Orietta, il Festival di Sanremo e il linguaggio
Anche quest’anno il Festival della canzone popolare di Sanremo ci regala tanti spunti di riflessione.
C’è chi si chiede se basti mettere una mano sul pacco per essere rock, a dispetto di una canzone piuttosto poppettara; per quanto tempo il tormentone di Colapesce & Dimartino ci perseguiterà nelle radio; sul presunto ingaggio di Amadeus o di Fiorello e tanto, tanto ancora.
Io, invece, continuando a guardare tutti i giovani di quest’anno, non riuscivo a non concentrarmi che su Orietta Berti.
Che c’entra Orietta Berti con una riflessione sul linguaggio? Un momento che provo ad arrivarci.
Orietta Berti, con i suoi 77 anni, è stata, per me e per tanti altri, la vincitrice morale ed indiscussa di questa edizione di Sanremo, con il suo stile e con una canzone di chiaro stampo classico sanremese.
Ma c’era una cosa che mi tormentava e che mi creava una certa empatia con l’Orietta nazionale, ovvero, com’è per lei trovarsi nel dietro le quinte con tutti questi giovani?
Intendiamoci, è una fantasticheria assurda, sappiamo che ognuno di loro ha il suo camerino ed il suo spazio ma vedendo questa enorme differenza di età tra lei e la maggior parte dei partecipanti, di cui molti sotto i trenta anni, mi chiedo come si sia sentita questa grande Artista ad ascoltare i loro discorsi pieni di parole astruse come cringe, boomer, bufu o trigger.
Immagino che le sarà sembrato di essere circondata da alieni, d’altronde anche io, che non ho la sua età, trovo difficoltà.
Da anni abbiamo visto parole come selfie o tweet entrare nel nostro vocabolario, oltre che nel linguaggio comune, ma recentemente questa tendenza è in aumento esponenziale.
Lo studioso della lingua italiana, Antonio Zoppetti, in questi suoi grafici, mostra come il nostro portafoglio di vocaboli italiani sia diminuito nel corso del tempo.
Ora, lungi da me entrare in un argomento in cui non sono per nulla competente, per il quale rimando volentieri alla lettura del libro dello stesso Zoppetti, ‘Diciamolo in italiano – Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla’, Hoepli, che, senza ombra di dubbio saprà dare una maggiore completezza di informazioni a chi fosse interessato.
Quello su cui io mi soffermerei qui, invece, è che partendo da tali dati, credo che oggi più che mai sia difficile comunicare con l’altro, il vicino, e come i social stiano creando ulteriori barriere linguistiche in questo senso.
Se immaginiamo le parole come strumenti da utilizzare, è facile capire che meno utensili si abbiano meno sia sia capaci di far arrivare all’altro il proprio pensiero in modo chiaro e netto.
Prendiamo un meccanico che deve aggiustare un guasto di un’auto con una semplice chiave inglese da 12 e un giravite a stella. Se è fortunato potrà fare qualcosa, ma, più verosimilmente, potrà fare ben poco.
Questa riflessione vuole andare oltre le potenziali accuse di essere anacronistici, non vorrei mai che si equivocasse la mia idea di lingua.
Non sono un purista e sono pienamente consapevole e d’accordo che l’idioma è vivo e per essere tale è soggetto a continua evoluzione, ma non si può nemmeno escludere da questa riflessione ciò che sono stati i continui progressi tecnologici e in campo sociale.
Nessuno poteva mai immaginare che negli anni duemila, l’invenzione del cellulare e soprattutto la messaggeria di testo avrebbero fatto partire una rivoluzione del linguaggio scritto e parlato.
Il dover comunicare con qualcuno nello spazio di duecento caratteri ha portato, inequivocabilmente, un cambiamento, e diciamocelo, un abbruttimento di determinate parole, come, ad esempio “x” per indicare “per” oppure “k” per abbreviare “ch” o ancora l’acronimo “tvb”.
Ora, grazie alla messaggeria istantanea, non ci sono più limitazioni, che andavano ad influire sui costi, sulla lunghezza di un testo, ma è scientificamente dimostrabile che scrivere a mano stimola la creatività e rafforza la memoria, ben più di qualsiasi smartphone, tablet e PC su cui si schiacciano soltanto dei tasti.
Con l’arrivo, e soprattutto la diffusione dei social, la comunicazione è andata peggiorando. I nuovi termini anglosassoni racchiudono in loro un’ampia gamma di sfumature, del tutto interpretabili soggettivamente, e le bacheche sono diventate delle roccaforti del pensiero unico e ineluttabile del proprietario, che spesso nasconde, sotto forma di finta democraticità, una sentenza definitiva, inattaccabile ed indiscutibile dove la verità passa in secondo piano.
L’importante è che IO abbia ragione, anche se si è scritto che 2+2=5, e dall’altra parte c’è chi educatamente ti fa notare che in realtà la somma sarebbe semplicemente quattro.
Allora, torniamo ad immaginare Orietta Berti che guarda confusa gli altri artisti – colleghi in gara come lei, i quali comunicano agevolmente tra loro lasciandola in disparte e confusa e pensando a come fossero belli i tempi in cui bastava raccontare di una barca che continua a galleggiare sull’acqua per solcare i decenni ed attraversare le generazioni.
Autore Marco Trotta
Marco Trotta è nato a Napoli nel 1981. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico-Artistico alla S.U.N. con una tesi sul restauro del Duomo di Napoli. Ha conseguito un master regionale di “Rilievo architettonico per i Beni Culturali”. Restauratore di beni culturali e poi catalogatore per la Soprintendenza di Caserta. Attualmente è anche redattore per Campaniarock.it e per la prestigiosa Art apart of culture.