Ormai, la depressione indotta da trauma è entrata nel linguaggio quotidiano e tutti abbiamo sentito parlare di come i soldati di ritorno, per esempio, dalla Guerra del Golfo abbiano dei seri problemi ad adattarsi e ri-adattarsi alla vita di tutti i giorni.
Fra loro, vi è un maggior tasso di malattie mentali, disoccupazione, uso di droghe, divorzi, suicidi.
Sicuramente la depressione da infortunio sportivo non giunge a questi livelli, e non sembra generare idee suicide o gravi disturbi depressivi. Però, è sicuramente molto più comune.
Basta una partita di pallone fra amici su erba sintetica: il piede rimane piantato per terra, tutto il nostro corpo fa perno sul ginocchio, ed ecco che, proprio all’inizio della stagione, voliamo dall’altra parte ed atterriamo in pronto soccorso.
Il trauma è stato improvviso ed inaspettato. La rabbia, prima, e poi dolore si fanno avanti. Una discussione con il nostro chirurgo, ed un lungo periodo di guarigione dopo un intervento producono una sensazione di angoscia ingravescente.
Eppure, sono le lesioni croniche che ci lasciano con una sensazione peggiore: non potremo più godere della nostra vita sportiva nella stessa maniera!
I nostri colleghi psichiatri spesso prescrivono farmaci antidepressivi per evitare che si determini una spirale autoperpetuantesi che produca una depressione sempre più nera. Nel nostro mondo, quello dello sport, questi medicinali riducono le prestazioni in maniera allarmante.
Però, consideriamo che la maggior parte dei pazienti che hanno subito un trauma da sport non erano depresse prima, e quindi non desiderano avere un trattamento farmacologico “psichiatrico”.
Alla fine dei favolosi anni sessanta, ‘se te li ricordi, non c’eri’, Timothy Leary, lo psicologo di Harvard, padre dell’uso dell’LSD per apportare un miglioramento permanente nella visione della vita di alcune persone, con una serie di esperimenti che sono ora irripetibili aveva aperto la strada per i ‘viaggi terapeutici’.
Ora, sappiamo che questi ‘viaggi’ non vanno mediati da droghe, ma sono devono essere guidati professionalmente. Queste terapie possono aiutarci a superare i disturbi da stress post-traumatico ed i fenomeni depressivi. Sotto molti aspetti.
Ricordate, è un ortopedico che parla, non uno psichiatra od uno psicologo, con la guida appropriata una persona potrebbe riuscire a liberarsi dal rigido attaccamento al trauma che la trattiene, tornando quella che potrebbe essere, piuttosto che quella arrabbiata e depressa che è divenuta in seguito all’incidente sul campo di gioco. Una esperienza del genere può ricablare il nostro cervello e cambiare il corso della vita.
Dopo un trauma da sport o un’operazione chirurgica, cerchiamo di far astrarre il paziente dalla dolorosa realtà contingente immediata; deve vedersi e considerarsi come un atleta in allenamento, non come chi deve intraprendere il processo di riabilitazione; percependosi l’infortunio come una ragione per allenarsi in maniera più creativa, ed aggirare il trauma stesso, mentre quella parte del corpo guarisce. Deve ripensare il proprio approccio allo sport e così ridurre la probabilità di futuri incidenti.
In questa maniera, il paziente può imparare che può riprendersi in una forma migliore rispetto a quella in cui era prima di essersi infortunato. Tutto questo è difficile, in teoria ed in pratica: richiede, ad esempio, trascendere la rabbia per il trauma, superare interventi chirurgici precedentemente falliti, o dimenticare l’astio per l’avversario che ha causato la lesione, ed immaginare prima, ed identificare poi, un nuovo obiettivo positivo.
Possiamo aiutare gli atleti ad arrivare a questo scopo con l’allenamento introdotto dalla pratica della fisioterapia: è il motivo per cui dico ai miei pazienti che un buon fisioterapista vale il proprio peso in oro e che un eccellente intervento è vanificato da una cattiva riabilitazione.
Scherzosamente, ma non troppo, faccio loro presente che il miglior amico deve essere non il chirurgo, ma il fisioterapista, appunto. E dico, ma senza scherzare, che, se questo si rivolge a loro, i miei pazienti, perché chiedano a me, il chirurgo, cosa fare, allora devono cambiare fisioterapista. Dopo tutto, non sono io lo specialista della riabilitazione. Mentre posso concepire essere il direttore di un’orchestra la cui sinfonia porta alla prestazione sportiva massima, i professionisti sono gli altri.
Gli allenamenti quotidiani produrranno sudore, frustrazione e dolore, ma genereranno ormoni e fattori di crescita che, entrando nel flusso sanguigno, aiutano a ripristinare lo spirito competitivo.
Paradossalmente, un trauma da sport può aiutare a far tornare l’atleta ancora più in forma, più veloce e più forte di prima. L’infortunio deve essere una piattaforma di lancio, non una pista dove compiere un cattivo atterraggio di fortuna.
Il Prof. Nicola Maffulli sarà a disposizione per rispondere ai quesiti che gli arriveranno alla mail ortopedicorisponde@expartibus.it.
Autore Nicola Maffulli
L'autore più citato in ortopedia, il Professor Nicola Maffulli, è superspecializzato in traumatologia sportiva. Ha pubblicato più di 1.200 articoli su riviste scientifiche e 12 libri e ha descritto oltre 40 nuove tecniche chirurgiche in chirurgia del ginocchio, piede e caviglia e chirurgia sportiva, molte delle quali sono state ampiamente adottate in tutto il mondo. Atleta in gioventù, il suo sogno di andare alle Olimpiadi è stato realizzato a Londra: ha guidato un gruppo di sette chirurghi ortopedici per le Olimpiadi e le Paralimpiadi di Londra, ed ha poi organizzato i servizi medici delle Universiadi 2019. Giornalista pubblicista, risponde ai lettori alla mail ortopedicorisponde@expartibus.it su problematiche di natura ortopedica e traumatologica.
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