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Simbolismo ed iconologia nella Cattedrale di Casertavecchia



Una chiave di lettura esoterica

Il borgo medioevale di Casertavecchia fu fondato dai Longobardi di Capua nell’VIII secolo ed ebbe il nome di Casa Hirta, diventando un importante centro fortificato, Castrum, sede di una contea; in epoca normanna divenne possesso di Riccardo d’Aversa nel 1062 e quindi feudo della famiglia Sanseverino; quest’ultima, però, ne fu privata nel 1268 da Carlo I d’Angiò, per aver preso le parti di Corradino di Svevia.

Il borgo passò poi ai De Beaumont, ai Gaetani (1295), ai Siginulfo (1305) e ai Della Ratta (1310), agli Acquaviva (1509) e di nuovo ai Gaetani. Dopo che l’antica sede episcopale di Calatia, sita nei pressi dell’attuale Maddaloni, fu abbandonata a seguito delle incursioni saracene (861-880), Casertavecchia divenne sede di diocesi e nel 1113 il vescovo Rainulfo diede avvio alla costruzione della Cattedrale, dedicata a San Michele Arcangelo, forse sui resti di una chiesa preesistente. Le iscrizioni che si leggono sugli architravi dei tre portali ci informano che la costruzione, iniziata da Rainulfo, fu proseguita dal Vescovo Nicola (1129) e che la Cattedrale fu consacrata nel 1153. Nell’iscrizione del portale mediano, l’ultima in ordine di tempo, si legge anche il nome dell’architetto, Erugo.

Dopo il 1207, per volere del Vescovo Stabile, la chiesa, che presentava una pianta basilicale a tre navate, fu ampliata con l’aggiunta di un transetto con tre absidi e la realizzazione della cupola, posta all’interno di un alto tamburo ottagonale. Nel 1235, al tempo di Federico II, fu eretto il campanile, alto 32 metri, in cui si apre un grande arco ogivale al di sopra del quale si vede una decorazione ad archetti incrociati; seguono due piani di bifore ed un coronamento con una cella campanaria ottagonale e torrette cilindriche agli angoli, come a Gaeta e Amalfi. Alla fine del Seicento l’originario aspetto romanico della Cattedrale fu trasformato in quello di una chiesa barocca, ma nel 1926 un radicale restauro riportò la chiesa all’originario aspetto medievale.

La chiesa rappresenta un importante episodio del Romanico in Campania in cui confluiscono elementi stilistici della tradizione benedettina di Montecassino, del Romanico lombardo e pugliese e dello stile arabo-normanno, come nelle chiese di Gaeta e Salerno e della Costiera Amalfitana. L’edificio, costruito in tufo grigio campano, presenta sul tiburio due ordini di archi su colonne, quello inferiore è composto da archi intrecciati, ed entrambi sono decorati con motivi ornamentali geometrici, floreali e zoomorfi ottenuti dalla composizione di pietre gialle e grigie.

La dedica della Cattedrale di Casertavecchia all’Arcangelo Micheleinserisce il Borgo nella fitta rete dei siti a lui dedicati a partire dalla fondazione del Santuario del Gargano nel V secolo, con la straordinaria diffusione del suo culto. Per le sue caratteristiche guerriere, l’Arcangelo fu oggetto di particolare venerazione da parte dei Longobardi che, dopo la loro conversione dall’Arianesimo al Cattolicesimo, fecero, del santuario del Gargano, l’epicentro del culto di San Michele e, in suo onore, eressero numerosi altri luoghi di culto. Protettore, in particolare, degli uomini d’arme, San Michele viene invocato come soccorritore da chi si trova in pericolo, subisce aggressioni o ingiustizie, in quanto gli è attribuito il potere di combattere le forze del male.

L’Arcangelo Mikael compare come capo delle milizie celesti nell’Apocalisse (12,7) in cui si evidenzia il suo simbolismo come campione delle forze della Luce e del Bene contro il Drago, espressione delle forze del male, ma si rivela anche la sua valenza stellare in riferimento all’Asse Cosmico posto al centro delle costellazioni circumpolari.

Il simbolismo stellare del Drago è esplicitamente espresso nell’Apocalisse:

“Allora apparve un altro segno nel Cielo: un enorme Drago rosso, con sette teste e dieci corna, e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del Cielo e le precipitava sulla Terra”.

Il Drago minaccia la Vergine Una Donna vestita di Sole, con la Luna sotto i piedi, e sul capo una corona di dodici stelle” e il Bambino che essa partorisce e che è “destinato a reggere tutte le nazioni con uno scettro di ferro.

Il senso dell’immagine è chiaro. La Donna celeste descrive l’asse che congiunge il centro della fascia zodiacale, le dodici stelle che circondano la sua testa, al mondo sublunare, cui allude la Luna posta sotto i suoi piedi, e la verga di ferro con cui il Figlio che essa partorisce governerà tutte le nazioni altro non rappresenta se non l’asse polare.

L’azione di San Michele che precipita il Drago sulla Terra rappresenta la proiezione sul mondo di una forza cosmica, identificabile nella costellazione circumpolare del Drago. Proiettata sulla Terra, questa forza di origine stellare si trasforma in una corrente di energia tellurica e sotterranea: l’ubicazione dei Santuari dedicati all’Arcangelo, posti sia sulle alture che in grotte, identifica, pertanto, dei luoghi privilegiati di contatto fra “ciò che è in alto e ciò che è in basso”, indicando quelli che potremmo considerare dei “nodi” dell’invisibile rete costituita dalle correnti di energia sottile.

Il simbolismo assiale veniva evidenziato con altrettanta chiarezza nelle più antiche immagini dell’Arcangelo Michele, armato di una lunga lancia, palese allusione al collegamento fra la dimensione terrestre e quella celeste e soprannaturale. E la Bilancia che gli è stata successivamente attribuita, prima di essere l’emblema della costellazione equinoziale, indicava l’Orsa Maggiore e ad essa si collegava la Tule iperborea, il primo Centro Sacro del nostro Ciclo.

Osserviamo, ora, il prospetto principale della chiesa: rivolto ad occidente, è a salienti ornati con archetti pensili e archi ciechi incrociati e presenta tre portali in marmo bianco di Luni che creano un bel contrasto con l’austero grigio della pietra di costruzione.

Il portale centrale ha lateralmente due mensole aggettanti con due leoni ed è sormontato da una mensola con un toro. Al di sopra del portale mediano si apre una monofora con due colonnine che poggiano su leoni stilofori. Il portale destro presenta lateralmente due sculture aggettanti che sembrano cavalli, mentre quello sinistro due centauri.

La posizione di rilievo attribuita al Toro, posto al centro della facciata e al di sopra dell’arco del portale mediano, richiama la nostra attenzione sul significato simbolico di questa figura. Il Toro, animale consacrato ad Osiride nella forma del Bue Api, simboleggiava la forza fecondante della natura e presentava caratteri insieme solari e lunari; era infatti raffigurato con un disco solare posto fra le corna che rappresentavano la luna crescente. Nel culto di Mitra la scena della Tauroctonia, presente in tutti i Mitrei, ne costituiva il principale nucleo simbolico: vi si vede il dio nelle vesti di un giovane col berretto frigio che da dietro afferra la testa di un toro e gli affonda la spada nel collo; un serpente e un cane bevono il sangue che sgorga dalla ferita inferta al toro, mentre uno scorpione afferra i suoi testicoli; il Sole e la Luna contemplano dall’alto la scena alla quale assiste anche un corvo. Secondo la religione zoroastriana, il Toro, creato dalla divinità suprema Ahura Mazda, viene ucciso da Mitra, rappresentante della divinità sulla Terra, mediatore fra il Cielo e la Terra, “nato dalla pietra”; la tauroctonia ha luogo in una caverna, che Porfirio considera un’immagine del Cosmo, e dal corpo del Toro ucciso spuntano animali, piante e frutti della terra. In tal senso il Toro può essere inteso come simbolo della forza fecondante della natura e dell’universo e, del resto, è per questa stessa ragione che nel mondo antico erano consueti i sacrifici di tori.
Esiste però anche una chiave di lettura stellare di questa immagine; il Toro può essere fatto corrispondere all’omonima costellazione e la sua uccisione può alludere all’Equinozio di Primavera oppure indicare il suo passaggio dalla costellazione del Toro a quella dell’Ariete, avvenuto intorno al secondo millennio a.C.. Tale interpretazione trova conferma nella presenza dello Scorpione che, nello Zodiaco, occupa la posizione opposta rispetto al Toro; anche il Cane, il Corvo e il Serpente possono essere messi in rapporto con altrettante costellazioni e lo stesso Mitra può essere collegato alla costellazione di Perseo che occupa una posizione contigua e più settentrionale rispetto a quella del Toro.

Per gli alchimisti, il Toro è un simbolo della materia della Grande Opera e delle sue qualità calde e solari e quindi dello Zolfo, considerato come principio maschile e padre della pietra. L’immagine viene messa parimenti in relazione con il segno zodiacale, corrispondente al periodo dell’anno, compreso appunto fra l’Ariete e il Toro, in cui gli influssi cosmici sono favorevoli all’inizio dell’Opera alchemica.

Nel nostro caso, tuttavia, il Toro si collega anche, in modo molto significativo, alla figura dell’Arcangelo Michele ed alle origini del suo culto: si racconta, infatti, che un giorno, nel 490, mentre un signore di Siponto faceva pascolare i suoi armenti sulla montagna del Gargano, scomparve il toro più bello; dopo una lunga ed affannosa ricerca il toro fu trovato inginocchiato presso l’apertura di una spelonca da cui, però, non voleva in alcun modo uscire. Preso dall’ira, il signore scoccò una freccia contro l’animale ribelle, ma, inspiegabilmente, anziché colpire il toro, la freccia lo ferì ad un piede. Turbato dall’evento, si recò dal vescovo, che, dopo aver ascoltato il racconto della straordinaria avventura, ordinò tre giorni di preghiere e di penitenza.

Allo scadere del terzo giorno, l’8 maggio, al vescovo apparve in sogno l’Arcangelo Michele che così gli parlò:

Io sono l ‘Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta; io stesso ne sono il vigile custode… Là dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati degli uomini… Quel che sarà qui chiesto nella preghiera sarà esaudito. Va’, perciò, sulla montagna e dedica la grotta al culto cristiano.

A Pavia, già capitale del regno longobardo, i rituali di incoronazione avevano luogo nella chiesa di San Michele: nel 1004 vi fu incoronato Enrico II e nel 1155, alla metà di maggio, Federico Barbarossa nella chiesa ricostruita verso il 1130-1140. Le incoronazioni avvenivano verso la metà di maggio, perché in quel periodo aveva allora luogo il passaggio del sole dal Toro nei Gemelli e in quei giorni, intorno alle 9 del mattino, un raggio di sole entrava dalla cupola raggiungendo la testa del re, evidenziando, in tal modo, lo stretto rapporto fra ciò che avveniva in Terra e l’azione delle forze celesti.

La posizione occupata dal Toro nella facciata della cattedrale di Casertavecchia corrisponde alla levata del Sole insieme alla costellazione del Toro l’8 maggio, il giorno dell’apparizione dell’Arcangelo e della sua festa, nonché della fondazione e della consacrazione della chiesa. Se consideriamo l’arco del portale come la linea dell’orizzonte, possiamo notare che l’8 maggio, all’alba, il sole si alza sull’orizzonte insieme alla costellazione del Toro e, nel corso della mattinata, assume una posizione sempre più elevata, spostandosi verso Sud: è probabile che in quel periodo dell’anno, un raggio di luce, penetrando attraverso una finestra o un oculo del tiburio, producesse, come a Pavia, un particolare effetto luminoso nella zona del presbiterio.

Al di sopra e al di sotto del Toro vediamo due coppie di leoni. I primi due sono collocati su dei mensoloni che sporgono al di sotto dell’arco del portale mediano: considerando l’arco come un’immagine della volta celeste vista da Occidente, i due leoni rappresentano i due punti estremi dell’orizzonte che, data la posizione dell’arco, risultano collocati a Nord e a Sud; se invece consideriamo l’arco come un’immagine simbolica del corso del sole, i due leoni rappresenteranno l’orizzonte orientale e quello occidentale. In quest’ottica, possiamo notare che il leone posto a Occidente ha abbattuto un uomo e si accinge a divorarlo: un’immagine, questa del Leone Divoratore, che ricorre spesso sui portali romanici e che allude alla morte che attende ogni uomo alla conclusione della sua “giornata” terrena.

Posizionato ai lati dell’ingresso delle chiese romaniche, il leone compare sovente in funzione di stiloforo, cioè di sostegno delle colonne che fiancheggiano la porta e che sorreggono l’architrave e la volta sovrastante, rappresentando le forze che sostengono la struttura del cosmo, simboleggiato dal portale; essi raffigurano, inoltre, le energie poste a guardia dello spazio sacro con lo scopo di spezzare le influenze malefiche, ma anche di rivelare la natura delle forze negative, visualizzandole in forma di immagini spaventose.

Nei Torana, gli archi trionfali dei templi indù, si trovano dei leoni che ornano le basi della struttura e che sono considerati animali solari, manifestazione della Parola creatrice, Vak. Nella chiave di volta, invece, è posta una protome leonina o maschera mostruosa, definita Kala-Mukha, emblema dell’abisso insondabile e terrifico del potere divino nella manifestazione e che, pertanto, rappresenta la morte, ma anche il Sole, sorgente della vita, come suggeriscono le forme vegetali e zoomorfe che fuoriescono dalla sua bocca.

Il termine Kalha-Mukha significa letteralmente “Bocca del Tempo” ed è quindi un chiaro riferimento al concetto del Tempo che tutto divora; ma, in senso più ampio, tali maschere terrifiche sono state considerate una metafora della “Faccia di Dio” e del suo doppio potere di uccidere e vivificare. Plutarco parla parimenti delle protomi leonine dei templi egiziani spiegando che vanno collegate al Sole ed alla costellazione del Leone:

Onorano anche la costellazione del Leone, e abbelliscono le porte dei loro templi con teste di leone dalle fauci spalancate, perché il Nilo straripa al primo congiungersi di Sole e Leone.

Nei Phisiologus, opere redatte fra il II e il IV secolo ad Alessandria che propongono un’interpretazione allegorica in chiave cristiana delle caratteristiche più o meno fantasiose attribuite anticamente ad animali, piante e pietre, e nei Bestiari, scritti nel Medio Evo seguendo quest’impostazione per presentare delle interpretazioni di natura simbolica o moraleggiante, si attribuivano al leone tre nature. La prima è di sapersi celare, per cui, appena gli giunge l’odore del cacciatore, si appresta a cancellare le sue orme con la coda; la seconda è di tenere gli occhi aperti anche quando dorme; la terza è il potere di resuscitare con il suo fiato, dopo tre giorni, i piccoli che, come si credeva, erano nati morti. Queste tre qualità erano messe in rapporto alla figura di Cristo, definito anche “Leone di Giuda” che ha celato al demonio la sua parte divina, che è rimasto vigile mentre era sulla croce o nel sepolcro, e che è resuscitato dopo tre giorni.

Anche in questa interpretazione, legata alla figura di Cristo, possiamo riconoscere il duplice simbolismo del Leone come portatore di morte e sorgente di vita, che viene arricchito di ulteriori sfumature in rapporto al suo lato solare: infatti, il sorgere ed il tramontare del Sole, così come il suo ciclo annuale, sono stati da sempre considerati come l’espressione cosmica dell’alternarsi di vita e morte.

Nella letteratura e nell’iconografia alchemica l’immagine del Leone compare molto spesso ed è, in genere, distinta nelle due figure del “Leone Verde” e del “Leone Rosso”. Il primo, oltre che con il colore verde e mentre divora il Sole, può essere ritratto con il corpo cosparso di stelle, rivelando la sua forza di origine cosmica: il secndo è un simbolo del Mercurio dei Saggi, del loro Solvente Universale, e della sua capacità di sciogliere tutti gli altri corpi. Il colore verde, proprio della generazione, testimonia il suo potere, analogo a quello solare, di far inverdire, cioè vivificare e far crescere. Il Verde è anche il segno della sua “giovinezza metallica” perché, in questo stadio, il Mercurio rappresenta un Oro Verde ancora imperfetto ed immaturo, è un “Sole inferiore” e di natura lunare, riflesso e debole, all’interno del quale è però latente il germe di un’energia reale di portata infinitamente superiore. Il Leone Rosso è della stessa natura del Leone Verde e ne rappresenta il perfezionamento: il suo sangue fisso è stato infatti fatto con il sangue non fisso dell’altro e mentre il Leone Verde indica il Mercurio solvente, quello Rosso permette di ottenere la Pietra Filosofale. Sul portale di Caserta Vecchia, il Leone Divoratore di sinistra ben risponde alla natura del Solvente Universale, propria del Leone Verde, mentre nel Leone di destra possiamo riconoscere la natura compiuta del Leone Rosso.

Se ora esaminiamo la coppia di fiere poste ai lati della monofora che si apre al di sopra del Toro, notiamo che il leone di destra regge fra le zampe il corpo di un maiale, volendo significare il trionfo sugli aspetti più bassi e materiali dell’uomo, sull’ignoranza e l’ingordigia; quello di sinistra stringe, invece, un montone, simbolo della lussuria. Al di là dell’interpretazione di tipo moralistico, i due animali posti fra le zampe dei leoni, alludono a due stagioni dell’anno e a due zone del Cielo: la primavera, l’Ariete, e quindi la fascia equinoziale; e l’inverno, il maiale, collegabile al Cinghiale e all’Orsa, e dunque alla zona settentrionale e circumpolare.

La presenza dei due animali può essere interpretata anche in chiave alchemica, in quanto l’Ariete indica la stagione propizia all’inizio dell’Opera e alla realizzazione del Solvente, mentre il suino il lungo lavoro di perfezionamento da svolgere durante i mesi invernali.

Osservando questo insieme di sculture che animano la parte centrale dell’esterno della Cattedrale, sembra quasi di udire il possente muggito del Toro, insieme al ruggito dei quattro leoni, nell’evocazione, fissata nella pietra, della vibrazione sonora del cosmo, alla cui rappresentazione simbolica sembra essere stato dedicato l’insieme della facciata.

Il portale di sinistra presenta altre due mensole aggettanti su cui sono posti due centauri. Esseri mitologici a cui era attribuita una natura selvaggia, libidinosa ed irascibile, in epoca cristiana i Centauri conservarono queste valenze negative, diventando espressione degli aspetti più animaleschi ed istintivi dell’uomo ed anche di una certa doppiezza che li fece identificare con gli eretici. Non manca, però, un’interpretazione positiva come simbolo della doppia natura, umana e divina, di Cristo.

Nel nostro caso riteniamo, tuttavia, più significativo il riferimento al simbolismo astrale: nel cielo stellato l’immagine del Centauro compare due volte, sia in una costellazione che si trova in prossimità di quella della Vergine ed è chiamata, appunto, Centauro, sia nella costellazione zodiacale nota col nome di Sagittario; ed è a quest’ultima che riteniamo di doverci riferire per la particolare importanza attribuita, nell’iconografia medievale, all’immagine del Centauro che scaglia la sua freccia, ma soprattutto perché questa costellazione si trova ad una delle estremità della Via Lattea.

All’altra estremità si trova, invece, la costellazione dei Gemelli, nelle cui stelle più luminose gli antichi riconoscevano Castore e Polluce, figli di Zeus, che la mitologia descrive come domatori di equini e che potrebbero essere ben rappresentati dai due cavalli che sporgono dalle mensole del portale di destra. In tal modo, i due portali laterali della cattedrale rappresentano un’indicazione molto precisa su come appare il cielo stellato alla mezzanotte di maggio, con la Via Lattea che lo attraversa da Nord a Sud.

Prima di abbandonare l’esame della facciata, dobbiamo soffermarci su un ultimo particolare, meno evidente, rispetto alle sculture, ma non per questo meno importante: due raffigurazioni incise alle estremità dell’architrave del portale di sinistra, poste perpendicolarmente rispetto all’iscrizione e che rappresentano due coppie di uccelli, civette a sinistra e ibis a destra.

La civetta, uccello notturno e per lo più considerato di malaugurio, era per i Greci collegata ad Atena, la dea dell’intelligenza e dell’ingegno. Il suo sguardo penetrante e la sua capacità di vedere di notte, ne hanno fatto un simbolo dello studio e della capacità di scoprire cose segrete e celate ai più. La nostra immagine mostra, fra i due volatili, una strana struttura a forma di cuore, sotto cui ci sono due teste di aquila e delle fiamme, sormontata da due specie di assi gigliati che si intrecciano; alle spalle delle civette due animali che sembrano cinghiali o un cinghiale e un lupo o un orso. Un’effigie decisamente enigmatica che sembra alludere ad un segreto relativo ai cicli cosmici ed allo spostamento dei poli.
La lastra di destra pare riferirsi ad una conoscenza occulta, dato che l’ibis è una forma di Thot, il dio egizio della conoscenza e il custode dei misteri iniziatici.

L’interno della Cattedrale presenta una pianta a croce commissa divisa in tre navate da 18 colonne di spoglio, quasi tutte di marmo cipollino provenienti, probabilmente, dal vicino tempio di Giove Tifatino; i capitelli sono tutti diversi l’uno dall’altro, per lo più corinzi, e derivano da antichi edifici di età romana, a parte tre capitelli di epoca medievale; la navata centrale è coperta a capriate, mentre la cupola, a pianta ellittica, è impostata su pennacchi a tromba di tipo arabo.
Vicino all’ingresso si trovano due acquasantiere sorrette l’una da un leone e l’altra da un agnello, simboli, entrambi, di Cristo e della Parola, anche se in due accezioni diverse; il primo come espressione di potenza creatrice e distruttrice, il secondo come emblema di mansuetudine e sacrificio. In una cappella a destra dell’ingresso si trova una vasca battesimale del IV secolo e una statua della Madonna col Bambino, forse di epoca longobarda. Sull’altare si vede un crocifisso ligneo del Seicento di autore ignoto, mentre, in fondo alla navata destra, si trovano degli affreschi trecenteschi.

Il pulpito è stato realizzato nel Seicento utilizzando parti di due amboni risalenti all’epoca del Vescovo Stabile, agli inizi del Duecento. Nei pilastrini angolari che fiancheggiano la scaletta, si possono ammirare due interessanti sculture: il Profeta Geremia e un uomo barbuto, con un turbante in testa, e il corpo avvolto dalle spire di un serpente che lo morde sul petto.
Geremia, vissuto fra il VII e il VI secolo a.C., fu un profeta di sventure, piuttosto malvisto dal suo popolo, in quanto lo ammoniva di abbandonare i culti idolatri e annunciava, in caso contrario, una tremenda punizione divina. In effetti, come aveva profetizzato, il Regno di Giuda ebbe fine in seguito all’invasione dei Babilonesi, il Tempio di Gerusalemme fu distrutto e numerosi Ebrei deportati. Secondo una tradizione cristiana, egli stesso morì in Egitto, lapidato dai connazionali, che mal sopportavano i suoi rimproveri.

In quest’ottica, appare giustificata la consueta interpretazione dell’altra scultura come la rappresentazione di un Giudeo aggredito dal Serpente, ovvero preda alle forze del male: del resto anche i suoi tratti somatici richiamano una tipologia comunemente e malevolmente attribuita agli Ebrei.

Al di là di tale visione antisemitica, l’immagine evoca però anche altre idee. In primo luogo, troviamo una figura simile a Palermo, dove il Genius Loci, nume tutelare della città, è raffigurato come un uomo barbuto e coronato con un serpente che gli morde il petto, una figura che viene messa in relazione con Cronos o Saturno, e che, secondo un’antica interpretazione, si riferisce alla generosità con cui Palermo nutre gli stranieri.

La più antica raffigurazione del Genio di Palermo, emblema e nume tutelare della città, è il cosiddetto Genio del Porto, un altorilievo marmoreo di datazione incerta collocato nel 1590 su un cippo eretto presso l’ingresso del Molo Nuovo; c’è poi una scultura ritrovata nel 1596 nelle cantine del Palazzo Pretorio e sistemata sullo scalone dello stesso palazzo su una vasca su cui si legge l’iscrizione “Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit”, ovvero, “Palermo conca d’oro divora i suoi e nutre gli stranieri”; un’altra statua, Palermu lu Grandi, fu realizzata nel 1483 e sistemata nella Piazzetta del Garraffo nel mercato della Vucciria.

Ancor più interessante è il collegamento con Aion, che per gli antichi Greci era una personificazione del tempo infinito e del succedersi delle ere. Un uomo alato dalla testa leonina, il cui corpo eretto è avvolto dalle spire di un serpente; fra le mani regge una chiave ed uno scettro per indicare il suo dominio sul tempo e il suo potere di aprire e chiudere, come Giano, le Porte Solstiziali. Nei Misteri Mitriaci questa figura corrisponde al settimo grado iniziatico, il Pater, e viene fatta corrispondere a Cronos. Basti vedere la statua leontocefala trovata nel Mitreo del Palazzo Imperiale di Ostia, ora conservata nei Musei Vaticani. La corrispondenza con Cronos ci rinvia anche all’immagine del Genio di Palermo.

Possiamo ipotizzare che l’interpretazione della figura del pulpito, come immagine dell’Ebreo miscredente, sia stata una copertura per celare un significato più profondo, relativo al succedersi dei cicli cosmici, in sintonia con la visione di natura cosmica che possiamo riconoscere nel complesso scultoreo della Cattedrale.

Su di un arco del pulpito ritroviamo le figure del Toro e del Leone, che, questa volta, sono chiaramente riferite agli Evangelisti Luca e Marco e che fiancheggiano l’immagine dell’Agnus Dei. Uno dei capitelli delle colonne che sorreggono il pulpito presenta alcune sculture interessanti, ma di non facile  interpretazione: negli angoli si vedono degli uccelli, forse dei corvi, che afferrano col becco qualcosa posto più in alto, probabilmente una foglia; sulle quattro facce si vede prima un uomo barbuto nudo e con un ginocchio piegato, e poi un altro uomo, vestito con una tunica, che cattura con un laccio uno degli uccelli, seguito da un terzo uomo, nudo, ma avvolto da un lungo panno, ed infine, un leone che divora un ariete.
Questa sequenza di immagini si presta ad una lettura alchemica e non è escluso che il loro inventore fosse a conoscenza della letteratura e del simbolismo alchemici che agli inizi del Duecento erano già ben noti in Occidente: nel Leone Divoratore possiamo infatti riconoscere il Leone Verde che divora il sole, e che simboleggia, come abbiamo già visto, il Solvente Universale, la misteriosa sostanza di origine celeste in grado di sciogliere tutti i corpi; gli uccelli rappresenterebbero, in tal senso, le parti volatili della materia e, se si tratta effettivamente di corvi, essi starebbero ad indicare i prodotti della dissoluzione nell’Opera al Nero; l’uomo in ginocchio sembra alludere al principio del movimento e della generazione e alla parte fissa e sulfurea della materia; quello che cattura l’uccello potrebbe ben rappresentare la fissazione delle parti volatili; il terzo col lungo panno indicherebbe la componente aerea e mercuriale.

Possiamo tuttavia ipotizzare anche un’altra chiave di lettura che non sia riferita in modo altrettanto esplicito al simbolismo alchemico, ma che risulta abbastanza affine, pur rientrando in una più comune concezione allegorica, nei canoni del simbolismo medievale: gli uccelli becchettanti possono essere interpretati come immagini di anime o, comunque, delle forze psichiche di natura volatile presenti intorno a noi; nell’uomo barbuto riconosciamo una raffigurazione della forza generatrice della natura o della potenza virile ed istintiva dell’essere umano; in quello con il lungo panno un’umanità svagata e disattenta; in quello vestito che cattura l’uccello l’ingegno umano e la sua capacità di applicarsi “fissando il volatile”ovvero concentrando il pensiero.

Passiamo ora al Presbiterio che presenta un bel pavimento a mosaico con otto riquadri a motivi geometrici e animali: due contengono degli animali alati di difficile identificazione, forse un Leone e un Toro, riferibili agli Evangelisti Marco e Luca, un terzo rappresenta una specie di ermellino o faina, ed il quarto contiene ad eccezione un’aquila, che potrebbe essere riferita all’Evangelista Giovanni, ma anche all’Imperatore Federico II.

Ai lati dell’altare si vedono altri quattro riquadri a mosaico e anche l’ara presenta una decorazione a mosaico con otto riquadri con raffigurazioni di volatili e animali anfibi.

Sulla parete a sinistra della mensa sacra si trova un bel monumento funerario trecentesco con la consueta struttura a baldacchino in stile gotico e con la cassa sorretta dalle statue colonna di tre Virtù: la Fortezza, con la clava ed il bastone, la Fede, con il Calice, ed una terza Virtù, un bastone terminante in due avvolgimenti, che probabilmente rappresenta la Temperanza. Si tratta della tomba di Francesco II della Ratta, morto nel 1359, che riveste particolare interesse, in quanto si tratta di un Cavaliere del Nodo, come possiamo comprendere grazie al nodo che vediamo sulla sua spalla sinistra.
L’Ordine cavalleresco dello Spirito Santo o del Nodo o del Retto Desiderio, istituito nel giorno di Pentecoste del 1352, da Luigi di Taranto in occasione della sua incoronazione, è stato il primo Ordine cavalleresco fondato, con regolare statuto, in Italia, e presentava diversi Gradi, identificati dalla diversa fattura del Nodo.       Gli Statuti dell’Ordine, redatti in francese e miniati nel 1354 da Cristoforo Orimina, prevedevano una riunione annuale dei Cavalieri a Castel dell’Ovo nel giorno di Pentecoste e, facendo riferimento alla leggenda di Virgilio Mago, citavano il famoso incantesimo dell’Uovo che sarebbe stato conservato all’interno di una stanza segreta del Castello a garanzia della salvezza della Città.

Questo Ordine cavalleresco, oltre a presentare dei significativi riferimenti alla tradizione napoletana di Virgilio Mago, si collega al leggendario Ordine dei Cavalieri Tavola Rotonda, che, parimenti, si riunivano ogni anno a Pentecoste: del resto, anche nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach, un testo concepito fra il 1200 ed il 1210, in cui è ipotizzabile l’influsso dell’Ordine Teutonico o di quello Templare, troviamo un collegamento fra la leggenda del Graal e quella virgiliana e la terra della Campania. Wolfram, infatti, parlando di Kligsor, il mago malvagio, autore degli incantesimi che ostacolano la ricerca del Graal, dice: “Terra di Labur è il suo paese; egli discende dalla stirpe di colui che anche fece molti prodigi, da Virgilio di Napoli”, e aggiunge che la capitale del suo regno è Capua, il che ci riporta, in modo molto singolare, alla stessa area geografica e culturale in cui è sorta la Cattedrale di Casertavecchia.

Autore Sigfrido Höbel

Sigfrido Höbel nato ad Arona (NO) il 30/09/1944 da padre tedesco vive a Napoli conservando un forte legame con la Germania. Attualmente in pensione, ha insegnato materie artistiche nei Licei Scientifici e nella Scuola Media, compiendo studi e ricerche sull'Arte e pubblicando diversi testi dedicati alle discipline artistiche, ma anche alle testimonianze artistiche e culturali presenti a Napoli e nell'Italia Meridionale. Nello stesso tempo si è dedicato allo studio delle tradizioni iniziatiche e delle dottrine esoteriche, interessandosi, in particolare, ai linguaggi simbolici e alla loro presenza nei miti, nella letteratura, nell'arte e nell'iconografia tradizionale. È autore di rilievo della tradizione esoterica napoletana.

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