Storia del diritto e del diritto positivo nella formazione del giurista di oggi
Lorenza Iuliano
Paolo Grossi (1998)
Con la Rivoluzione francese il diritto, regolatore dei rapporti quotidiani che una tradizione plurisecolare aveva legato alla produzione dei privati, viene strettissimamente legato al detentore del potere politico; lo Stato pretende non solo di creare il diritto, ma di porsi come l’unico soggetto produttore e, dunque, come l’unico ente in grado di poter conferire ad una generica regola sociale, il marchio e il privilegio della giuridicità e trasformarla in norma giuridica. L’operazione del potere borghese è rigidamente costrittiva e, pertanto, enormemente riduttiva: lo Stato diviene l’unico soggetto produttore di diritto, l’unica manifestazione della legge; si pone, dunque, in posizione gerarchicamente primaria. Il giurista, tradizionalmente elevato a conditor iuris, è ora ridotto a semplice esegeta di un testo normativo che gli è completamente estraneo perché egli non ha in alcun modo contribuito a creare. Il risultato secondo Grossi è una visione sostanzialmente impoverente della complessità e ricchezza dell’universo giuridico. Statualità del diritto, monopolio della legge, funzione passiva della iurisprudenzia si sono mantenuti pressoché intatti almeno nella convinzione diffusa della maggioranza silenziosa dei giuristi. È oggi che molto sta cambiando e proprio su un piano di psicologia collettiva dei giuristi: lentamente ma incessantemente si è conseguito un recupero sempre maggiore della ricchezza e complessità dell’universo giuridico. Il giuspubblicista Santi Romano (1918) avvia una straordinaria operazione culturale che ricolloca il diritto fuori dell’abbraccio soffocante dello Stato, ben vincolato invece alla società come fatto globale in tutta l’esuberanza delle sue manifestazioni. Il diritto, che prima appariva nella superficie piatta e asciutta delle norme legali, recupera tutta la sua complessità, torna a rivelarsi come un universo a più strati; e ritorna quale articolazione legittima dell’orizzonte dei giuristi quella dialettica fra validità ed effettività che aveva costituito la carica evolutiva del vecchio diritto comune. Non più solo la misura rigida della validità, cioè della corrispondenza ad un generale modello autoritario, ma quella plasticissima della effettività, cioè dell’appropriazione sociale di una regola o di un principio. Si riafferma, dunque, il legame fra diritto e civiltà, una capacità di guardare criticamente il cosiddetto legislatore e i suoi prodotti, le leggi, avviando un processo che, senza incrinare il necessario rispetto per la regola legale, porta però ad una salutare demistificazione. Legislatore e legge discendono dall’altare su cui li aveva collocati la propaganda borghese si confrontano con altre fonti in un universo giuridico dai confini straordinariamente più ampi; ed emergono inconsueti angoli di osservazione, come la “ragionevolezza della legge” e “l’abuso del legislatore”. Occorre dunque che la storia del diritto e ancor più lo storico del diritto assurgano l’indispensabile ruolo di coscienza critica per il cultore del diritto. Il diritto è dimensione di una civiltà, dunque è allo storico che compete un ruolo esclusivo; civiltà significa storia, in tutta la ricchezza delle sue espressioni; è lo storico a dover ricordare che il testo è rappresentazione parziale ed artificiosa di una realtà retrostante; che è falsante arrestarsi alla sua osservazione, che occorre invece immergersi nell’effettiva sostanza del fenomeno. È lo storico infatti che è avvezzo a non isolare ma a cogliere nessi, implicazioni, radicazioni. La società borghese non ha solo statalizzato il diritto, ma lo ha immobilizzato in regole costruite e millantate come generali ed eterne; ne è derivata una nefasta conseguenza a livello psicologico anche per l’odierno giurista, che pur vive un delicato e difficile momento di transizione dove molto di nuovo si mescola con il vecchio: la considerazione degli odierni valori giuridici come gli unici, se non addirittura i migliori possibili e la conseguente incapacità di vagliare criticamente quei valori. Ancora oggi, di fronte ad evocazioni come legge, legislatore, codice, legalità, gerarchia delle fonti di diritto, certezza del diritto, eguaglianza giuridica, divisione dei poteri, ci comportiamo acriticamente. Il compito dello storico, in questo contesto, diviene dunque quello di relativizzare. Quest’opera di relativizzazione sarà ancor più efficace se allo storico si affiancherà il comparativista, conoscitore del common law che si pone in continuità con i valori espressi dallo ius commune medievale. Lo storico, al fianco del cultore del diritto positivo, dà un contributo insostituibile alla demitizzazione: la semplicità del diritto di ieri appare anche come eccessiva semplificazione di una realtà che va invece considerata in tutta la sua complessità. L’enorme approfondita analisi delle singole branche del diritto ha fatto perdere il senso dell’unità della scienza giuridica che deve essere urgentemente recuperata dal giurista. Tre sono le operazioni culturali che rendono opportuna se non necessaria la convivenza e il colloquio continui dello storico del diritto con il cultore del diritto positivo: 1) recupero della complessità dell’universo giuridico; 2) salutare relativizzazione del sacrario che ogni giurista serba gelosamente all’interno del proprio animo; 3) recupero della percezione dell’unità della scienza giuridica. Questo non è tempo di solitudini per il giurista; è piuttosto tempo di lavoro comune, di attenzione, di disponibilità reciproche. È temibile, ma purtroppo realtà frequente, quella dello storico che lavora con passione e dedizione, ma appartato nel cantuccio che difende ostinatamente. È la manifestazione esterna di un atteggiamento interiore di profonda sufficienza, che sottolinea l’incomunicabilità fra chi presume di maneggiare gli alti strumenti e una somma erudizione e chi, agli occhi di lui, si trastulla con gli articoli di un Codice. Occorre che lo storico del diritto si misuri anche con quella dimensione esclusiva, ostica forse, ma essenziale, che è la tecnica giuridica. Il diritto ha infatti una autonoma visione del mondo che è l’autonomia di uno specifico sapere, autonomia di statuto epistemologico, di concetti, di lessico. In un’ottica meramente esegetica, il cultore del diritto positivo si limita ad un’operazione intellettuale passiva e psicologicamente estranea rispetto ad un insieme di norme nel cui processo di produzione non ha alcun coinvolgimento. Questa sua funzione così estremamente ridotta, non corrisponde al compito che oggi gli si chiede, quella percezione della complessità e insieme quel distacco critico che colloca il presente-vigente in una linea ariosa corrente fra passato e futuro. Si tratta dunque di un triplice salvataggio culturale: per la scienza giuridica; per lo storico del diritto e per l’analista del diritto positivo, sottratti entrambi dall’esilio d’ombra in cui può confinarli l’erudizione; per l’esegesi normativa. Dialettica vuol dire confronto con i valori diversi, apertura e disponibilità verso esperienze aliene per permettere ripensamenti, integrazioni, modificazioni. I singoli momenti storici, ciascuno dei quali realizza un’autonoma maturità di tempi, non sono isole staccate, ma punti di una lunga linea; punti sorretti da forze proprie e peculiari, ma pur sempre frammenti di una linea. Lo storico, secondo Grossi, non offre modelli, ma segnala il senso della linea. Il presente è soltanto un frammento; c’è bisogno di una maturità espressa nella sua totalità.