Quando si varca l’arco del Tempio dei sogni, proprio lì c’è il mare.
Luis Sepúlveda
Ci sono giorni in cui il sole sorge per far uscire di casa i sognatori, che, altrimenti, passerebbero il loro tempo a vivere in un mondo parallelo. Con la sua Luce rischiara sì le tenebre ma spazza via tutte le esperienze oniriche, anche quelle che, dimorando nel buio, manifestano il vero Io. I sogni permettono a chiunque di compiere ciò che desidera e non ha il coraggio di fare.
Pirandello scrive:
La razionalità a volte ci frega e ci rende ciechi. Sembra un paradosso ma non lo è, e di certo non lo era per gli altri artisti che hanno abbracciato il surrealismo dichiarando guerra alla dittatura della ragione. Forse perché essere razionali, saggi e precisi può aiutare a vivere più a lungo ma in cambio di un’esistenza che teme di varcare le soglie del visibile.
L’arte surrealista ha il pregio di costringere lo spettatore ad andare al di là di ciò che l’occhio vede, per mostrare una realtà diversa che esiste in un universo che non può essere toccato, ineffabile come un sogno o reale come il mondo visto con gli occhi di bambino.
L’attività onirica è surreale, dà la possibilità di immaginare senza limiti quello che la mente è in grado di concepire, consente la realizzazione immediata dell’oro alchemico, il raggiungimento del Sé, di percorrere il sentiero per l’anima, scoprire quella Pietra Filosofale capace di guarire dalla corruzione della materia.
Una grigia oscurità inviluppa il balcone dal quale osservo la cima dell’amato Vesuvio che offre dimora al Dio Sebeto. Posso scorgere un sentiero che si muove evanescente e termina dove si apre la bocca del cratere, intorno al quale si allarga una natura spoglia e silenziosa che, invece di cristallizzare una visione dimenticata, attende che il futuro sia foriero di possibilità capaci di sconfiggere l’organismo biologico che assilla l’intera umanità.
Felicemente prigioniero della poltroncina rivolta verso il Vesuvio, devo però liberarmi delle catene che mi legano alla caverna di Platone perché, nello spazio circostante la cavità vulcanica, intravedo la sagoma del caro Fabio Da’ath. Lo raggiungo, immediatamente, conscio che è lì a vagare senza meta e da un tempo indefinito.
Giunto nel desiderato luogo e salutato il mio amico, lascio che da lì il mio pensiero sia libero di proseguire da solo, privo della materia. È in quell’istante che, spinti dalla sete di conoscenza e dalla voglia di mutamento, ci lasciamo cullare dal vento, la voce che, da tempi lontani, è in cerca di qualcosa, e dalla volontà dell’amata Madame Carmen.
Il viaggio virtuale termina nel momento in cui arriviamo nel laboratorio di Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso, alchimista e medico svizzero che, ambendo avere un discepolo, è intento a pregare il Dio Ignoto affinché gliene invii uno. Pur abituato ad alzarsi per accendere la lampada di ferro, resta seduto, perché l’azione gli richiederebbe uno sforzo eccessivo. È talmente stanco che dimentica di recitare la sua preghiera.
Sentendo battere all’uscio, pur insonnolito, si alza, sale faticosamente la breve scala a chiocciola e apre un battente per permetterci di entrare. Sorpreso per la visita di tre ospiti ed indicandoci una panca, ci invita ad accomodarci accanto al camino.
Mentre il magro fuoco, proiettando ombre irregolari, non è in grado di riscaldare il freddo laboratorio, Madame Carmen, nel presentarci, spiega che ci ha accompagnato lì perché desideriamo essere iniziati ai Misteri dell’Arte. Il nostro interlocutore, stupito, pur accennando un malcelato sorriso, rimane in silenzio per qualche minuto e noi con lui.
I nostri sguardi curiosi si incrociano, si fanno carne, ci uniscono più di un abbraccio, ma, soprattutto, bussano alle porte del cuore e penetrano nell’anima. Diventa uno scambio di emozioni, una relazione di luce ed ombre che, andando oltre il visibile, nella penombra, racconta all’altro qualcosa di noi stessi. Sebbene il tempo sembri non passare mai, il silenzio ci permette di scoprire il valore e il senso della vita.
L’alchimista, rendendosi conto che è il momento giusto, rompe gli indugi e, soppesando ed enfatizzando le parole, esordisce:
Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente. Non ricordo i vostri. Chi siete e che volete da me?
La dama dichiara di essere una spiritista e medium napoletana, quindi aggiunge che suo nipote è uno studioso di esoterismo, cabala ed alchimia e che io, Pulcinella, indosso quella maschera che permette agli opposti di coesistere e completarsi, che fa rinascere la natura e che mi consente di sorridere, risorgere a nuova vita ogni volta che qualcosa va male.
Fabio, sapendo che la nonna non ha altro da aggiungere, asserisce:
I nostri nomi non hanno importanza. Siamo qui perché desideriamo diventare suoi discepoli e, per convincerla, abbiamo portato un po’ di denaro.
Prende la borsa che ha con sé e, con la mano destra, la rovescia sulla tavola. Come d’incanto, le banconote si trasformano in monete d’oro. Paracelso, che, nel frattempo, per accendere la lanterna, ci volta spalle, nel girarsi verso di noi nota una rosa nella mano sinistra del mio amico.
Nell’osservare il fiore, inquietandosi, si china, congiunge l’estremità delle dita e afferma:
Voi mi credete capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offrite oro. Non è ciò che cerco e se è quello che vi interessa, voi non sarete mai miei discepoli.
Fabio replica:
Non ci interessa. Questi soldi non sono altro che una prova del nostro desiderio di apprendere. Vogliamo percorrere al suo fianco la strada che conduce alla Pietra.
Paracelso ribatte:
La via è la Pietra. Ed è anche il punto di partenza. Se non comprendete queste parole, non avete ancora cominciato a capire. La meta consiste in ogni vostro passo.
Fabio, guardandolo con aria diffidente, con voce ferma, chiede:
Ma esiste una meta?
Il medico, ridendo sonoramente, aggiunge:
I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che una via esiste.
Dopo una breve pausa, intervengo:
Anche se dovessimo viaggiare per molti anni, siamo pronti a percorrerla con lei. Ci lasci attraversare il deserto. Anche se gli astri dovessero vietarci l’accesso, ci permetta d’intravedere, almeno da lontano, la terra promessa. Però, prima, vorremmo una prova.
Paracelso, manifestando in pieno la sua inquietudine, risponde:
Quando?
Fabio, con determinazione:
Subito.
Una prima trasmutazione avviene, perché tutti, anziché continuare la conversazione in inglese, iniziamo a parlare in italiano.
Fabio, svelando l’indole di leone mai domo, con la mano sinistra alza in alto la rosa e riprende:
Molti affermano che lei, grazie alla sua arte, possa bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri. Ci faccia assistere e testimoniare tale portento. Questo è quanto le chiediamo, poi può disporre, a suo piacimento, della nostra vita.
Egli, senza attendere nemmeno un attimo:
Miei cari, siete molto ingenui, ma della credulità non so che farmene.
Con espressione autoritaria, esclama:
Esigo la fede.
Fabio, ascoltata quest’ultima affermazione, controbatte:
Maestro caro, è proprio perché non siamo creduli, vogliamo vedere con i nostri occhi la distruzione e la resurrezione della rosa.
Paracelso, fa suo il fiore e, con una bizzarra espressione, tenendolo in mano e giocherellandoci, ribadisce:
Siete creduli. Dite che sono capace di distruggerla?
Fabio, interviene di nuovo:
Tutti lo sono.
Egli, prontamente, replica:
Vi sbagliate. Credete forse che le cose possano esser rese al nulla? Credete che il primo Adamo, nel Paradiso, abbia potuto eliminare un solo filo d’erba?
Fabio reagisce:
Non siamo nel Paradiso, ma qui, sotto la luna, tutto è mortale.
Il Maestro, con espressione accigliata, si alza in piedi:
E in quale altro luogo siamo? Pensi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Che la caduta sia altro dall’ignorare dove siamo?
Incurante del disappunto dell’alchimista, con tono di sfida, il mio amico rimarca:
Una rosa può bruciare.
L’astrologo, ancora turbato, chiarisce:
V’è ancora del fuoco nel camino. Se voi gettaste questa rosa nella brace credereste che le fiamme la consumino e che la cenere sia reale. Invece, vi dico che è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola affinché voi poteste vederla di nuovo.
Fabio, meravigliato, domanda:
Una parola? L’Athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. In che modo potrebbe farla rinascere?
Il saggio, rattristito mentre lo guarda intensamente, aggiunge:
È vero, l’Athanor è spento e gli alambicchi sono coperti di polvere, ma in questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.
L’altro, con molta umiltà, commenta:
Non oso domandare quali siano.
Lo studioso, in modo affettuoso e con voce armoniosa, riprende;
Parlo dello strumento usato dalla divinità per creare il cielo, la terra e l’invisibile Paradiso in cui viviamo, ahimè, nascosto dal peccato originale. Mi riferisco alla Parola che la scienza della Cabala ci insegna.
Sebbene il discorso pronunciato sia di una profondità unica, Fabio incalza:
Maestro, le chiediamo la grazia di mostrarci la scomparsa e ricomparsa del fiore. A noi poco importa che lei operi mediante il Verbo o gli alambicchi.
Egli, dopo aver riflettuto qualche attimo, commenta:
Se lo facessi, voi direste che si tratta di un’apparenza, di un film imposto ai vostri occhi dalla magia. Il prodigio non vi donerebbe la fede che cercate. Deludereste le aspettative di Madame Carmen. Orsù, lasciate stare la rosa.
Fabio, diffidente, lo osserva con espressione contrariata.
L’anziano, alzando la voce, tuona:
Signora, chi sono loro per introdursi in casa di un maestro e pretendere da lui una magia? Che stanno facendo per meritare un simile dono?
Lei, imbarazzata, cerca di calmarlo, asserendo che, in quanto neofiti, ci lasciamo soggiogare dalla curiosità, anziché dominarla.
Fabio, consapevole che la nonna stia cercando di tranquillizzare il nostro ospite, con la pelle d’oca per l’emozione, riprende a parlare:
Comprendiamo bene che non stiamo facendo quasi nulla per meritarlo, ma tenendo conto del tempo che, alla sua ombra, ci accingiamo a dedicare allo studio, la preghiamo di mostrarci prima la cenere e poi la rosa. Promettiamo di non chiedere altro. Lasci che i nostri occhi, testimoniando ciò che vedono, ci aiutino a credere.
Poi, inaspettatamente, prende la rosa rossa precedentemente riposta da Paracelso sul leggio e la getta tra le fiamme. Il colore, sparendo, lascia il posto ad un mucchietto di cenere. Per un istante infinito attendiamo le parole e il miracolo dell’alchimista, che resta, invece, impassibile.
Dopo qualche interminabile attimo di silenzio, con semplicità, riprende:
Tutti i medici e gli speziali di Basilea affermano che io sia un mistificatore. Forse hanno ragione. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non può più esserlo.
Fabio, prova vergogna; le parole udite sembrano essere quelle di un ciarlatano o di un semplice visionario. Si sente un intruso che, accolto in casa dal Maestro, lo costringe a confessare l’inesistenza delle arti magiche tanto decantate in epoche successive alla sua.
Però, con umiltà, si inginocchia ai suoi piedi e mi prega di fare altrettanto, quindi, si scusa:
Il nostro comportamento è imperdonabile. Ci manca la fede che il Signore esige dai credenti. Ci lasci guardare ancora un po’ la cenere. Se Pulcinella concorda, supportati da una maggiore volontà, ritornando in un prossimo futuro, potremmo essere suoi discepoli e, in fondo al cammino evolutivo, vedere la rosa.
L’intonazione di voce certifica una passione autentica, che rivela, però, la pietà che gli ispira il nostro venerato interlocutore, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi siamo io e Fabio, per scoprire, con mano sacrilega, che dietro la maschera del vecchio alchimista non c’è nessuno?
Capito lo stato di prostrazione in cui versa Paracelso decidiamo di congedarci e Fabio, cosciente del fatto che lasciare i soldi equivarrebbe a fare un’elemosina, li riprende.
Il padrone di casa, scortandoci ai piedi della scala, ci assicura che da lui saremo sempre i benvenuti.
Malgrado sappiamo che un’altra visita non sia ipotizzabile, auspichiamo comunque avvenga.
Il sapiente, dopo la nostra uscita, rimane solo. Prima di spegnere la lanterna e sedersi nella consumata poltrona, raccoglie nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e pronuncia, a bassa voce, una parola.
Dopo un po’, la rosa risorge.
Il risveglio e l’abbandono di quello splendido sogno, che avviene successivamente alla lettura de ‘La Rosa di Paracelso’ di Jorge Luis Borges, mi lascia un po’ di amaro in bocca, perché imbattersi, seppur oniricamente, il più grande alchimista di tutti i tempi rappresenta un’esperienza ragguardevole.
Il racconto fa pensare che l’autore, appassionato di Cabbala, abbia letto molti testi specifici sull’argomento, tra cui quelli di Raimondo Lullo, Gershom Scholem, Gustav Meyrink e dello stesso Paracelso. E fa riflettere su quell’espediente che permette a chi si accosta ai suoi scritti di capire, tra le righe, ciò che, indirettamente, intende svelare.
La narrazione ha evidenti tonalità esoteriche e termina con un approccio che può sembrare paradossale, ma non lo è. Un finale suggestivo, che allude ad uno strumento essenziale delle pratiche esoteriche, quel linguaggio emblematico che, includendo parole, metafore ed immagini, caratterizza un ermetismo cosmologico che si occupa dei Piccoli Misteri.
Il testo offre una moltitudine di spunti interpretativi.
Il rifiuto di Paracelso di mostrare i suoi poteri evidenzia che nella vita ciò che importa è la fede, intesa come fiducia negli altri e in sé, dotata di quella forza che smuove le montagne.
Borges intriga molto il lettore perché ricorda che, nella dimensione esoterica, la conoscenza o verità mistica, può essere sperimentata solo in prima persona e non può essere trasmessa se non sotto forma indiretta. L’aspirante discepolo non è in grado di superare la prova finché non riesce a comprendere il linguaggio allusivo del maestro, che consente di accettare, in assenza di parole che possono comunicare l’essenza indescrivibile delle cose, la realtà come sistema di simboli da decifrare.
Per l’intellettuale argentino, la Cabbala contiene due elementi di rilevante importanza: il primo riguarda la teoria del linguaggio come fonte ontologica preliminare dell’universo, il secondo attiene la scrittura allegorica come strumento alternativo al silenzio del mistico.
Come dichiara in un’intervista, oltre a pensare che nel linguaggio dei mistici i vocaboli presuppongano un’esperienza condivisa, ritiene si riferiscano a vissuti intimi che possono essere suggeriti solamente attraverso metafore, quelle che appunto pronuncia Paracelso e che chiariscono, indirettamente, il motivo per il quale si rifiuta di far risorgere la rosa in presenza di spettatori.
L’alchimista non fornisce la prova del suo potere, non dà luogo ad una comunicazione diretta, uguale a quelle che la scienza condivide e non mette in atto ciò che non si conforma con la trasmissione indiretta; se il maestro, infatti, mostrasse palesemente le sue facoltà, il discepolo smetterebbe di sforzarsi e non cercherebbe l’essenza nascosta delle cose.
Il viaggio, anziché essere un cammino necessario ma privo d’importanza, deve essere recepito come un percorso di miglioramento atto al raggiungimento, indipendentemente dagli obiettivi materiali che man mano si realizzano, di livelli di consapevolezza e di verità sempre più alti; gradini della scala di Giacobbe, che possono essere raggiunti solo mediante intransigenza, abnegazione e dedizione, che conducono a quel perfezionamento individuale che occorre desiderare con forza perché la vita sia degna di essere vissuta da un itinerario non affrettato e concluso con un arrivo prematuro.
La vera opera d’arte non consiste nell’oggetto, bensì nell’intensità che permette al suo creatore di procedere nell’ascesa dell’essere.
La meta finale, pur sembrando reale, è apparente, poiché fornisce le motivazioni e gli stimoli necessari per percorrere la strada che porta a conoscere ed apprendere durante il tragitto, il luogo in cui l’uomo dipana la matassa delle sue esperienze per archiviarle e rielaborarle.
Un punto di arrivo che, oltre a essere percepito come sapienza, solo con il tempo e la pazienza, evidenzia la sovrapposizione tra due prospettive differenti ed inconciliabili: quella del discepolo, che, corrispondendo a quella di ogni essere umano, è limitata al raggio delle proprie scelte ed è univoca; quella dell’ermetismo, in generale, e del maestro, in particolare, che, per diffondere la dottrina esoterica, utilizza un simbolismo idoneo e una terminologia criptica che giunge dove la realtà relativa non sa e non può arrivare.
Tutto questo consente all’iniziato di mettere in atto operazioni capaci di reintegrarlo con il Principio Primo, l’Uno da cui tutto discende e verso cui tutto tende. Una speculazione che affronta il tema dell’anima umana che assume quei vizi e quelle passioni da cui si libera con la morte metaforica del corpo, che la purifica e le consente di compiere il percorso iniziatico che conduce a Dio.
Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra.
Jorge Luis Borges
Autore Domenico Esposito
Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.