Quando la fine della vita sopraggiunge nella consapevolezza di essere prigionieri nel proprio corpo e non è sopportazione del dolore, ma ineluttabile condanna
Un giorno come molti, usciti di casa, un evento inatteso… oppure l’inevitabile progredire di una patologia irreversibile… e la vita devia il percorso dall’ordinario, mutando la condizione esistenziale delle persone, per “esserci” con l’angoscia che consegue ad una indeprecabile situazione.
Il corpo non risponde alla volontà, non più in grado di attivare il benché minimo movimento, a poco a poco cessano anche gli impulsi nervosi involontari, inducendo alla respirazione forzata, nessuna guarigione possibile.
Il cervello non ha più il controllo del corpo, ma la mente permane nel proprio stato di consapevolezza, che rende inaccettabile la condizione di immobilità, e intollerabile l’esistenza in vita, prigionieri di un corpo alimentato da funzioni biologiche ormai indesiderate.
Normalmente, chiunque desideri superare i difficili accadimenti di vita inizia un percorso che alimenta un presente sempre migliore, consapevole che ci sarà sempre un’ulteriorità verso scenari di rinnovata felicità.
Ma, in certe condizioni, vie di accesso inaccessibili segregate da barriere irremovibili precludono persino le intenzioni quali orientamento del pensiero o volontà verso un fine. Non esiste futuro, ma solo un passato che riversa nel presente i ricordi più belli.
Prende forma l’inversione della consapevolezza dell’essere in vita. Esistere al di là della volontà per quanto un corpo altro non è che un insieme di anonime cellule in un corpo statico, persino inerme ai sensi, consci del presente che annichilisce la capacità di creare strategie esistenziali positive per superare le difficoltà.
Diceva DJ Fabo (Fabiano Antoniani), rimasto cieco e tetraplegico per un grave incidente automobilistico nel 2014:
Sono un cervello attaccato a un corpo.
Ogni tanto mi prude la testa e io non riesco a grattarmela e divento matto.
Dopo anni di terapie con esito negativo, perviene alla precisa consapevolezza di porre fine alla propria vita:
Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia.
Il 27 febbraio 2017 muore di suicidio assistito in una clinica e nel Twitter di addio scrive:
Sono finalmente arrivato in Svizzera, e ci sono arrivato purtroppo con le mie forze e non con l’aiuto dello Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e la ringrazierò fino alla morte.
Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, associazione di promozione sociale italiana per la libertà della ricerca scientifica, delle libertà civili, affermazione del diritto alla scienza e all’autodeterminazione individuale e dei diritti umani, civili e politici delle persone, a partire da quelle malate e con disabilità.
Presidente di Eumans, movimento paneuropeo di iniziativa popolare.
Co-fondatore di Science for democracy e del Congresso mondiale per la libertà della ricerca scientifica, è promotore della campagna Eutanasia legale.
Il 28 novembre 2023, Margherita Botto, professoressa universitaria di Milano, muore in Svizzera dopo avere avuto accesso al suicidio medicalmente assistito.
In una lettera di scelta consapevole inviata all’organizzazione svizzera dove ha potuto ottenere l’aiuto alla morte volontaria dice:
L’oncologo mi ha chiaramente spiegato che il protocollo di cura ha lo scopo di ottenere un “contenimento del tumore (citazione testuale)”. Quindi non una guarigione. Le mie speranze di giungere alla guarigione e di poter ritornare ad una qualità della vita non dico soddisfacente, ma almeno accettabile sono molto ridotte o nulle.
Il proseguimento del protocollo di cura mi esporrebbe a ulteriori sofferenze per almeno un anno o più, senza molte probabilità di successo. In questa situazione intendo liberamente ed autonomamente porre fine al protocollo di cure, affrontandone consapevolmente le infauste conseguenze.
A seguito di questa decisione, mi rivolgo quindi alla vostra Organizzazione affinché mi aiuti a porre fine alla mia vita in modo dignitoso e senza ulteriori sofferenze fisiche e psicologiche.
Ad occuparsi dei rapporti con la clinica svizzera, dell’organizzazione del viaggio e dell’accompagnamento è stata Cinzia Fornero, 52 anni, iscritta all’associazione Soccorso Civile – Presidente e responsabile legale Mario Cappato – e il fratello Paolo Botto.
Molti i casi di suicidio assistito ed in continua crescita le richieste, che vengono valutate con un percorso non breve per accertare l’esistenza delle condizioni previste per il richiedente.
Il suicidio assistito è frequentemente inteso come eutanasia. È invece importante distinguere la sostanziale differenza tra loro.
La Federazione Cure Palliative definisce l’eutanasia come:
Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce, procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze. In particolare, l’eutanasia va definita come l’uccisione di un soggetto consenziente in grado di esprimere la volontà di morire.
Essa può essere praticata nella forma del suicidio assistito (con l’aiuto del medico al quale la persona si rivolge per la prescrizione di farmaci letali per l’auto-somministrazione) o nella forma dell’eutanasia volontaria in senso stretto, con la richiesta al medico di essere soppresso nel presente o nel futuro.
Non rientrano nel concetto di eutanasia l’astensione o la sospensione di trattamenti inutili nonché la sedazione palliativa profonda.
Non va confusa inoltre con l’eutanasia la rinuncia all’accanimento terapeutico, ossia a quegli interventi sproporzionati, gravosi e inutili, volti a prolungare la vita a ogni costo.
E il suicidio assistito come:
procedura in base alla quale un terzo, in alcuni casi un medico, prescrive o fornisce a una persona un farmaco in grado di provocarne la morte, farmaco che il soggetto assume in maniera autonoma.
Il medico dunque arriva fino alla prescrizione o alla fornitura del farmaco, ma non interviene direttamente nel provocare la morte della persona, la quale decide quindi in piena libertà quando morire.
Pertanto il suicidio assistito non è la morte procurata da un terzo secondo le intenzioni di un malato incurabile/inguaribile. Ma la morte autonomamente procurata assumendo il farmaco prescritto da un medico.
L’eutanasia, che dal greco eu-thanatos significa buona morte, è l’atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di una persona che ne faccia esplicita richiesta.
In Italia l’eutanasia è reato. Mentre il suicidio assistito è un diritto sancito dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale (Corte costituzionale – Decisioni) per il quale un paziente può autosomministrarsi il farmaco letale, e non è un medico a somministrarlo.
Per esercitare tale diritto devono sussistere 4 condizioni:
1) malato affetto da malattia irreversibile;
2) patologia fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche;
3) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli;
4) paziente che dipende da un trattamento di sostegno vitale.
La quarta condizione è la più problematica, poiché implica l’interpretazione di ciò che è considerabile come trattamento di sostegno vitale.
Inizialmente si intendeva solo alimentazione, respirazione e idratazione. Ma con la prescrizione della Consulta del 30 marzo 2023 è stata approvata la richiesta di Gloria, nome di fantasia nel rispetto della privacy della paziente, malata oncologica veneta che, il 23 novembre 2022, aveva chiesto all’ASL di competenza la verifica per l’ottenimento della morte volontaria.
Il Gruppo Tecnico dell’azienda sanitaria veneta ha così riconosciuto i farmaci antitumorali mirati, come trattamento di sostegno vitale, sussistendo le altre tre condizioni della paziente.
Se per un attimo ci soffermiamo immedesimandoci nella condizione di vita dei casi descritti, è innegabile riconoscere quanto il corpo umano possa trasformarsi in una gabbia, che ha per sbarre l’immobilità.
Una persona in grado di udire, e non sempre di vedere, attende che il tempo trascorra, scandendo, un secondo dopo l’altro, la propria esistenza, inerme, memore di un passato attivo e partecipativo.
Giorni e notti vive, nella consapevolezza di un insostenibile presente e un futuro precluso di ogni miglioramento.
Viene meno una quinta condizione da accludere alle precedenti, forse sottointesa:
la perdita della dignità quale condizione morale di un essere umano non più posto al grado esistenziale proprio della sua natura, costretto da aventi inesorabili all’abbandono del rispetto di sé stesso.
In questi casi è plausibile che anche la morte sia libertà di ciascuno e non solo attesa del giorno del destino.
Autore Adriano Cerardi
Adriano Cerardi, esperto di sistemi informatici, consultant manager e program manager. Esperto di analisi di processo e analisi delle performance per la misurazione e controllo del feedback per l’ottimizzazione del Customer Service e della qualità del servizio. Ha ricoperto incarichi presso primarie multinazionali in vari Paesi europei e del mondo, tra cui Algeria, Sud Africa, USA, Israele. Ha seguito un percorso di formazione al Giornalismo e ha curato la pubblicazione di inchieste sulla condizione sociale e tecnologia dell'informazione.