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Colui che passa, nel corso della sua vita, attraverso queste alternative, si trova a un certo momento, per il gioco stesso delle concezioni e delle classificazioni, a far perno su sé stesso e a volgersi al sacro anziché al profano.
Arnold Van Gennep

Molte azioni cerimoniali suscitano pulsioni emotive, producono simboli, forniscono quadri di riferimento in grado di rafforzare i legami sociali e di creare un senso di comunità.

Il mondo animale, ad esempio, è pieno di riti, ma gli esseri umani sono la specie rituale per eccellenza. Un rito di passaggio è un rituale che segna il cambiamento di un individuo da uno status socio-culturale ad un altro oppure concerne un mutamento nel corso del ciclo della vita.

I casi più emblematici sono quelli dei riti di iniziazione – religiosi o culturali, che comportano un cambio di status spesso in modo radicale – o di avvenimenti importanti quali il matrimonio o il menarca.

Il rito è uno dei fili più antichi e certamente più enigmatici della storia della cultura umana. I riti di iniziazione portano il neofita ad una nuova condizione che modifica radicalmente il suo modo di vivere, la sua identità, la sua visione del mondo e lo introduce nella comunità umana e nel mondo dei valori spirituali.

Presenta un paradosso: le persone attribuiscono la massima importanza ai loro rituali, ma pochi sanno spiegare perché sono così rilevanti. Cerimonie apparentemente inutili pervadono ogni società documentata, dalle strette di mano alle maledizioni, dalle feste di addio alle parate.

Prima che imparassimo a coltivare, ci riunivamo in giganteschi templi di pietra per celebrare elaborate cerimonie. Eppure, sebbene i riti esistano in ogni cultura e possano persistere quasi immutati per secoli, la loro logica è rimasta un mistero, fino a oggi.

Avvenne nel Neolitico la nascita della civiltà, con il passaggio da nomadi a stanziali, non accadde grazie all’agricoltura, ma con le prime forme di aggregazione sociale. I riti, appunto.

Dal punto di vista dell’evoluzione, e contrariamente a quello che ci hanno insegnato a scuola, la sostituzione di caccia e raccolta con l’agricoltura ci rese fisicamente più deboli. Fu la coesione sociale innescata dalla ritualità a garantire prima la sopravvivenza e poi lo straordinario sviluppo di Homo Sapiens.

Nelle feste di compleanno e nelle incoronazioni, nelle preghiere silenziose, nelle passeggiate nel fuoco e nei terrificanti riti di passaggio, in tutta la sconcertante varietà della vita umana, il rituale rivela i meccanismi profondi e sottili che ci legano. Eppure, c’è anche il rovescio della medaglia.

L’odierna ossessione per un’autenticità fondata sul narcisismo dell’Io, la costante ricerca del nuovo e dell’inedito, la bulimia consumistica dell’usa e getta che pervade ogni ambito determinano, nei rapporti e nelle pratiche che caratterizzano la società contemporanea, una sempre più evidente e sintomatica scomparsa delle forme rituali.

Tuttavia, la struttura immutabile e ripetitiva, così come la teatralità dei gesti e l’attenzione riservata alla ‘bella apparenza’, conferiscono ai riti un potere simbolico profondamente unificante.

Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari al suo svolgimento fondano un legame tra il sé e l’Esterno, tra il sé e l’Altro; i riti ‘oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo’, creando una comunità anche senza comunicazione.

L’esperienza del sacro si svolge e si definisce attraverso alcuni elementi costanti che la caratterizzano in tutti i tempi e a tutte le latitudini. Il primo di tali elementi è il simbolo, che costituisce una componente essenziale del pensiero e della vita dell’uomo. Si situa all’origine della creatività artistica, poetica e letteraria.

La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, avverte ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente.

Oggi il creato è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono l’identificazione. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita.

L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente, svolge un ruolo centrale nell’insieme delle attività umane ed è all’origine della cultura, del suo sviluppo e della sua permanenza. Un rito, per essere definito tale, ha bisogno di una comunità che impieghi il suo tempo senza uno scopo, che festeggi senza un motivo, che ripeta azioni collaudate dall’uso.

Forse è proprio questo l’elemento che ci affascina dei riti, il senso di costruzione collettiva, una compartecipazione che oggi sembra minata da un narcisismo esclusivo ed escludente, dalle gravi conseguenze emotive. Essi, oggettivando il mondo e riconnettendo ciascuno all’Altro, creano una comunità anche senza comunicazione.

Oggi, però, imperversa una sorta di incessante comunicazione senza comunità, un baccano in cui tutti giriamo a vuoto, credendo illusoriamente di interagire con il mondo. È quindi riappropriandoci dei riti, ungono come un lucido di contrasto dinanzi al quale il nostro presente assume contorni più netti, che potremo riaprire una società atomizzata al senso di una vera connessione con l’Altro.

Senza nostalgia, verrà delineata una genealogia della loro scomparsa, non interpretata, tuttavia, come un processo di emancipazione. Ripercorrendone le linee, emergeranno le patologie dell’oggi, soprattutto l’erosione della comunità, e si rifletterà su altri modi di vivere potenzialmente in grado di liberare la società dal suo narcisismo collettivo.

I riti si sottraggono all’interiorità narcisistica e la libido dell’Io non vi si può agganciare dal momento che, se si concede loro, deve prescindere da se stessa. I riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Al contrario della percezione seriale, che produce un deficit di attenzione, il rito con la sua ripetizione è un esercizio di profonda attenzione.

La coazione a produrre incrementa il pantano della routine e il vuoto e, per sfuggirvi, consumiamo nuovi stimoli ed esperienze. È proprio il senso del vuoto a trainare la comunicazione e il consumo. La comunicazione è costituita da camere di riverbero nelle quali sentire soprattutto la propria voce mentre si parla: i like, i friend e i follower rafforzano solo l’eco del sé.

Le società arcaiche non conoscono la netta separazione di morte e vita. La prima è un aspetto della seconda, dal momento che la vita è possibile solo nel quadro di uno scambio simbolico con la morte in cui i riti d’iniziazione e i sacrifici rituali sono atti simbolici che regolano numerose transizioni tra vita e morte.

L’iniziazione si configura come una seconda nascita che segue alla morte, la fine di una fase: è la reciprocità, dunque, a caratterizzare il rapporto tra vita e morte.

Nell’esperienza di iniziazione è racchiuso l’accostamento alla concezione del mondo attraverso le credenze, i valori spirituali, la storia sacra della propria comunità, valori che sono trasmessi al fine di modellare il singolo e di esporlo a questo insieme di immagini e contenuti mitici.

Nella concezione arcaica l’uomo è fatto, non è lui a farsi da solo. L’esposizione al mito durante l’iniziazione, e perciò il rito di passaggio stesso, assumono un’importanza notevole sia per l’individuo iniziato, che per la comunità stessa.

Se volete liberarvi dalla schiavitù dell’ignoranza umana che vive solo come robot dovreste dedicarvi a costruire il vostro tempio interno attraverso l’auto osservazione; solo così avrete la vostra propria oasi in cui potete rivitalizzarvi ancora e ancora fino a raggiungere a vostro tempo ascendere.
Georges Ivanovič Gurdjieff 

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.