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Sant Ambroeus, il Cenacolo e la dea Strenua

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Sant Ambroeus, il Cenacolo e la dea Strenua


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Domani è Sant Ambroeus che per i milanesi significa l’apertura ufficiale del periodo natalizio, nel ponte lungo – quest’anno proprio no – sulle prime nevi o i primi shopping in cerca di regali in giro per la città; al mercato degli Oh Bej Oh Bej – una volta era molto più bello – eppoi l’evento glamour della Prima della Scala, l’accensione delle luminarie sui Navigli e le strade della città come l’albero di Natale in Piazza Duomo.
La basilica di Sant’Ambrogio è la seconda chiesa più famosa della città con le sue due colonne: quella del Serpente, all’interno, che per dimostrazione dell’antichità cristiana riprende il riferimento di quello di Mosè, e quella all’esterno sul lato sinistro, detta del Diavolo, di fattura corinzia in marmo, che porta le cavità delle corna del demonio dopo il tentativo di incornare il santo Vescovo di Milano.

Spettacolo poco edificante quel gioco all’altalena delle due torri rivali! Forse non avevano torto i Benedettini di non volere che altri avessero comando sulla basilica affidata ad essi e della quale avevano accresciuto lo splendore, ma le loro contese coi canonici somigliarono troppo a quelle di tutti gli umani.

La potenza terrena corrompe la spirituale.
Sofia Bisi Albini – Voci di campanili

Un’altra particolarità della Basilica è il fatto di avere anche due torri, frutto si narra, dell’accesa disputa fra i suoi coabitanti, i monaci Benedettini a cui si deve l’edificazione del primo campanile di destra risalente al IX secolo, il più basso, e i canonici la costruzione della seconda torre di sinistra, risalente al XII secolo, intenzionalmente più alta.

Come non citare, poi, le quattro scacchiere apparse nel restauro del 1135 d.C. ad opera, si dice, dei Laboratores appartenenti ai Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonis.

Ma di elementi a sfondo esoterico, avvolti nelle nebbie del mistero, Milano ne ha altri, dopo un trascorso popolato da streghe, eretici, maghi e alchimisti.

Ne citeremo Qualcuno.

– Si racconta che, nell’area del Duomo con la sua Madonnina d’oro, i Celti innalzarono un tempio dedicato a Belisama, signora del fuoco e della saggezza, dea della fertilità legata alle acque e alla luna. I Romani lo sostituirono con un tempio in onore a Minerva.

– Il cinghiale bianco scolpito su un capitello del Palazzo della Ragione in via dei Mercanti ricondurrebbe al nome della città da medio lanum, ovvero “semilanuto”, il quale avrebbe indicato a Belloveso il luogo di fondazione di Milano. Origine del nome che affianca quella di terra di mezzo e centro del mondo, come un simbolo di una sacralità profonda, di comprensione difficile e di importante valenza iniziatica, collocato, per questo motivo, nel centro per essere ben difeso.

Viene offerto dal comune di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso; e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro; e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede sventolare da un’antenna l’insegna della biscia.

Questo privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i saracini da un Ottone Visconti valorosissimo uomo.
Bonvesin de la Riva – De magnalibus urbis Mediolani

– L’azzurro drago o biscione, stemma dei Visconti, raffigurato cattivo, ma non aggressivo e accomunato alla figura mitologica del basilisco e alla leggenda del drago Tarantasio, che richiama simboli druidi più antichi di fertilità e di forze terrestre, il quale, dalle Crociate in Terrasanta, porta in bocca una figura maschile rossa, araldicamente definito “ingollato”, ma non morso.

– Il toro in Galleria Vittorio Emanuele II, testimone della misteriosa morte del suo ideatore, l’architetto Mengoni, il giorno prima della solenne cerimonia d’inaugurazione fissata per il 31 dicembre 1877. Queste le sue ultime parole: “La mia missione è compiuta: l’arco è finito”.

– Quanti dubbi e quante ipotesi; ripiegature, ribaltamenti e osservazioni a raggi X, per l’alchemica pittura su intonaco dell’Ultima Cena, Leonardo da Vinci, tra le 13 figure dei convitati incastonati sul tavolo, s’è portato via le sue Verità in proporzione aurea.

Lì, nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie, siamo catapultati a Pasqua e la data che stiamo trattando è molto anticipata, ma con l’idea del Cenacolo, mi sovviene uno dei piatti del mio ricordo di Sant’Ambrogio, il risotto al salto.

E non me ne voglia Carlo Emilio Gadda, ma in questo caso in questo periodo lo vizierei volentieri con una morbida trifolata di funghi porcini sul disco croccante di risotto.

E seppur infierendo, in alternativa, data la stagione, perché non una cascata di profumoso tartufo bianco a scaglie sottilissime?

Ma tornando ai simboli di Milano, come abbiamo visto, il più ricorrente è il serpente, biscione, drago – peraltro riportato sulle 586 fontane della città, dette anche draghi verdi o vedovelle – ed esistono pietanze e dolci che prendono origine da una forma rettiliana che, in alcuni casi, si sono via via trasformati in ciambelloni, ma anche in versioni lineari, incuranti della loro vera origine.

Oltre al bissòlo di Milano – la bissa era anche una moneta coniata in città dai Visconti e diffusa anche nelle altre province – ci sono esempi di pietanze invernali di origini pagane, le cui tracce sono state trasportate fino ad oggi.

Una dea, un serpente ed antichi riti riportano a culti passati, prima del cristianesimo.

Cambiano nome a secondo del luogo in cui viene riprodotto, infatti, se ne rivelano in tutto lo Stivale: Bisolàn a Piacenza, Busilàn a Parma, Biscione reggiano, Bicciolano a Vercelli, Bussolà in Veneto, Gubana friulana, serpente di Pienza, Torciglione e Rocciata umbri, Lu Serpe nelle Marche e Serpentone di Urbino, di Santa Anatolia e quello di Fara Filiorum Petri, pizza figliata casertana, le sfogliatelle pugliesi o i Mucatoli ragusani.

Per i nostri discorsi successivi trovo importante menzionare il dolce Lussekatt, collegato alla figura di Lussi.

La pietanza più importante del pasto festivo è il dolce e, per questo, sono perlopiù dolciumi, preparati a base di frumento, uova, frutta secca e miele.

L’impasto, in genere cotto in forno e poche volte fritto, viene lavorato a forma di serpente, per la maggior parte delle volte presentato arrotolato – che si morde la coda.

Ogni anno, ciclicamente, a partire dall’autunno sono dei porta fortuna e simbolo di riunione, di vicinanza e di ricerca di quel calore perduto dell’estate ormai passata, bisogno di riciclo, di arrotolamento e di raccoglimento a spirale appunto.

Simbolicamente dalla preistoria ad ogni latitudine il serpente è associato al cerchio e al ciclo. Allora l’Oroborus rappresentazione emblematica dell’eterno ritorno di un’esistenza di un nuovo inizio che avviene prontamente dopo ogni fine, rinascita dopo la morte e ricreazione al termine dello sforzo. Il ricongiungimento degli opposti, l’unione dello spirito e della materia e di ogni cosa percepita come duale.

Il simbolo apotropaico del serpente è presente, ad esempio, sulle pareti esterne di alcune case di Pompei ed Ercolano.

E, quindi, in epoca antica cosa accadeva durante le festività del periodo del solstizio?

Era imprescindibile esigenza per gli antenati celebrare il sole calato nella notte buia e fredda con riti, canti, offerte, preghiere e cortei in onore a divinità che si ritenevano capaci di garantire protezione e prosperità, e scongiurare, così, i rigori dell’inverno e aspirare alla rinascita della vita col nuovo sole. In attesa del Dies Natalis Solis Invicti, giorno di riferimento dei festeggiamenti dei Saturnali dell’Impero Romano prima del 380 d.C..

Un antichissimo esempio collocato a metà Italia appunto era Strenua, la dea del solstizio, della salute, della forza e prosperità, ma anche denominata Strenna, Strena o Strinia, una divinità lunare, raffigurata sempre con un serpente arrotolato.

L’etimo del nome è di origine latina strenuus – valoroso e tenace, e dal greco strenòs – forza, rimasto a descrive in lingua moderna l’intraprendenza e l’ardimento, il vigore e la forza d’animo.

Le strenne ne conservano silenziosa memoria, con il tempo diventati i doni che, per lo stesso auspicio di prosperità, continuiamo a scambiarci in questo periodo.

Si chiama strina anche un canto invernale diffuso nel Salento, come in Calabria e Sicilia: gli ‘strinari’, cantando e suonando, ad esempio lo ‘zugghi’ davanti alle case, augurando prosperità e buona salute e buona sorte, ricevono in cambio cibo e buon vino.

Strina e la sua presumibile contrapposta strega, con la sua scopa di legno di vimini preso dal bosco sacro, lucus dedicato alla dea Strenua, si uniscono in concetto una volta l’anno per dar vita alla Befana portatrice di doni, che vedremo più approfonditamente al momento giusto.

Ora vi lascio e vado in cerca di strenne e buon weekend di Sant Ambroeus!

Il percorso dove ci porterà?

Stay tuned! Restate sintonizzati e direi anche sincronizzati!

Autore Investigatore Culinario

Investigatore Culinario. Ingegnere dedito da trent'anni alle investigazioni private e all’intelligence, da sempre amante della lettura, che si diletta talvolta a scrivere. Attratto dall'esoterismo e dai significati nascosti, ha una spiccata passione anche per la cucina e, nel corso di molti anni, ha fatto una profonda ricerca per rintracciare qualità nelle materie prime e nei prodotti, andando a scoprire anche persone e luoghi laddove potesse essere riscontrata quella genuina passione e poter degustare bontà e ingegni culinari.