. Gli occhi divengono il secchio vuoto calato fino all’acqua.
Non lo tiri subito nuovamente a te. Lo lasci in quell’acqua originaria per saturare il legno. Impregnarlo di essa. La roccia del suolo è levigata, è stata modellata dallo scorrere di quest’acqua che imperterrita non ha mai smesso di fluire. Il secchio è ancora lì.
Ormai colmo lo tiro su. Cerco di non lasciare andare via neanche una goccia di quel sentire appena appreso. È difficile.

A pranzo ci ospita il ristorante/albergo lì vicino. Una struttura che si districa nel bosco, che si adatta alla natura. Gioco con Ellie sul ponte in legno che attraversa il fiume.
L’Albania, da qui, appare come una scatola di legno non lavorato che protegge, al suo interno, altre scatole a protezione dei propri tesori.

Respiri e senti per un attimo di farne parte. Un altro luogo magico. Un altro luogo in cui il tempo è solo un concetto lontano da questa realtà.

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!

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