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Su umorismo e comicità: lo strabismo verticale

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Questa è la vita episodio


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Una storia dell’umorismo e della comicità e di ciò che hanno scritto nei millenni i filosofi sui motivi per cui si ride richiederebbe vari volumi.

In questo articolo potrò solo accennare brevemente alla storia della comicità e dell’umorismo per cercare di rispondere a due domande: “Cosa li caratterizza?” e “Hanno anche un significato spirituale che possa giustificare l’utilizzo del termine spirito per il sense of humor?”

Escluderei subito dal campo di indagine alcune forme del riso, che con la comicità e l’umorismo non hanno nulla a che fare: ad esempio il riso rituale degli antichi sardi, all’origine del termine riso sardonico, così come il riso di circostanza che si simula per compiacere qualcuno, o il riso del sadico che infligge una tortura e sperimenta il piacere del controllo e anche il riso dionisiaco che esprime l’enthousiasmòs, la gioia di vivere, la potenza della corrente della vita, della Zoì, che si manifesta.

Comincerò e terminerò il mio intervento con due miti: il primo è tratto dal libro ottavo dell’Odissea. Siamo alla corte di Alcinoo e il cantore cieco Demodoco canta le gesta di Efesto il quale ha scoperto che sua moglie Afrodite lo tradisce con Ares. Coglie sul fatto gli amanti intrappolandoli in una rete di metallo e trascinandoli al cospetto degli dèi.

Ci dice l’Odissea che allora:

un riso irrefrenabile si levò tra gli dei beati nel vedere le arti dell’accorto Efesto.

Torneremo sui motivi di questo riso “irrefrenabile” alla fine.

In una Grecia meno arcaica di quella di Omero, la Grecia del V – IV secolo, la commedia aveva un’importante funzione sociale che si fondava proprio sul fatto che le vicende rappresentate muovevano gli spettatori al riso. Il termine komos, festino, da cui commedia, ode per il festino, in origine legato alla vinificazione e pigiatura dell’uva e ai riti agricoli, era passato in seguito ad indicare bande di uomini dediti a danze e canti fallici e successivamente un tipo di rappresentazione con attori.

Temi ricorrenti nella commedia greca erano l’inversione di ruoli tra uomini e donne, uomini e dei, gli scambi di persona, gli equivoci di ogni tipo, l’accentuazione dei difetti fisici e morali attraverso l’uso di maschere grottesche ma anche, come in Aristofane, la pungente critica sociale e l’irrisione dei potenti.

Se lo scopo della tragedia era quello di provocare la catarsi negli spettatori, una sorta di consapevolezza e purificazione che proveniva da una identificazione con i protagonisti della tragedia e con le loro sofferenze prima – e poi da uno straniarsi e distaccarsi dalla vicenda narrata, cogliendone il senso profondo – lo scopo della commedia, rappresentata dopo la tragedia, era invece quello di risollevare gli spiriti attraverso il riso. Come cercherò di mostrare alla fine di questo articolo il riso, in ogni tempo, ha avuto anch’esso la funzione di catalizzatore della consapevolezza.

Aristotele si diffonde sulla funzione della tragedia nel primo libro della sua Poetica mentre secondo alcune fonti antiche sarebbe esistito anche un secondo libro dedicato alla Commedia – lo sostiene ad esempio il patriarca nestoriano Timoteo, + 823 -, che per il filosofo sarebbe stata una forma di espressione “per le persone di poco conto” caratterizzata da “difetti e brutture che non causano né dolore, né distruzione” (V, 49).

Sul ritrovamento di questo ipotetico II libro Umberto Eco ha basato la trama de Il nome della rosa.

Anche nell’antica Roma e nelle culture dei popoli latini e degli etruschi c’erano feste popolari legate ai raccolti agricoli e alla vinificazione. Nascono così l’Atellana, dal nome della città campana di Atella, i Fescennini e un teatro legato a doppi sensi scurrili, a scherzi pesanti, a equivoci e scambi di persona, le cui espressioni più alte saranno l’arte del mimo, la farsa e la satira, con Ennio, Giovenale, Orazio e Plauto.

Per avere un’idea di come funzionasse il meccanismo della comicità nella commedia antica prendiamo ad esempio Sosia di Plauto. Nel racconto, Giove prende le sembianze di Anfitrione per andare a letto con la moglie di questi e il figlio che nasce da questa unione avrà quindi due padri identici nell’aspetto. Allo stesso tempo il servo di Anfitrione, Sosia, ha come controparte Mercurio, al servizio di Giove, e anche questi due personaggi sono identici. Questa trama genera evidentemente mille equivoci comici. Se si pensa a un film come Totò Diabolicus, si deve convenire che in duemila anni i meccanismi della comicità non sono poi tanto cambiati.

Che l’umorismo latino ed etrusco non andasse troppo per il sottile lo si evince per esempio dalla tomba etrusca dei Giocolieri a Tarquinia, in cui un acrobata è dipinto nell’atto di emettere un peto “con proiettile”, un tema grottesco che peraltro ritroveremo anche nell’arte gotica, raffigurato sui doccioni delle cattedrali.

Tuttavia non dobbiamo necessariamente interpretare i lazzi osceni del teatro antico e la volgarità di molte raffigurazioni come una prova di bassezza d’animo. Come argomentano, ad esempio, Claude Gaignebet e Jean-Dominique Lajoux nel loro Arte profana e religione popolare nel medioevo, quella apparente pesantezza può celare verità profonde nascoste dalla cabala fonetica e da doppi sensi evidenti solo all’iniziato.

Non si dovrebbero trascurare le parole che Rabelais fa pronunciare a Gargantua nel prologo:

È dato anche il caso che in senso letterale voi troviate qui cose abbastanza allegre e rispondenti al titolo, tuttavia non bisogna fermarsi lì, come al canto delle sirene, ma al contrario in un senso più alto interpretare tutto ciò che per avventura credevate scritto soltanto per gioco.

Tra le maschere comiche del teatro latino ricordiamo Bucco, un chiacchierone scimunito, Dosseno, un gobbo astutissimo, Macco e Manducus, un ghiottone e un ciccione, Pappus, un vecchio ilare e rincoglionito e Kikirrus, una sorta di antenato di Pulcinella, dallo spirito sboccato e grossolano, che si annunciava con il verso del gallo.

Gli dei romani che sovrintendevano al sesso e alla defecazione ci aiutano a comprendere l’umorismo degli antichi e rendono evidente che non avessero idea di cosa fosse la privacy.

Nel loro immaginario la prima notte di nozze era affollata di divinità soccorrevoli: dal dio Subigus, che faceva sottomettere la donna perché si stendesse buona buona sotto al marito, alla dea Pertuda, che si assicurava che l’introduzione della verga andasse a buon fine, a Inuus, che sovrintendeva all’erezione, alla dea Prema, che evitava la fuga della moglie durante il rapporto, e questi sono solo un piccolo esempio degli dei che prendevano parte alla conjunctio.

Un Pantheon altrettanto numeroso e indiscreto accompagnava e propiziava chi si recava alle latrine, citeremo solo Stercùtius, dio del letame e Crepitus, che propiziava la liberazione dalle arie intestinali.

Non sempre gli attori comici erano destinati a un ruolo inferiore e subalterno nella scala sociale. A Bisanzio la mima Teodora, sposando l’imperatore Giustiniano, divenne imperatrice.

La Chiesa cristiana proibì per alcuni secoli l’arte dei mimi e le commedie sboccate, ma compagnie girovaghe di mimi, buffoni, giocolieri e attori sopravvissero fino al medioevo, esibendosi nelle piazze dei paesi e delle città. Dopo l’anno 1000 la filosofia scolastica riprese da Aristotele il disprezzo per la commedia e per la comicità ma dal 1200 trovatori e attori girovaghi diffusero nelle corti europee anche forme molto raffinate di umorismo.

Una vivida descrizione del mestiere di attore si può ricavare da La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni da Bagnocavallo (1585), che descrive gli attori girovaghi, i buffoni e i loro spettacoli. Tra i personaggi citati spiccano gli Zanni, poi più volte citati Dario Fò nel suo teatro, furbi, maneggioni e predestinati ai guai, antenati dell’Arlecchino della Commedia dell’arte, maschera perfezionata alla fine del ‘500 da Drusiano e Tristano Martinelli.

Il primo documento di fondazione di una Compagnia di attori girovaghi presso un notaio risale al 1544, a Padova e da allora le compagnie girovaghe si moltiplicano, dando origine alla Commedia dell’arte e alle sue immortali maschere comiche. Da questo momento la comicità popolare e quella colta si intersecano indistricabilmente e divertono sia il popolo che i reali delle corti europee.

Un esponente di una delle più raffinate Accademie del ‘500, l’Accademia degli Umidi, Francesco Grazzini detto “Il Lasca”, ci ha lasciato una poesia in cui esalta il teatro popolare che termina con i versi:

Così dai Zanni vinti e superati
possono ire a impiccarsi i letterati
.

I meccanismi comici di questo teatro popolare non sono cambiati significativamente nel tempo, dalla più celebre compagnia teatrale girovaga del XVI secolo, la Compagnia dei Gelosi di Flaminio Scala, con Francesco Andreini e Isabella Canali, al teatro elisabettiano.

Ricordo la funzione dei doppi sensi, anche osceni, nel teatro di Shakespeare o nel già citato Rabelais, che possono allo stesso tempo alludere a significati sapienziali, passando da Goldoni e Molière, per finire con il teatro di Scarpetta e quello di Eduardo De Filippo e con l’avanspettacolo e i film comici di Totò e Peppino De Filippo.

Anche l’umorismo raffinato di Chaplin, di Woody Allen e dei fratelli Marx, o quello di Buster Keaton o di Stanlio e Ollio si fondano sulle stesse basi. Per inciso, l’uso dei doppi sensi osceni e delle battute scurrili per celare insegnamenti “alti”, è un tema che meriterebbe un articolo dedicato al cosiddetto “linguaggio degli uccelli”, utilizzato anche dagli alchimisti per velare gli aspetti salienti della loro Opera.

In molti hanno provato a rispondere alle domande che ci siamo posti all’inizio.
Solo qualche esempio:

Per Aristotele, che ci lascia il sospetto che egli fosse totalmente privo di sense of humor, lo scopo della comicità, che va esercitata con grande moderazione, è rivelare discrepanze, difetti e disarmonie nel mondo, ma la giudica comunque una attività inferiore dell’anima.

Al contrario, per Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, l’umorista è un saggio folle che illumina il suo prossimo sulla natura grottesca dell’esistenza.

Per Hobbes, De homine, si ride di fronte ad eventi sconvenienti, estranei, inattesi e comunque Hobbes, Voltaire e Baudelaire sono d’accordo nel ritenere che il riso muova da un senso di superiorità sull’oggetto del ridere, tanto che Hobbes considera addirittura vanitoso e pusillanime chi ride spesso.

Henri Bergson, nel suo Saggio sul significato del comico giudica il riso una forma di anestesia del cuore, l’empatia è bandita e sostituita da una complicità con terzi, a scapito di chi è oggetto del ridere. Insomma, per lui ridere è un fenomeno sociale che colpisce ciò che si oppone all’elan vital, come i comportamenti meccanici e l’adesione cieca alle regole.

Ralph Waldo Emerson nel suo The Comic vede il ridere su qualcosa come una conseguenza di aspettative frustrate, o di una rottura della continuità dell’intelletto, generata da eventi e cose fuori contesto o dalla percezione dell’incompletezza e delle carenze dell’uomo.

Sigmund Freud ne Il motto di spirito sostiene che ciò che ci muove alla risata per una battuta è un contenuto inconscio in ciò che abbiamo espresso verbalmente, cioè il ridere sarebbe una sorta di valvola di sfogo per una carica emotiva repressa.

Nessuna di queste teorie sul riso sembra convincente, tranne quella di Erasmo. Si direbbero formulate da persone prive di umorismo.

Molto più interessante è invece quel che affermano Pirandello e Chaplin.

Luigi Pirandello sostiene anzitutto che si deve operare una distinzione tra comicità ed umorismo: la comicità è la percezione di qualcosa che non è come dovrebbe essere, ad esempio una donna di 60 anni che si veste e si tinge i capelli per sembrare più giovane di 30 anni. L’umorismo, che può sfociare nella tragedia e nell’amarezza, consiste nel cogliere il motivo profondo della comicità, ad esempio la signora sessantenne si è innamorata di un trentenne. Quindi, la comicità tocca la superficie, l’umorismo va nel profondo.

Charlie Chaplin, nella sua autobiografia, nel raccontare il modo in cui predisponeva situazioni comiche nei suoi film dice che la ricetta per far ridere è creare una crasi tra la maschera che caratterizza una persona, o una situazione, e il suo vero volto, ad esempio un signore solenne e impettito a un funerale depone il cilindro accanto a sé e qualcuno si siede sopra il cilindro, riducendolo a una cialda, e poi lo restituisce al proprietario, che prova invano a indossarlo.

Ecco, è difficile non essere completamente d’accordo con queste ultime due interpretazioni: c’è differenza tra comicità e umorismo e l’umorismo scaturisce da una scissione, da una schizofrenia tra maschera e volto, tra convenzioni e codici sociali e azioni trasgressive, tra presunta solennità e reale prosaicità, tra prosopopea, aspettative e realtà.

Per questo l’umorismo è un veicolo fondamentale per la conoscenza e la crescita interiore. Ridere può significare avere una doppia visione della realtà che ci circonda, di noi stessi e degli altri, andare oltre le maschere e gli schemi interpretativi che imprigionano la nostra mente.

In molte culture questa è la funzione del Trickster, il burlone divino: ingannare e rendere vittima di illusioni, o di scherzi atroci, imbrogli o sentenze ambigue chi deve essere illuminato. Mercurio nella mitologia greca, Loki e Odino, che vaga per la Terra travestito da mendicante o da indovino, in quella nordica, oppure Don Genaro, Don Juan e Julian Osorio nei racconti sciamanici di Castaneda, Vishnu nella mitologia indiana, hanno tutti questa funzione.

Questo svelamento, che separa volto e maschera nei percorsi spirituali, non è solo orizzontale, non si tratta cioè soltanto di stabilire una vera identità e di accorgersi che la maschera è ingannevole. La doppia vista dell’iniziato è verticale, e cercherò di spiegare perché attraverso un mito greco sull’infanzia di Hermes – Mercurio.

Narra il mito che Hermes, appena nato, già aveva l’istinto del ladro. Vide i magnifici buoi di Apollo, dio del sole, e decise di rubarglieli. Li nascose in una caverna, avendo avuto cura di camminare all’indietro, imprimendo sulla terra delle orme rovesciate per non essere scoperto. Ma alla fine Apollo scoperse il nascondiglio e ritrovò i buoi.

Stava per infliggere ad Hermes una punizione esemplare, ma guardando quel birbante, che si era sistemato nella sua culla e aveva assunto una espressione innocente, scoppiò a ridere e lo perdonò, divertito anche dall’ingegnosità di quel dio ancora in fasce. Anzi, gli regalò la sua verga magica e rese così Hermes uno psicopompo, dato che quella verga gli permetteva di passare dal cielo alla terra e dalla terra al mondo infero. Hermes lo ricambiò applicando al guscio di una tartaruga le budella essiccate di uno dei buoi e fabbricando così il primo strumento musicale.

In questo mito il fatto che Hermes faccia ridere Apollo viene ricambiato con il dono di poter viaggiare attraverso l’asse verticale, l’axis mundi che collega cielo, terra ed inferi.

Cosa c’era nella risata di Apollo di così prezioso da far meritare ad Hermes un dono simile?

La risposta sta proprio nel percorso seguito dal dio del sole per ritrovare i suoi buoi, e qui vorrei ricordare che il termine bous indicava in greco antico anche il mezzo di scambio, la moneta, il princìpio di equivalenza utilizzato negli scambi. Per ritrovare i suoi buoi Apollo dovette procedere camminando all’indietro, una evidente metafora del detto apollineo gnoti sautòn, conosci te stesso.

Se vediamo le varie fasi del racconto mitologico come simultanee nel loro verificarsi, come accade a volte nei sogni, questa simultaneità significa che, per ritrovare i suoi buoi, cioè il princìpio di equivalenza utilizzato per interpretare la realtà, Apollo deve camminare all’indietro e cambiare punto di vista.

Apollo poi ride e dona a Mercurio – Hermes, in cambio di questo percorso inverso, la facoltà di poter viaggiare lungo l’asse dello spirito, il che comporta la visione degli dei superni e di quelli inferi. Hermes contraccambia Apollo con la lira, la cui musica diviene lo strumento con cui Apollo diffonde bellezza ed armonia, qualità percepite e possedute solo da chi ha accesso alla profondità simbolica del mondo.

Torno ora al mito con cui ho cominciato, al riso degli dei che contemplano la rete che avvolge Marte e Venere, due divinità che non potrebbero che essere amanti, dato che lei rappresenta le forme esteriori che suscitano il desiderio e lui l’azione che verso quelle forme si indirizza. Vederli prigionieri di una rete forgiata da Efesto significa aver catturato il segreto del meccanismo che trasforma le nostre percezioni in desiderio e poi in azione. Ritorna, legata al riso, la doppia vista degli iniziati, quello strabismo che ci fa percepire le cose su due piani diversi simultaneamente, uno letterale, l’altro simbolico.

Termino con il misterioso sorriso delle Kore, replicato all’infinito nelle statue funerarie conservate, ad esempio, nei musei archeologici di Siracusa o di Atene. Rappresentano fanciulle morte prematuramente nell’atto di consegnare una misteriosa scatola nelle mani di Persefone, dea degli inferi, di solito interpretata come lo scrigno in cui conservavano i loro gioielli e belletti. Se da un lato quelle statue hanno sicuramente a che fare con il culto eleusino di Demetra e Persefone, che era diffuso anche nella Magna Grecia, dall’altro è impossibile non accostarle al mito di Amore e Psiche così come lo racconta Apuleio ne L’Asino d’oro.

La scatola che le fanciulle consegnano a Persefone, o ricevono da lei, conterrebbe allora l’unguento della vita eterna e il misterioso sorriso che aleggia sui loro volti testimonierebbe che esse hanno percepito, attraverso i simboli, gli aspetti immutabili del mondo divino ed infero attraverso l’impermanenza di tutte le cose.

La volgarità di gran parte dell’umorismo “moderno” non deve farci dimenticare che, in ogni tempo, il riso è stato un potente strumento per smascherare le mistificazioni e ristabilire la verità, un antidoto indispensabile nell’epoca delle fake news virali.

Autore Alessandro Orlandi

Alessandro Orlandi (1953) matematico, museologo, curatore per 20 anni dell'ex museo kircheriano, musicista, saggista ed editore della Lepre edizioni, è autore di numerosi articoli e libri riguardanti la matematica, la museologia scientifica, la storia delle religioni, la tradizione ermetica, l’alchimia, le origini del Cristianesimo e i Misteri del mondo antico.