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‘Quo vadis, Aida?’ vince il Premio LUX del pubblico 2022

EP Plenary session - Ceremony of the Lux Audience Award



Momenti di intensa commozione a Strasburgo, dove le testimonianze e i lungometraggi in gara hanno profondamente scosso le coscienze dei presenti

La Luce della Cultura è tornata a brillare nella casa delle libertà, dei diritti umani e della democrazia dei cittadini europei in occasione del LUX European Audience Film Award 2022, per unire l’umanità in una stessa anima, superare l’isolamento, annullare le distanze fisiche e mentali ed oltrepassare la barriera linguistica che ostacola l’esistenza di un mercato cinematografico europeo comune, stimolando la riflessione e la discussione sulle più spinose ed attuali questioni sociali al centro del dibattito pubblico: libertà, pace, tolleranza, accoglienza, integrazione, diversità, varietà di genere.

Il 7 e l’8 giugno siamo tra le pochissime testate presenti, di cui solo due italiane, nella sede di Strasburgo del Parlamento europeo per documentare l’unicità dell’evento, suddiviso in due momenti separati, un seminario/incontro e la cerimonia di consegna del riconoscimento, che racconteremo dettagliatamente, soffermandoci anche sulle trame dei film. Diversamente, ne sviliremmo l’immensa portata.

Il vincitore finale, acclamatissimo, in una gremita sala dell’Emiciclo, è stato ‘Quo vadis, Aida?’ di Jasmila Žbanic, il secondo posto per ‘Flee’ di Jonas Poher Rasmussen e terzo ‘Great Freedom’ di Sebastian Meise, ma, in un certo senso, il vero trionfo è stato quello dei diritti umani in senso lato. E cercheremo di spiegare il perché.

EP Plenary session – Ceremony of the Lux Audience Award

Nella prima giornata ci incontriamo, alle 16:30, nella sala WEISS S2.2, in occasione dello splendido seminario/incontro, interamente in inglese con unica traduzione da e per la lingua bosniaca, con i protagonisti/registi dei tre film in concorso, quando le votazioni per la scelta della pellicola migliore sono ancora in corso.

Non è facile rendere appieno l’eccezionalità della situazione, soprattutto l’intimità, la connessione e l’empatia che, partendo dal tavolo dei relatori, ha coinvolto interamente la sala e ci ha uniti tutti in un ideale abbraccio.

Uno di quei momenti così intensi da scaldarti il cuore, emozionare fino alle lacrime, far trattenere il fiato, mentre si ha l’oneroso privilegio di ascoltare testimonianze struggenti di persone la cui esistenza è stata segnata dalla sofferenza, che trovano, però, ancora la forza di lottare, per urlare al mondo che, nonostante il sangue versato e le ingiustizie subite, bisogna guardare con fiducia al futuro ed impedire che le atrocità si ripetano.

Ma è anche l’occasione di confrontarsi con chi ha sentito la necessità di accendere i riflettori sulle loro storie, che, in una società che si dice civile, non avrebbero mai dovuto aver luogo.

Nel corso di entrambe le giornate sarà ribadito, più volte, che il ruolo dei media, in questo senso, è focale – informativo e formativo – perché la stampa ha il dovere morale di scuotere le coscienze e rendere consapevole la collettività che la diversità è fonte di ricchezza e solo la pacifica convivenza e il rispetto reciproco possono portare al bene ed al progresso dell’umanità.

Ecco che un “semplice” seminario diventa una grande lezione di vita, che rende davvero tangibile i principi fondanti l’unica istituzione dell’UE direttamente eletta dal popolo. Ed infatti, il LUX – Il Premio del pubblico per il cinema europeo, introdotto nel 2020 e presentato annualmente dal PE e dall’European Film Academy, in partenariato con la Commissione europea ed Europa Cinemas, vede gli stessi residenti dei 27 Stati membri partecipare attivamente per decretare il vincitore finale, al pari dei deputati.

Un riconoscimento prestigioso, che si basa sull’anteriore Premio LUX, ideato nel 2007 per simboleggiare l’impegno del PE verso la cultura, e sul People’s Choice Award, il premio dell’European Film Academy assegnato dagli spettatori, con l’intento di consolidare le connessioni tra la politica e i cittadini e far “Vivere l’Europa” mediante film capaci di dare ispirazione.

Non a caso, l’attenta scelta del nome, “luce” in latino, per illuminare il dibattito pubblico sull’integrazione europea e facilitare la diffusione di film europei all’interno dell’UE e suggerirci di guardare l’orizzonte con limpidezza, senza condizionamenti e pregiudizi, alla ricerca del bagliore della Speranza, del rinnovamento e di quell’equilibrio armonico di cui l’Universo tutto ha bisogno, ma anche unità di misura dell’illuminamento, tanto usato nella Settima Arte, per evidenziare oggetti e scene, sottolineando anche la forte carica empatica sottesa, oltre che fattore determinante per l’ottima qualità delle riprese.

Perfetta la scelta del logo, su cui il trofeo è modellato, una spirale di pellicola cinematografica che rimanda, in positivo, alla Torre di Babele, tripudio della ricchezza della diversità, della pluralità linguistica e culturale dell’UE, il cui motto, appunto, è ‘Unita nella diversità’.

Ma chi è a designare i film in lizza per il Premio LUX del pubblico, tra tutti quelli presentati agli European Film Awards e in base a cosa?

Annualmente la commissione per la cultura e l’istruzione del PE approva una giuria, composta da produttori, distributori, operatori cinematografici, direttori di festival e critici cinematografici e da un incaricato di Eurimages, il fondo di sostegno culturale del Consiglio d’Europa. D’ufficio, vi fa parte anche un delegato del film vincitore della precedente edizione. È presente, inoltre, in qualità di osservatore, un rappresentante del programma Europa creativa della Commissione europea.

Ciascun membro della giuria di selezione può indicare due film da valutare come potenziali finalisti, in quanto non vengono accettate candidature spontanee. Eccezionalmente, per via delle restrizioni da Covid-19, i film selezionati ad ottobre 2021 sono stati tre anziché cinque e l’annuncio ufficiale è avvenuto l’11 dicembre 2021, a Berlino, durante la cerimonia di premiazione degli European Film Awards.

Le tematiche centrali delle opere scelte, ispirate ad eventi reali, sono sì vulnerabilità e divisione, ma anche, e soprattutto, il potere curativo della tolleranza e della compassione.

Naturalmente, i criteri di ammissibilità sono specifici. Per poter essere presi in considerazione i lungometraggi – finzione, animazione o documentario – prodotti o coprodotti nei Paesi ammissibili al programma Creative Europe – Media, dovevano aver vinto un premio o aver ricevuto una notevole attenzione in un grande festival; essere stati venduti e diffusi nelle sale in almeno cinque Paesi UE, venduti in almeno tre nel caso dei film del Festival di Cannes e del Festival di Karlovy Vary; essere stati proiettati in prima visione pubblica ufficiale in occasione di un festival, anche online, o al cinema, oppure diffusi online tra il 1° settembre 2020 e il 1° settembre 2021.

Il seminario era opportunamente diviso in due parti – ‘La lotta alla discriminazione: il ruolo del cinema’, e ‘Tempi di guerra: specchi della realtà’ – e moderato dall’impeccabile Raffaella De Marte.

Ottimo lavoro di squadra dello staff del PE, che, dall’Italia e da Strasburgo, mette a nostra completa disposizione tutto il materiale possibile e ci supporta, con estrema gentilezza, anticipando ogni nostra richiesta.

Il dibattito successivo, altamente proficuo e costruttivo, sarà anche un coro unanime di ringraziamento per aver avuto il coraggio di osare, regalando al mondo opere di un valore inestimabile, che invito tutti a vedere.

Il primo ad intervenire è Sebastian Meise, regista del film ‘Great Freedom‘, coproduzione Austria – Germania, prodotto da FreibeuterFilm (A) e Rohfilms Productions (DE), la cui distribuzione internazionale è gestita da The Match Factory.

Il lungometraggio, 116 minuti, è stato presentato in anteprima a Cannes nella sezione Un Certain Regard dove ha vinto il premio della giuria e, con il tempo, ha incassato una lunga serie di riconoscimenti nel circuito dei festival internazionali.

Il regista austriaco, nel sintetizzare, per quanto possibile, i punti chiave della sua opera, si sofferma sui concetti di resilienza e resistenza che caratterizzano i personaggi che, impossibilitati ad esprimersi come vorrebbero e a dichiarare la loro vera natura e le loro preferenze sessuali, non hanno altra scelta che vivere le loro vite, nonostante l’assurdità grottesca di alcuni eventi che sono costretti a subire.

Questo senso di appartenenza va protetto. Se il dovere del cinema è educare, schiudere le menti, mostrare altre vie possibili, spiega, quello della politica è aprire e stimolare il dibattito, creare le condizioni perché la società cambi in meglio, contrastare le fake news e incoraggiare al libero pensiero delle giovani generazioni.

Abbiamo incontrato molte persone che erano in prigione in Germania negli anni 60 per essere gay o per aver commesso “crimini omosessuali”, così li chiamavano.

Una cosa interessante è che la maggior parte di loro non ha mai raccontato le proprie storie.

C’è stata una situazione molto commovente; una coppia di anziani aveva una lunga relazione da metà degli anni 60. All’improvviso uno di loro racconta di essere stato in carcere negli anni 60 e il suo compagno gli dice: “Cosa? Non me lo hai mai detto”. Quindi era un grande tabù anche per loro.

Tutti hanno mostrato lo stesso atteggiamento verso la vita. Cosa fai se tutta la tua esistenza è da criminale? Non hai altra scelta che accettarlo e vivere comunque la tua vita.

L’esperienza dolorosa per quelle persone non è che sono state interrogate sulla loro identità sessuale; è il non essere state parte del mondo. Non hanno mai avuto la possibilità di recuperare, perché in Austria, credo sia stato nel 2017, solo pochi anni fa quindi, il Ministro della Giustizia si è scusato per la prima volta. Per tutta la loro vita hanno avuto precedenti penali e penso che il filo conduttore del nostro film sia la sensazione di sentirsi sbagliati per il mondo.

La pellicola, ambientata nella Germania post-bellica, si incentra sulla storia sociale della nazione, sulle umiliazioni che i gay sono costretti a subire prima della depenalizzazione dell’omosessualità e sulla logica mortifera dell’incarcerazione in grado di ingabbiare la psiche, rendendo la prigionia fisica quasi ininfluente.

Hans Hoffmann, il protagonista che incarna la purezza di fronte alle avversità, interpretato dall’egregio Franz Rogowski, viene imprigionato, nella Germania del dopoguerra, nello stesso carcere di sicurezza nel ’45, nel ’57 e nel ’68, perché “colpevole” di essere omosessuale e di aver violato l’articolo 175 del Codice penale.

L’unico punto fermo della sua vita è il compagno di cella, Viktor, impersonato dall’ottimo Georg Friedrich, condannato all’ergastolo per omicidio, che si dice un omofobo convinto, a cui si legherà in una relazione romantica, ma non solo.

La crudezza del film è impellente, imprescindibile, parte integrante della narrazione al pari dei personaggi principali, un pugno nello stomaco per prendere consapevolezza della situazione: ed ecco spiegate le risse nel cortile, le notti nella cella d’isolamento e il desiderio di evasione. Eppure, la trama sa regalare scene delicate, intime e calibrate da una sana dose di dolce leggerezza.

La parola passa a Monica Hellstrom, produttrice di ‘Flee’, 90 minuti, coproduzione Danimarca – Francia, Svezia, documentario animato che ha ottenuto il Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival, collezionando, poi, molteplici successi.

La produttrice evidenzia non solo le similitudini con la trama precedente, ma anche con l’attualità: la lotta alle discriminazioni di un rifugiato dall’Afghanistan nelle ultime fasi della guerra afghano-sovietica alla fine degli anni Ottanta, quando la fuga era ormai la sola ancora di salvezza.

Indugia, quindi, sul ruolo focale del cinema, aiutare a mostrare quelle situazioni che, altrimenti, resterebbero in ombra, far capire cosa significhi essere qualcun altro, parlare dei rifugiati dei diversi Paesi, accomunati, però, dalle stesse problematiche e dai medesimi drammi.

Il doloroso segreto che il personaggio principale custodisce, il cui disvelamento potrebbe pregiudicare il suo futuro e quello del marito, rende necessario garantirne l’anonimato per motivi di sicurezza, ed ecco spiegato il ricorso del regista, Jonas Poher Rasmussen, suo compagno di classe alle superiori, allo pseudonimo di Amin Nawabi.

La scelta poi di affidare la narrazione in forma quasi totalmente animata, sfocia in momenti quasi onirici, tra realtà soggettiva e natura delle nostre percezioni, e crea ancor più compartecipazione.

Tramite profondi colloqui tra i due amici, attraverso un intimo e doloroso processo di consapevolezza, l’opera mette a nudo una storia di auto-scoperta ed auto-accettazione per ribadire come sia possibile avanzare nel proprio percorso di vita solo se si accetta di fare i conti con il proprio passato, smettendo di fuggire da se stessi.

Amin, adolescente, è costretto a lasciare la propria Patria, l’Afghanistan, con la madre e tre fratelli maggiori per rifugiarsi in Russia, unico stato disposto ad accoglierli, finché i loro visti non scadranno, in uno scenario di caos a seguito della caduta del comunismo. Una serie di infelici ed assurde situazioni renderà ancor più difficile farli stabilire in un Paese sicuro dell’Europa occidentale e l’approdo ultimo sarà la Danimarca.

A complicare il tutto è la scoperta della sua identità sessuale “queer”, da celare tenacemente alla famiglia, relegando questo aspetto di sé solo al privato e al rapporto con i coetanei.

L’obiettivo principale era una storia su Amin in fuga dall’Afghanistan; ma ci siamo resi conto che era anche una parte rilevante perché non stava solo fuggendo dall’Afghanistan, stava fuggendo dalla sua stessa identità”.

Quando abbiamo iniziato a girare il film, nel 2013, c’era una grande crisi in Siria e la gente camminava per le strade in Europa. Abbiamo sentito che occorreva raccontare al mondo dei rifugiati; quando vengono nei Paesi occidentali, arrivano con un trauma; perciò, è importante capire da dove vengano.

L’ultimo intervento di questa prima sessione è di Maria Walsh, membro del Parlamento europeo e del Committee on Culture and Education, che si sofferma sul compito della cultura e delle istituzioni nella lotta alle discriminazioni, nel rispetto delle minoranze.

In quanto spettatrice prima e politico poi, sa bene che non esiste un solo tipo di persona, ma c’è la bellezza delle differenze, che consente di guardare il mondo in modo policromatico. Mostrare la multiculturalità, promuovere il senso dei valori, educare fin dalla primissima infanzia ad avere questo tipo di mentalità, cooperare per il rispetto del singolo, è necessario per illuminare il nostro mondo.

L’elemento che accomuna i tre i film, ora più che mai, è il rilievo dell’impatto che una persona ha sulla vita di un’altra. È attraverso flussi creativi come questo che la gente ha iniziato a pensare: “c’è ancora molto lavoro da fare”.

Si combatte duramente per l’uguaglianza ma, sfortunatamente, la si perde rapidamente.

Le minoranze sono le più colpite dalla salute mentale, sia i LGBTQI, sia coloro che vengono in Europa e cercano di trovare una casa e un rifugio sicuri.

E sono questi numeri, quando si parla di generazioni perdute, che non sperimenteranno mai i valori che a volte do per scontati.

Inizia, così, la seconda parte del seminario.

Il primo a prendere la parola è il regista Jonas Poher Rasmussen, il quale spiega che il valore pedagogico del rispetto dei sentimenti e dell’unicità della persona è stata la molla propulsiva che li ha spinti a creare ‘Flee’. Incoraggiare il dibattito, soprattutto nei Paesi in cui è molto difficile affrontare tali tematiche, appare indispensabile per l’evoluzione sociale.

La guerra, le restrizioni, l’abuso del potere in Afghanistan, le misere condizioni di vita e i connessi problemi psicologici dei rifugiati erano per lui solo vicende lontane fino all’incontro con il suo compagno di classe che, solamente molti anni dopo ha condiviso con lui il suo vissuto, facendogli prendere coscienza di quanta sofferenza si celi in un percorso così penoso. È una storia universale, ribadisce, era giusto e doveroso raccontarla.

Non si tratta certo di una semplice animazione, il pupazzo esprime i suoi sentimenti più veri, in profondità, senza essere sotto gli occhi del pubblico, perché egli stesso vuole dire al mondo: “sono io, sono così e non posso cambiare”.

Non pensavo di voler fare una storia di rifugiati, ma la mia prospettiva è cambiata più volte. Sono duro, forse, perché la storia di Amin è raccontata dall’interno della nostra amicizia e perché è successo così tanti anni fa che abbiamo potuto dare una nuova prospettiva per la narrativa degli esuli.

Spesso vengono descritti come semplici profughi, circostanza che può capitare a tutti noi. Quindi è diventata più una storia sull’essere etichettati come rifugiati e sullo sbarazzarsi di questa definizione, su come trovare un posto nel mondo e potersi ricostruire.

Non sentivo di doverlo convincere, ne aveva la necessità anche lui, perché si sentiva disconnesso dalla vita. Il suo passato e il suo presente non erano davvero collegati. Ha trovato il bisogno di aprirsi perché poteva vedere che, poiché aveva un segreto, teneva tutto il tempo le persone a distanza. Ha avuto difficoltà a creare relazioni strette perché aveva paura di essere smascherato.

Il sentimento di Amin è travolgente, ma lo rende anche molto orgoglioso. Essere in grado di dare la propria storia al mondo in modo che chi ha esperienze simili possa avere qualcosa da vedere e dire “questa è anche la mia storia, posso vedermi in questo” significa molto per lui.

Tocca quindi a ‘Quo Vadis, Aida?’. La pellicola, 103 minuti, coproduzione Bosnia-Erzegovina, Austria, Paesi Bassi, Francia, Polonia, Germania, Romania, Turchia, ambientata nel 1995 in Bosnia, ha come protagonista Aida, a cui presta il volto la bravissima Jasna Đuričić, che da insegnante diventa interprete per l’ONU a Srebrenica.

Quando l’esercito serbo invade la cittadina, Aida si rifugia con la famiglia nella base delle Nazioni Unite ed entra in possesso di informazioni delicatissime, mentre cerca di capire il modo migliore per poterle utilizzare.

Sa che è impossibile accettare le promesse dei comandanti, come sa che, sebbene Srebrenica sia stata dichiarata zona sicura ONU, sta per diventare scenario del primo genocidio europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale, con il peggiore massacro di civili bosgnacchi da parte delle truppe paramilitari serbo-bosniache di Ratko Mladić.

Senso di impotenza e di oppressione, incomunicabilità, incapacità di reagire sapendo di non avere scampo sono costanti in tutta la narrazione di quest’assurda realtà. Amaro, duro, terribilmente realistico, ma doverosamente necessario, ancor più se pensiamo che riguarda un passato recentissimo.

La regista e produttrice Jasmila Žbanić apre il suo intervento in modo estremamente toccante ed efficace, facendo notare come sia stato un tristissimo periodo non solo per la Serbia, ma per l’Europa tutta. La cosiddetta zona protetta, che l’ONU aveva giurato di tutelare, tenendo al sicuro le persone, diventa, invece, un luogo infernale. Gli uomini, separati dal resto della popolazione, formalmente per essere interrogati, vengono invece uccisi e gettati in fosse comuni. Intere famiglie dilaniate, senza avere nemmeno il conforto di una tomba su cui piangere i resti dei propri cari.

Questo seminario, rimarca, è importante perché ci permette di creare una connessione con ciò che sta accadendo oggi in Ucraina, le cui conseguenze si protrarranno nei prossimi anni. La sofferenza è la medesima, indipendentemente dalla lingua parlata e dal Paese in cui il conflitto si consuma e ciò fa parte della storia della nostra Europa, così come delle nostre vite. Le nazionalità non hanno ragion d’essere quando si parla di umanità. La pace è l’unica via possibile.

In quanto bosniaca, è stato molto difficile per me quello che è accaduto a Srebrenica. 8.372 persone sono state uccise. Io non c’ero, ero a Sarajevo a sentire cosa stesse succedendo ed è stato per me un trauma davvero grande, trauma che non è finito perché Srebrenica è presente nella nostra vita quotidiana.

Ancora migliaia di madri stanno cercando i loro scomparsi, i corpi sono ancora nascosti in fosse comuni. Non c’è pressione da parte dell’UE e dei poteri per trovarli e la sofferenza che stanno attraversando queste madri è insopportabile.

Quello che sta succedendo ora all’Ucraina avrà conseguenze nei prossimi 30 anni almeno, come in Bosnia, dove stiamo ancora lottando e non riusciamo a riprenderci.

Ho iniziato con una vicenda vera, quella del traduttore Hasan Nuhanović, che ha scritto ‘Sotto la bandiera della Nazioni Unite: la comunità internazionale e il genocidio di Srebrenica’. Ha descritto cosa è successo alla sua famiglia, ma nel processo avviato contro l’Olanda è stato molto difficile andare avanti con questa storia. Per raccontare la prospettiva femminile sull’evento ho deciso di avere come protagonista una donna. È un personaggio di fantasia, ma è una combinazione di storie che ho letto e sentito.

Quello che ho trovato sorprendente e che mi ha ispirato è che sono tornati per diffondere la pace e parlare del fatto che dobbiamo vivere insieme e che non abbiamo futuro se non viviamo insieme.

La tensione e l’attenzione sono al massimo quando prende la parola Munira Subašić, Presidente dell’Associazione Madri di Srebrenica, che ha perso il figlio Nermin, di soli 21 anni, durante il massacro della città in cui furono brutalmente uccisi 8.000 tra ragazzi e uomini. L’associazione di cui è alla guida sostiene le vittime della strage e raccoglie donazioni in favore delle famiglie dei sopravvissuti.

Indossiamo le cuffie per ascoltare l’interprete dal bosniaco. Pochi attimi e la “leonessa” che combatte con tutte le sue forze per mettere fine ad ogni guerra ed alle sofferenze dei popoli e delle madri, si interrompe, travolta dall’emozione. Con estrema dignità, si scusa, come se ce ne fosse bisogno, e riacquista il controllo, mentre la maggior parte di noi, scossa da brividi, si asciuga le lacrime, guardandosi negli occhi, con un’intensità e una consapevolezza forse mai avute prima.

Ricorda la sua storia, la sua nazione, il suo ragazzo e invita tutti noi a custodire il valore della memoria, perché nessuno dimentichi, a cominciare dalle scuole, che hanno il compito di educare le nuove generazioni al rispetto dei valori, e dei mezzi di comunicazione, che devono far arrivare forte il messaggio in ogni luogo. I figli sono delle vittime al pari delle madri, che non riescono a proteggerli e, impotenti, li vedono morire o rimanere orfani.

Non c’è famiglia a Srebrenica che non sia stata segnata da questo dolore. Noi madri abbiamo combattuto come leonesse per salvare i nostri figli e i nostri mariti, ma abbiamo fallito.

Sono sopravvissuta al genocidio, ma 22 membri della mia famiglia sono stati uccisi, inclusi mio marito e mio figlio. Ho trovato solo due pezzi delle sue ossa in due diverse fosse comuni, grazie alle analisi del DNA, e le ho seppellite. So che era vivo, l’ho avuto e ora ho la sua lapide come prova. C’è differenza tra vivi e morti, ma c’è una differenza ancora più grande tra morti e dispersi.

Mentre parliamo, molte madri stanno piangendo per i loro figli in Ucraina o in Russia. I loro figli vengono uccisi o ne uccidono altri. Quando vedo quelle scene non riesco a dormire, le stesse scene che abbiamo visto a Srebrenica negli anni 90. Abbiamo inviato messaggi al mondo intero in modo che tutti sapessero cosa è successo.

Quanti bambini sono nati dopo che i padri sono stati uccisi, bambini che non hanno foto dei loro padri. La nipote di mio marito mi chiedeva molto spesso: “assomiglio a mio padre?”. Ha un’istruzione universitaria ma ha ancora tante domande e non ha segni di vendetta.

I bambini di Srebrenica, quando lo sono, sono bravi e di successo, mentre i bambini della Republika Srpska vivono ancora con la menzogna e con l’odio. I bambini meritano la verità e noi, le madri, meritiamo la giustizia.

Dobbiamo raccontare quello che sta accadendo. Voi giornalisti avete il dovere di imporvi, di dire NO alla guerra in Ucraina. Si muore per i bombardamenti, per le infezioni, per il dolore. Ci manca il fiato! I bambini che sono cresciuti senza padre ora sono dei professionisti, significa che si può cambiare la propria vita in meglio. Basta sangue, basta violenza, basta sofferenza. PACE! Siamo la stessa anima!

Difficile poter dire qualcosa di altrettanto efficace e valido, dopo di lei, commenta argutamente Raffaella De Marte, mentre invita Romeo Frnz, membro del PE, Presidente della Delegazione per le relazioni con la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo e Vicepresidente della Commissione per la cultura e l’istruzione a chiudere i lavori.

L’eurodeputato, nel congratularsi con ognuno di loro, definisce le tre pellicole in concorso dei capolavori. Ringrazia caldamente la signora Munira Subašić per essere lì e per il suo forte impegno sociale con l’Associazione Madri di Srebrenica. Occorre imparare dai nostri errori, fare in modo che non si ripetano più e riportare la pace e la tolleranza nelle nostre vite.

Questo premio Lux promuove e sostiene il cinema europeo, che è un importante mezzo di cultura per presentare, nelle nostre società, la riflessione e il dibattito su questioni urgenti, ancora di più in tempo di guerra. Siamo tutti profondamente inorriditi dalla guerra in Ucraina e da tutte le guerre che stanno portando così tanti danni e distruzione.

‘Quo vadis, Aida?’ mostra i bosniaci che pagano per la storia, il drammatico sviluppo del genocidio di Srebrenica, che non dimenticheremo mai. E che si dica mai più.

‘Flee’ mostra che essere un rifugiato non è un’identità, è una circostanza che può capitare a chiunque. Nei prossimi decenni in tutto il mondo più persone saranno visibili.

Nella mia stessa famiglia, sei zie e zii sono stati assassinati ad Auschwitz. Mia madre e mia nonna erano rifugiate a causa dell’origine etnica. Conosco questa sensazione, davvero. Dobbiamo migliorare le nostre società per questi eventi e costruire la resilienza perché la guerra e il cambiamento climatico avranno conseguenze dirette per le nostre società.

Inaspettatamente riprende la parola l’immensa Munira Subašić che ribadisce:

Ogni madre è madre e può parlare ad ognuno di noi. Quando un padre muore per un eccidio cosa deve dire una mamma a suo figlio? L’Europa ha creato questo problema e l’Europa deve risolverlo.

Questo genere di film può creare empatia, senso di identità, che sono importantissimi.

I giornalisti possono fare di più. Voi potete fare la differenza, parlate al mondo, parlate ai cuori e tenete viva la memoria.

Un applauso commosso chiude il seminario/dibattito.

L’indomani, 8 giugno, ore 12:00, l’appuntamento è nell’emiciclo di Strasburgo.

EP Plenary session – Ceremony of the Lux Audience Award

Siamo nell’area stampa, accanto a noi qualche studente di giornalismo e alcuni spettatori che, partecipando alla votazione, assegnando, quindi, un punteggio in base al loro ordine di gradimento, una stella – scadente, fino a cinque stelle – ottimo, hanno contribuito al risultato finale. Il film vincitore, naturalmente, è stato quello che ha ricevuto più stelle da parte del pubblico e degli eurodeputati, con una ponderazione per ciascun gruppo del 50%.

La Presidente Roberta Metsola, nell’evidenziare il valore sociale e terapeutico della cultura per scuotere le coscienze e stimolare la discussione, dà il benvenuto ai tre film finalisti, complimentandosi per i successi già ottenuti, nella speranza che possano ricordare questa candidatura come qualcosa di prezioso.

Ribadisce come questo sia l’unico premio cinematografico assegnato da deputati e cittadini e che le opere, sottotitolate nelle 24 lingue ufficiali dell’UE, siano state proiettate in tutti gli Stati membri. La promozione, partita infatti, il 12 dicembre 2021 per terminare il 25 maggio 2022, ha previsto rappresentazioni in tutta Europa attraverso le Giornate del premio LUX, da marzo a maggio, e la Settimana del pubblico del Premio LUX, dal 28 marzo – 3 aprile 2022, seguite da dibattiti con uno o due rappresentanti dei film.

La Presidente dedica un pensiero ad ognuno dei tre film, evidenziando come, nonostante attengano a fatti storici, sono contemporanei nel loro trattare argomenti orrendi e ribadisce che il PE sarà sempre al loro fianco, perché sono fonte di ispirazione.

Si parte, quindi, con la proclamazione.

Il terzo premio va a ‘Great Freedom’, il secondo a ‘Flee’ e il primo a ‘Quo vadis, Aida?’, che avrà l’onore di essere adattato per il pubblico con disabilità visive e uditive e promosso nei Paesi membri.

EP Plenary session – Ceremony of the Lux Audience Award

Nel conferire il primo premio, la Presidente Metsola, dichiara:

Questo film è un forte appello alla giustizia per le donne e le madri di Srebrenica che hanno assistito all’atroce uccisione di oltre 8.000 persone care. Queste orrende atrocità e questo crimine contro l’umanità non devono mai essere dimenticati.

Il Parlamento europeo è a favore della libertà di espressione: nel cinema, per i registi, i narratori e gli autori. Il Premio del pubblico LUX getta un ponte tra il nostro lavoro politico e il lavoro creativo dei registi in Europa. I film LUX riecheggiano attraverso l’arte il sentimento della lotta per i diritti civili, i diritti umani, la giustizia, la democrazia e la libertà.

Nel riceverlo, la regista Jasmila Žbanić afferma:

Quando stavo preparando un film sul genocidio di Srebrenica, pensavo che la guerra in Bosnia, in Croazia, nella nostra regione fosse l’ultima in Europa. Sono rimasto così scioccata nell’apprendere che noi, europei, abbiamo permesso la guerra in Ucraina. Vi esorto a trovare un modo per fermare la guerra in Ucraina.

La sopravvissuta al massacro di Srebrenica e Presidente dell’associazione Mothers of Srebrenica Munira Subašić conclude:

In Ucraina le madri piangono, cercando le ossa dei loro figli. Vi prego quindi di fermare la guerra in Ucraina, in modo che il minor numero possibile di madri nel mondo soffra. La cosa peggiore è attendere la giustizia e noi l’attendiamo da 27 anni. Mettiamo fine alla sofferenza delle madri: PACE!

Visiona i trailer dei tre film finalisti

EP Plenary session – Ceremony of the Lux Audience Award

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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