Il pianista napoletano ci racconta la sua ultima opera tra improvvisazione, creatività e magia
Il 20 agosto scorso il pianista, elettro-performer e compositore napoletano Girolamo De Simone, esponente delle avanguardie italiane legate alla musica di frontiera, ha pubblicato in formato digitale sul suo sito Internet il suo ultimo lavoro artistico ‘Re:petita’, fruibile in maniera gratuita compresso in mp3, la cui uscita della versione ‘fisica’ su CD è prevista per la fine di ottobre.
Tredici interessantissime tracce che affidano al ricordo, al sogno, alla sospensione il loro significato più alto. Sì, perché la sua capacità di ascolto è prima di tutto intimistica, tanto da spingersi, a tratti, fino alla contemplazione, e, solo successivamente, attraverso un’originale contaminazione tra generi, che trova le sue chiavi interpretative nello sperimentalismo, nelle nuove estetiche e nell’improvvisazione, si sublima in quella spiritualità a lui tanto cara, resa magicamente suono.
Autore di libri, saggi, articoli e recensioni, innovatore al punto da autodefinirsi “agitatore culturale”, dopo aver ottenuto prestigiosi riconoscimenti e aver composto intensi brani per film diviene direttore artistico di importanti festival e curatore di splendidi progetti, l’ultimo dei quali in ordine cronologico, nel luglio 2021 a Villa Pignatelli a Napoli, ‘Eclettica 2.2’, nell’ambito della XXI edizione della rassegna ‘Doppio Sogno’, anteprima della nuova stagione dedicata dal Teatro d’innovazione Galleria Toledo alle molteplici declinazioni della musica contemporanea, in cui si sono esibiti al pianoforte l’immenso Cesare Picco e il talentuoso Andrea Riccio.
‘Re:petita’ è una sfida accattivante con la quale si confronta egregiamente. Le prime dieci tracce sono una rielaborazione personalissima del manoscritto gregoriano ‘L’Inno di Giovanni’, cantilena usata da Guido d’Arezzo per dare un nome alle note, ispirata a San Giovanni Battista, in cui si fondono tradizione orientale e occidentale; le due successive ‘Organza’, dal carattere improvvisativo, si incentrano su stilemi orientali; l’ultima è volutamente di rottura, ma non per questo meno onirica.
Incuriositi dai molteplici spunti offerti, decidiamo di approfondire direttamente con lui per provare ad intuire di quali sfumature cromatiche si tingano le sue “parole sospese”, di quali immagini si inebri il suo universo musicale e di quali stelle si infiammi il suo firmamento emozionale proiettato com’è verso un altrove che strizza l’occhio alla più pura delle tradizioni.
Girolamo, il percorso musicale di ‘Re:petita’ parte da un antico canto gregoriano, ‘L’Inno di Giovanni’. Perché proprio quello? Ragioni affettive, dato che lo hai imparato a 11 anni, o ci sono motivazioni più strettamente tecniche?
Il titolo ‘Inno di Giovanni’ è ispirato all’inno liturgico 1275/28, noto come ‘Ut queant laxis’ scritto da un monaco, Paolo Diacono, nel settimo secolo. Su di esso Guido d’Arezzo costruì, nel decimo secolo, una cantilena usata dai giovani per ricordare più facilmente i nomi delle note.
L’inno di Diacono era dedicato a San Giovanni Battista, la cui festività si festeggia in giugno. Ad essa fa pendant quella di Giovanni Evangelista, che si festeggia, invece, il 27 dicembre; vale a dire in corrispondenza dei due solstizi.
Il significato è quindi non solo musicale ma anche esoterico, quasi a simboleggiare la circolarità della vita, e le due direzioni mistiche, da un lato l’aspirazione a crescere/salire e dall’altro i ‘doni’ che, invece, ci vengono rivelati.
Ho sempre pensato, infatti, che la nostra creatività si renda perfetta se si fa ‘canale’, se si spoglia dei limiti del proprio e del possesso. Solo allora, a mio avviso, la musica comunica perfettamente il suo senso più profondo.
Alla costante ricerca dell’innovazione hai ribaltato quelli che sono i canoni usuali della variazione, con il tema originario che si svela poco a poco e solo verso la fine. Da cosa sei partito in questo percorso al contrario?
Hai colto perfettamente. Invece di presentare il Tema, come avviene nella tradizione compositiva classica, e poi formulare le variazioni, faccio esattamente l’opposto. In tal modo, all’ascolto del mio brano d’origine, all’apparire del Tema si coglie come un ‘sentore’ di già noto. Questa procedura realizza una sorta di disvelamento, perché solo alla fine l’ascoltatore chiude il cerchio della struttura.
Nel disco ‘Re:petita’, poi, c’è un’ulteriore moltiplicazione, perché da quel brano composto anni fa ho tratto una serie di dieci tracce, piuttosto brevi. Qui, in alcune di esse, si presenta il tema dell’inno gregoriano e in altre, con maggiore autonomia da quel tema, le differenti variazioni.
Che peso hanno le caratteristiche diatoniche e modali proprie dei canti gregoriani in una rivisitazione originale come la tua?
Parto senza preclusioni di sorta dalla melodia originaria, sulla quale comincio a improvvisare e ad annotare sul pentagramma con una sorta di stenografia musicale. Poi, quando sento che il momento è giunto, accendo i microfoni, spesso di sera. Usando la penombra, registro a lungo, poi seleziono. Non è naturalmente l’unico procedimento che utilizzo, ma in questo particolare disco ho voluto ‘recuperare’ la molteplicità del flusso e salvarlo.
La differenza che poni tra diatonico e modale è l’ambiguità che può guidare l’improvvisazione. Difatti, una scala diatonica di otto note in sequenza, estesa fino alla decima, può già disegnare un panorama modale.
Un passo avanti teorico è forse nell’uso del sistema bimodale, che ho teorizzato qualche anno fa, in una guida intitolata ‘L’incantesimo della soglia’, ora liberamente scaricabile sul sito www.incantesimodellasoglia.com, alla sezione ‘Libri‘.
Le variazioni, o meglio, le alternate take, sono dieci, numero che può avere anche delle interpretazioni simboliche. La scelta è compositiva, ovvero legata ad una logica musicale, di sviluppo di uno schema, o c’è anche qualche altra considerazione di natura più narrativa o concettuale?
Anche qui hai colto bene, perché il numero dieci ha delle implicazioni simboliche ben chiarite, tra gli altri, da Réne Guénon.
Le prime dieci tracce di ‘Re:petita’ sono state estratte da una lunga improvvisazione notturna, e sì, sono il frutto di un’attenta selezione sequenziale e compositiva, per offrire un climax particolare, quasi statico, all’ascolto.
Ad esse si aggiungono altre tre brevi composizioni, tra le quali solo l’ultima utilizza l’elettronica, e solo marginalmente altro materiale pianistico.
Sei noto per le tue doti di improvvisazione. Posto che un brano nel momento in cui viene inciso è fissato, cristallizzato in una forma, quanto questa tua attitudine entra ne ‘L’Inno di Giovanni’ e in che misura viene poi elaborata da espedienti come le variazioni microfoniche?
Molti anni fa – eravamo nel 1985 – ho reintrodotto l’improvvisazione in un concerto a struttura tradizionale, per una storica associazione musicale, la ‘Ferenc Liszt’, e all’interno del prestigioso Complesso monumentale di Santa Chiara a Napoli.
Mi sono poi progressivamente allontanato dalla pratica live dell’improvvisazione, continuando però a praticarla in momenti particolari, e ad insegnarla ai giovani.
Avendo affiancato Giuseppe Chiari a partire dagli anni Novanta, pur apprezzando la componente ‘happening’ dell’improvvisazione maturata – come è noto – in storici gruppi come quello di Nuova Consonanza, di matrice cosiddetta colta, ne ho valorizzato la componente fluxus. Giuseppe Chiari, infatti, fu, a mio avviso, il principale e più coerente musicista fluxus italiano.
Ne ‘L’Inno di Giovanni’’, fai riferimento all’assenza dell’evento sonoro, all’ampliamento del concetto di campo, di confusione di elementi simili, di sottrazione; come possiamo spiegare questa caratteristica a chi la musica semplicemente la “sente”, ma non ha una preparazione tecnica?
Sì, è esatto: quando cessa un evento sonoro quale successione lineare, o discorso, avviene un’apertura di campo, perché entra in gioco la memoria dell’ascoltatore. Egli può lanciarsi in associazioni e rinvii, sia viaggiando, nel caso specifico, all’interno delle medesime tracce di ‘Re:petita’, sia spaziando, in senso generico, attraverso riferimenti che vanno in ogni direzione.
Persino la ‘sospensione’, che tanto pratico nell’esecuzione pianistica, svolge questo compito di apertura di campo: generando attesa, provocando rinvii di senso, o anche solo, semplicemente, risvegliando l’attenzione dell’ascoltatore. Si tratta di interrompere la linearità del pensiero, aprirlo, proiettarlo altrove.
L’origine improvvisativa di ‘Organza’, invece, è più dichiarata, partendo dalle scale coreane. Le due alternate take hanno delle differenze abbastanza marcate e, anche in questo caso, nella seconda traccia il tema si manifesta solo successivamente. È la stessa tecnica usata per ‘L’Inno di Giovanni’? O cosa c’è in più o di diverso?
Ciò che è diverso è l’assenza di un tema gregoriano. Vi sono più spunti tematici, talvolta ispirati alle scale coreane, visto che il brano nacque come opening alla mostra di Kim Sooja al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, ma talaltra frutto della ricerca e dell’approfondimento di successioni scalari non convenzionali.
Un amore che proviene da quello per Ferruccio Busoni, il grande e originale pianista – compositore scomparso nel 1924.
L’ultimo brano, ‘Vinile’, è forse quello più inusuale, almeno per l’utilizzo del suono incagliato di una puntina e del pedale di distorsione di una chitarra, fino ad ottenere qualcosa di assolutamente originale, con pochi secondi di sovrapposizione scaturita da una sorta di “magia sospesa”, per usare le tue parole. E colpisce anche la tua frase “si tratta di ciò che ancor solo è possibile sognare”. Magia e sogno che valore hanno in questo brano specifico e in generale nella tua musica? Soprattutto, oltre la musica, quali altri ambiti di magia e sogno ci sono rimasti?
Nella tua domanda ci sono forse già le risposte. L’ultima traccia sovrappone tre idee: la puntina di un vinile che resta incagliata al termine del suo dire – il vinile era quello del mio compagno di percorso Luciano Cilio, l’unico lavoro che riuscì a pubblicare in vita -, l’uso di un pedale di distorsione collegato al pianoforte, e, infine, un estratto di pochi secondi, che evoca una sorta di ‘magia sospesa’ generata da rapide note, ripetute in modalità minimal.
Si tratta effettivamente di “ciò che ancor solo è possibile sognare” perché è innegabile la compressione immaginativa che stiamo subendo, in questo momento storico, e soprattutto in Italia. E almeno in una delle tredici tracce di ‘Re:petita’, ciò andava sottolineato, per evitare un lavoro solo consolatorio e pertanto conciliato, nell’accezione negativa del termine descritta da Adorno e dalla Scuola di Francoforte.
Quando arrivi alla tredicesima traccia c’è un sottofondo d’ansia e quei pochi secondi di magia incantata rappresentano ciò che la nostra vita potrebbe essere se non ci fossero denaro, iniquità, illiberalità e corruzione ad influire, così pesantemente, sul nostro pensiero libero e sulla nostra quotidianità.
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.