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Pulcinella, Fabio Da’ath e l’Antico Egitto

Pulcinella


Pulcinella – Buongiorno cari amici che leggete. Ogni esperienza, per quanto difficile da accettare e da vivere, non permette all’individuo di negare che qualsiasi cimento personale o collettivo porti con sé qualcosa che influenza chi riesce a penetrare nella parte più vera di se stesso e inducendovi un reale cambiamento.

Tantissimi insegnamenti tradizionali sono atti a fornire chiare ed epigrafiche linee guida inerenti alla strada da seguire e al modo in cui farlo. Sia la spiritualità che l’esoterismo sono da ritenersi consapevolezza che è personale, non delegabile e nemmeno realizzabile conformandosi pedissequamente e meccanicamente ad una qualsiasi dottrina o tradizione seppur si condivida appieno.

A tal proposito, vorrei parlarvi oggi, rifuggendo da scorciatoie o risposte definitive, di un’antica e profonda tradizione che affascina tanti studiosi di esoterismo.

Sperando di non annoiarvi, per approfondirne le conoscenze, stavolta vi racconto dell’Antico Egitto, giacché ogni volta che passo da piazzetta Nilo e dal largo Corpo di Napoli, la statua del Dio Nilo e l’aria che si respira, mi rammentano la comunità alessandrina partenopea. Cari miei, facendomi aiutare dall’amico Fabio Da’Ath, oggi mi occupo dell’Antica Tradizione Egizia.

La piazzetta denominata largo Corpo di Napoli è colma di lasciti esoterici e sapienziali, provenienti dall’antico Egitto. Passando nei pressi della divinità fluviale si percepisce, a vista d’occhio, che l’aria è colma di un consistente Pensiero Ermetico sviluppato dal nostro amato Principe Raimondo di Sangro.

Credetemi, quando sono nelle vicinanze della statua del Dio Nilo, nonostante vi sia tanta gente che schiamazza per strada, mi appare la figura di un ragazzo dall’aspetto nobile che accosta l’indice della mano tra la bocca e il naso, come per esortarmi a tacere. Mi emoziona osservare il figlio d’Iside e Osiride, questo gracile giovanotto, che m’invita a quel silenzio Iniziatico richiesto agli adepti dei Sacri Misteri e mi fa trasmigrare dal mondo fisico a quello etereo del silenzio.

L’Antico Egitto ha dato i natali a quella Tradizione Ermetica che annovera tra i suoi figli Phat, il grandissimo saggio, l’iniziato alle segrete scienze dell’Etiopia, della Persia e dell’India. Il grandioso savio che i connazionali chiamano anche Thot, mentre per i Fenici è Taut, per i rabbini Adris e per i Greci è il tre volte grande Ermete Trismegisto.

Si dice che Thot sia provvisto di molte qualità e di tante conoscenze scientifiche e artistiche, donategli da Dio affinché istruisse il mondo.
Si ritiene che inventi la musica, la medicina, l’aritmetica oltre che diverse cose utili, che insegni l’arte dello scrivere ciò che la mente pensa, che istituisca sia l’uso dei geroglifici che le cerimonie da tenersi per il culto degli Dei. È conosciuto anche con il nome di Hermes, l’interprete, giacché insegna ai greci come intendere nozioni e parole.

L’interconnessione esistente tra l’antico popolo egizio e quello greco è manifestata da un uomo dalla consistente dimensione interiore e spirituale, erede naturale e diretto di Ermete Trismegisto, ossia Orfeo, che, pur essendo un filosofo tracio, iniziato alla teologia e alla fisica egiziana, ne importa in Grecia le allegorie.

Anche il grande Pitagora ama la filosofia, intesa come amore per la conoscenza, e visita il Paese africano alla ricerca della sapienza filosofica ed esoterica. Si pensa che egli impari le scienze matematiche da egizi, fenici e caldei. Sembra, inoltre, che sia così affascinato dai sacerdoti egizi, che per acquisirne segreti e culti, accetti la circoncisione, discenda nel profondo del santuario e in quel luogo apprenda, per rivelazione, le scienze occulte.

Personalmente, credo che ammiri gli antichi egizi perché si rende conto che i loro sacerdoti enucleano un’affascinante teoria sull’immortalità dell’anima, secondo la quale il processo di trasmigrazione termina in un arco temporale di tremila anni, periodo in cui si immagina che quando il corpo fisico si dissolva, l’anima entri, di volta in volta, in differenti sembianze animali per poi ritornare, al termine del ciclo, in quelle umane.

Si trovano analogie tra il concetto d’immortalità dell’anima degli antichi egizi e la metempsicosi pitagorica, poiché la sostanziale differenza sembra essere rappresentata dalla durata del processo. La metempsicosi di cui parla Pitagora consiste nel trasferimento dell’anima da un corpo all’altro, finché la stessa non si liberi da ogni vincolo con la materia. Alla luce delle considerevoli affinità e di una non molto consistente discrepanza tra le due teorie, ritengo che la metempsicosi pitagorica possa essere figlia dell’immortalità dell’anima egizia.

L’Antica Tradizione Egizia, affascina anche perché rivela conoscenze cosmologiche e misteriche molto profonde. Le stesse conoscenze che manifesta un uomo dalle spiccate attitudini e qualità personali, oltre che dalla profonda saggezza, implementata dall’iniziazione alle scienze misteriche dell’India, della Persia e dell’Etiopia. Sì, amici miei, parlo di Thot, del Dio della Sapienza, di una delle divinità che, secondo alcuni, funge da scriba di Osiride, mentre invece, per l’intero popolo egizio crea il mondo.

Ritengo che la dottrina egizia relativa alla Morale e all’Equilibrio Cosmico debba essere considerata una linea guida meritevole sia di ampie riflessioni che di meditazioni e concordo con l’antico popolo egizio su fatto che, per conquistare l’immortalità, l’uomo debba integrarsi nell’eterno divenire.

Amici miei, credo sia opportuno riflettere sui riti e sulle formule divinizzanti adottate dall’Antica Tradizione Egizia per poter giungere allo stato di divino nell’umano, al tanto desiderato corpo di gloria. Sì, sostengo che comprendendo appieno la simbologia di questa eccelsa tradizione si riesca a penetrare nel substrato metafisico che conduce al mondo delle arcane verità.

Riflettete, nonostante le mie parole sembrino allucinazioni partorite dalla mente vaneggiante di un fervido cristiano, non penso di essere l’unico a far riferimento all’Egitto magico religioso. Quando parlo del Duat egizio, non penso ad un luogo lontano e a noi estraneo, bensì a quella condizione psichica dello stato dell’essere terreno, ossia, la terra interiore.

Cari amici, che posso dire del Duat? Del rapporto tra il mondo dei morti e quello dei vivi? Argomento vasto, che provo a sintetizzare. Per costruire le tombe, ritenute dimore di Dio e case dell’eternità in cui, per questo, portano cibo e bevande, gli egizi utilizzano le pietre. Essi parlano e scrivono lettere ai defunti, che, a loro volta, sono giudicati dal tribunale di Osiride e da lui, dopo aver pronunciato la dichiarazione d’innocenza o colpevolezza, sono liberati dal male mediante la completa cancellazione dei peccati.

Se potete, visitate le tombe dei dignitari egizi perché solo così riuscirete a vedere numerose rappresentazioni dell’Inferno e dei malvagi, rei di essersi adoperati in modo cattivo nei confronti degli dèi in generale e di Ra o Osiride, in particolare. L’Inferno egizio è associato con il Principio del disordine, ovvero, con il Kaos e con l’oceano primordiale, con il Nun e, in esso, è visibile quel fuoco che emettono i serpenti per punire ed eliminare i crudeli.

L’antico popolo egizio sostiene che l’uomo, con le scelte personali, crei le cause cui corrispondono gli effetti, in altre parole, le azioni che concretano la rottura dell’Armonia. Rappresenta come esseri splendenti, i defunti dal cuore puro, coloro che in vita perseguono l’armonia reale con l’ordine cosmico statuito da Maat, la bellissima figlia di Ra. Associa tali defunti al riverbero del sole, alla luce delle stelle e li raffigura mentre mangiano, vanno a caccia, lavorano nei campi, giocano e ascoltano musica.

Inoltre, immagina che in quel Paradiso ritenuto continuazione della vita mitizzata, vada chi inizi il cammino muovendo la gamba sinistra, quella del cuore, chi nel cammino si lasci motivare dal cuore, chi è conscio che stia percorrendo la buona strada, ossia, quella del muscolo cardiaco.

Gli antichi egizi, per un lungo periodo, immaginano che i morti si dividano in beati e dannati, ovvero in chi, nel corso della vita, persegue sia il principio etico che quello morale, e in chi, invece, causa la rottura dell’Armonia. Mediante uno scritto, in lingua demotico-ieratica, ossia, il «viaggio nell’aldilà di Si-Osiris» del I secolo a. C., si assiste all’introduzione di una sorta di Purgatorio Egizio, dove le buone e le cattive azioni si equivalgono.

Questa sorta di Purgatorio è immaginata come un Lago sorvegliato da quattro cinocefali, ai quali si rivolge il defunto affinché, mediante il fuoco, possa essere purificato delle colpe e dei peccati che in vita mette in opera. Gli antichi egizi prevedono un altro Lago di Fuoco, quello il cui il cuore di chi non supera positivamente il verdetto osiriaco, ovvero, la pesatura del muscolo cardiaco, è dato in pasto alla dea Ammit, “colei che ingoia il defunto”.

Nonostante in merito alle teorie sull’oltretomba sia difficile capire chi influenzi chi, sembra ragionevole pensare che l’escatologia egizia oltre ad essere la più antica, sia anche alla base delle altre. Allo stesso modo è plausibile credere che Dante conosca sia direttamente il Libro della Scala, sia indirettamente la stessa escatologia egizia, tant’è che nella sua Divina Commedia si ritrovano diverse analogie con l’oltretomba egizio.

Il suo Inferno, in tal modo, rappresenterebbe il mondo profano, un luogo di punizione in cui si affliggono tormenti e torture, tra le fiamme emanate da demoni, ai trasgressori dei Comandamenti divini. Il Paradiso, invece, oltre che essere la residenza degli illuminati, ossia la dimora di chi prosegue il cammino della vita idealizzata, sembra manifestare pienamente una chiave di lettura che spinge il lettore dell’opera a riflettere sull’amore divino che “move il sole e l’altre stelle”.

Il terzo regno è quel Purgatorio che si concreta nel periodo medioevale e che è ritenuto uno dei tre regni dell’oltretomba, ossia il luogo che, assieme agli altri due, simbolizza il viaggio interiore che, partendo dal peccato, giunge alla salvezza. Il Purgatorio si differenzia dagli altri dell’oltretomba, giacché è comunemente visto come il luogo destinato all’espiazione transitoria delle anime dal destino incerto.

Il Purgatorio immaginato dal Sommo Vate sembra essere un posto adibito ad ospitare le anime degli individui che hanno bisogno di essere purificati prima di entrare nel Regno dei Cieli. Un regno destinato sia alle anime dei “non valde mali” che a quelle dei “non valde boni”, ovvero sia per chi non è veramente malvagio, né tantomeno perfetto.

La differenza tra il Purgatorio dantesco e quello descritto nel Libro dei Morti sembra consistere nelle loro caratteristiche geografiche e strutturali.
Il primo è rappresentato come un monte, circondato dal mare, suddiviso in sette cornici più antipurgatorio e Paradiso Terrestre, il secondo è caratterizzato da un Lago di Fuoco, sorvegliato da quattro cinocefali a cui si rivolgono i defunti per attraversare le fiamme ed essere purificati dei peccati. Quello descritto nel Papiro di Ani, lo scriba egiziano, oltre ad essere un luogo dove le anime dei defunti vagano disperatamente, è profondo, buio e sprovvisto sia d’acqua che d’aria.

Signori miei, l’Opera di Dante, alla stessa stregua di quelle dell’Antica Tradizione Egizia, cela, tra le righe, concetti iniziatici e metafisici molto profondi, i quali, oltre ad essere splendidamente coperti con un velo, che solo in pochi cercano di attraversare, conservano, nella loro essenza e intatto nel tempo, quel carattere puramente esoterico che mai sfocia nell’eresia.

O voi che avete gl’intelletti sani, Mirate la dottrina che s’asconde Sotto il velame detti versi strani!
Dante – Divina Commedia – Inferno, IX, 61 – 63 

Anche per quanto riguarda l’alchimia, l’Antica Tradizione Egizia merita un’accurata analisi e un’attenta riflessione. Le scienze alchemiche affondano le origini nella culla dell’alchimia, l’Antico Egitto appunto.
La leggenda vuole che il fondatore dell’alchimia sia il dio Thot, ovvero, l’ellenico Ermes che in molti definiscono il “tre volte grandissimo”. Diversi studiosi di egittologia ritengono, che Ermes di Misr (Cairo), quello dell’epoca postdiluviana, lasci ai posteri un rilevante trattato alchemico.

Gli stessi sostengono che l’alchimista egizio d’epoca romana, Zosimo di Panopoli, sia un importante interprete delle scienze alchemiche e che firmi le proprie opere. Autore, tra le altre, del Corpus alchemico ‘Degli apparecchi e delle fornaci’, riconosce alle spoglie di Osiride poteri sovrannaturali molto consistenti e definisce “osidirificazione” il processo alchemico di rinascita e rigenerazione.

L’Antica Tradizione Egizia riveste un ruolo importante nello sviluppo e nella divulgazione dell’alchimia, sia perché Zosimo lascia diversi scritti inerenti alla scienza magica, sia per altri consistenti motivi. A partire dal mito di Osiride, che grazie alla nascita, morte, discesa nell’oltretomba, putrefazione e rinascita, simbolizza l’aspetto ciclico della natura. In altre parole è specchio della creazione fisica, con annessi cicli di divenire e ritornare, ma anche della realizzazione di un consistente processo alchemico.

Molti definiscono «Stato di Pietra» l’antico Egitto, dato che la «Pietra Filosofale» riveste un ruolo preminente nelle scienze alchemiche, e ritengono che l’Antica Tradizione Egizia discenda direttamente o indirettamente da quella Primordiale.

Signori miei, pur comprendendo i vostri dubbi e le vostre riflessioni, desidero manifestare il mio pensiero in merito all’aspetto mitologico delle antiche dottrine esoteriche. Penso che, nonostante le leggende mitizzino la sostanza delle cose, si possa ipotizzare che le favole antiche e le relative simbologie, più sembrino mitiche e più siano significative per le religioni.

Cari miei, credo che le favole antiche siano frutto del genio popolare primitivo e che contengano spesso una consistente morale. Il genere umano, spinto dall’insita natura divina, immagina e crea una tradizione leggendaria e una mitologia pregna di eroi, dei e titani.

A questo punto, in merito all’Antica Tradizione Egizia, preferisco confrontarmi con il caro discepolo di Giuliano Kremmerz, l’amico Fabio, Diletto amico mio, cosa pensa dell’Antica Tradizione Egizia e di queste mie ultime e supposte digressioni?

Fabio – Caro amico, le rispondo partendo dall’assunto che la creazione del Mondo debba essere considerata un’emanazione del Verbo. Alla parola si deve riconoscere la funzione creatrice e, in particolar modo, ogni azione va vista come la naturale conseguenza di una precisa volontà della parola stessa.

I teologi di Menfi, città dell’antico Egitto, nel periodo che va dal 4000 al 300 a.C., attribuiscono alla parola la creazione del Mondo. Ritengono che, sia essa scritta che parlata, abbia poteri magici e sacri.
Gli antichi egizi denominano la loro lingua Metu Neter, che significa parola del Neter, ossia, di Dio e da qui “Parole Divine”. Essendo, ogni parola considerata divina, quando nei templi si pronunci o scriva in modo rituale, questa, come d’incanto, diviene operativa.

Gli antichi egizi, mediante i geroglifici, descrivono e vivificano gli oggetti, dato che ritengono che il mondo sensibile sia lo strumento donatogli da Ptah, ossia, il Dio della creazione, affinché comprendano e poi ascendano al mondo degli Dei. Quest’antico popolo, convinto che la vita continui dopo la morte e che l’anima necessiti di essere nutrita, usa deporre nelle tombe cibi e bevande per garantire al defunto la sopravvivenza nell’aldilà.

Poiché tale cibo è considerato insufficiente, giacché suscettibile a deperimento e a repentino esaurimento, essi, lasciano nel luogo funebre anche oggetti con una funzione magica come steli funerarie, con annesse formule magiche, e tavole d’offerta raffigurati diversi tipi di cibo.
Inoltre, credendo che, dopo la morte, la salma si rivitalizzi e riacquisti tutte le funzioni fisiche, scolpiscono o dipingono sulle pareti scene di vita atte a produrre alimenti per la sopravvivenza del defunto.

Il cibo inciso sulla pietra tombale diviene appunto un’offerta regale utilizzabile dal deceduto durante il percorso che lo conduce all’aldilà per evitare che questi, preso dalla fame, sia costretto a cibarsi della propria materia fecale.

Fin dalle origini, l’intera storia dell’Antico Egitto, vede al centro della vita quotidiana fondamentali dottrine magico – religiose; la religione è di stampo sia utilitaristico che trascendentale e legata in modo stretto alla magia.
Il connubio tra le scienze mediche e la Magia è da intendersi come conoscenza superiore della natura, dunque molto consistente, e la Medicina è inscindibile dalla Religione.

Per quanto riguarda il rapporto tra il mondo della medicina e quello della magia, vorrei precisare che ci sono studiosi che le considerano due aspetti di un’unica scienza, mentre altri, oltre a far derivare le scienze mediche da quelle magiche, affermano che il medico e il mago collaborino per realizzare un equilibrio tra il relativo e l’assoluto, tra il possibile e l’impossibile.

I sacerdoti dell’Antico Egitto studiano le scienze magiche e attingono i saperi che si fondano su principi intercosmici da popoli ancora più antichi. Apprendono e perseguono le antiche tradizioni ierofantiche, le conoscenze cosmiche, i segreti della Magia, gli insegnamenti della Taumaturgia e poi le insegnano ai loro allievi nelle «Case della Vita». I sacerdoti svolgono azioni definibili coercitive, giacché, mediante specifiche formule magiche, riescono ad influenzare le forze naturali e a determinare un influsso sugli dei.

Utilizzando specifiche formule magiche nella realizzazione dei preparati medici e nel corso dei trattamenti curativi, evidenziano l’importanza della parola. Un esempio di applicazione teurgica della stessa parola, scritta e parlata, è rappresentato dall’uso di alcuni tipi di statuette ritenute magiche. Quella di Ghedor, infatti, regge una coppa incisa con formule magiche atte a trasmettere all’acqua quei poteri occulti capaci di guarire ogni male fisico e spirituale dell’infermo che la beve.

Le parole magiche, le formule e gli incantesimi dell’Antico Egitto derivano dai Decreti Oracolari, ossia da quei decreti concepiti dalle divinità per proteggere prima lo spirito e poi il corpo dell’uomo.

In merito allo spirito, secondo l’antica cultura egizia, l’uomo spirituale è composto di quattro elementi fondamentali di cui bisogna aver cura:

– il Bà, la sfera individuale, la personalità, lo spirito intelligente, il doppio spirituale. Raffigurato come un uccello dalla testa umana, volge le funzioni di angelo custode e resta costantemente accanto all’uomo anche nel momento del trapasso;
– il Kà, l’elemento di potenza vitale, il patrimonio genetico spirituale, il luogo, dove risiedono i ricordi e i sentimenti. È rappresentato dal segno geroglifico di due braccia aperte e alzate a simboleggiare la natura divina della sua essenza. Appartiene alle potenze divine, resta con il corpo del defunto e lo custodisce nella tomba;
– l’Hekau, personifica il potere della magia, l’energia vitale che, canalizzata e indirizzata, permette d’interagire con il mondo divino ma anche d’influire su di esso;
– la Shuet o Sheut rappresenta l’ombra. È l’emanazione delle emozioni e delle azioni negative. Accompagna l’uomo dopo la morte. Raffigura il ponte che conduce alla consapevolezza del male fatto durante la vita mortale.

L’antico popolo egizio è affascinato dal mistero della morte, tant’è che organizza la vita sociale, politica e religiosa in funzione di questo arcano, nel tentativo di dominarlo. Ritiene, infatti, che, grazie ad un magico rituale funebre, il defunto scenda nell’Ament, il Regno dei morti, e lì si presenti con anima, corpo e spirito, di fronte all’inquietante Anubi, il Dio dell’Oltretomba.

L’antico popolo egizio tende ad “identificarsi” ritualmente sia con Osiride, sia con ciò che il suo culto e la sua leggenda insegnano. Amico mio, per aiutarla a comprendere l’importanza che questa divinità e il suo culto rivestono in tale cultura, le narro la leggenda di Osiride, esortandola, però, ad analizzarla dal punto di vista anagogico.

In un periodo imprecisato, non conosciuto e nemmeno immaginario, NUT e GEB, rispettivamente il cielo e la terra, unendosi procreano quattro figli: Osiride, Set, Iside e Nefti. Rà, il dio sole di Eliopoli, stabilisce che Osiride divenga faraone e Iside, moglie del re. La gloria attribuita a Osiride, provoca la gelosia del fratello Seth, l’ardente Dio della guerra, divinità capace d’imprigionare il fuoco sulla terra. Seth, raffigurato come uno scorpione, durante l’assenza del fratello, partito per portare le sue conoscenze in terre lontane, pur desiderandolo, non può creare disordini, giacché Iside veglia sul regno.

Si narra che il diciassette del mese di Athyr, giorno in cui il sole attraversa lo scorpione, nel ventottesimo anno di Osiride, questi, durante un banchetto per celebrare il suo ritorno a casa, sia vittima di un tranello da parte di Seth, complici Etipia e settantadue congiurati. Durante i festeggiamenti, Seth mostra a tutti un sarcofago riccamente decorato, promettendo di farne dono a chiunque riesca ad adattarsi alle sue dimensioni. In molti provano a entrarvi, ma nessuno riesce, poiché è stato realizzato appositamente per Osiride, e non appena lui vi si adagia, i servi del fratello, prontamente, sigillano il contenitore con chiodi e piombo fuso, e lo gettano nel Nilo perché giunga in mare aperto.

Iside, appresa la sorte del marito, indossa una veste consona al lutto e, innalzando al cielo il suo lamento, lo cerca in ogni luogo. Informata da Thot, scopre che Osiride, giacendo con Nefti, la moglie di Seth, scambiata erroneamente per l’amata sposa, ha con lui genera un figlio, Anubi, ossia In-Put, il protettore delle tombe.

Dopo lunghe e faticose ricerche apprende che la bara, sospinta dalle onde del mare, è giunta presso la costa di Byblos, l’attuale Libia, completamente avvolta dalle radici di una pianta, il cui abbraccio ne nasconde la vista. Senza svelare la sua identità, Iside si reca sul luogo, si mette al servizio delle serve della regina e le istruisce su come s’intrecciano i capelli. Risveglia il figlio della regina, in precedenza avvelenato da un morso di scorpione, e, oltre a rivelarle la sua identità, rivendica il feretro avvolto dalla pianta. La regina, forse mossa dalla gratitudine, glielo concede così che Iside possa tornare in Egitto con il corpo del marito.

Seth, adirato, cerca la cassa, e, trovatala in una notte di pallido plenilunio, taglia il corpo di Osiride in quattordici pezzi, disseminandoli per tutto l’Egitto. Iside, a bordo di una barca di Papiro, riesce a ritrovarne solo tredici, mentre il quattordicesimo, il fallo, è stato divorato da un pesce del Nilo.

È lei stessa a ricomporre il marito e a costruire con le sue mani un simulacro del fallo, utilizzando il limo del fiume. Aiutata dalla sorella, rimane con i resti ricomposti di Osiride e, osservando assiduamente il suo corpo, grazie all’amore manifestato dai suoi occhi, concepisce Horus.

Diventato adulto, Horus decide di vendicare l’assassinio del padre e, dopo ottant’anni di battaglia la guerra termina con la vittoria del nipote sullo zio. Seth confessa di aver usurpato il trono immeritatamente e riconosce, in Horus, il legittimo erede. Viene quindi condannato a tuonare per sempre, nei cieli la sua rabbia, mentre il giovane Horus, eroe umano, riceve il titolo di erede del re risorto.

Caro Pulcinella, associandomi al pensiero del mio maestro, Giuliano Kremmerz, penso che Osiride si manifesti tramite il figlio, giacché impossibilitato a farlo nella propria e vera natura sinché non si sacrifichi alla furia del fratello. L’evidente impossibilità di mostrarsi e il necessario sacrificio, per mano di Seth, simbolizzano pienamente la morte iniziatica di Osiride. Come si potrebbe contraddire chi ritiene che giacché “l’anima si tempri nella lotta”, Horus non possa essere considerato erede del regno, fin quando non si concluda la battaglia contro il carnefice di suo padre?

Analizzando attentamente i rituali funerari, si comprende ciò che gli antichi egizi pongono in essere, affinché si riesca ad immaginare in che modo l’anima compie il viaggio attraverso le peripezie della Duat. Nello studio dell’Antica Tradizione Egizia e del mito di Osiride, deve tener conto di come l’individuo muoia, sia smembrato e riposto nei vasi, in che maniera risorga e in che modo sia dichiarato vendicato / giustificato. Il rituale funerario dell’antico Egitto fa riferimento alle tre fasi dell’opera, ossia, la morte, la resurrezione e, infine, la glorificazione.

Esimio Pulcinella, cari lettori, vi riporto un’interessante e credo affascinante formula ripresa da quelli che sono comunemente definiti Testi delle Piramidi. La n° 669-571 del 2300 a.C.

Guardate, egli esiste; guardate, egli è riunito;
guardate, egli ha rotto il suo uovo!
Il re sfugge il suo giorno di morte
e non morirà a causa di alcuno,
poiché egli è una stella imperitura.

Dopo tante informazioni, sperando che non si sia annoiato, desidero tentare di svelarle come pronunciare potentemente, e in modo magico, sia le frasi che le parole, giacché, così facendo, s’impregnino in maniera astrale della volontà dell’individuo. Vede, il mio Maestro insegna che pronunciandole in maniera magica, diventino attive, cariche di magnetismo irraggiante e vibrino sui piani sottili occulti.

Caro Pulcinella, osservando i suoi occhi, nonostante siano intrappolati dalla maschera, percepisco lecite perplessità e suppongo si stia chiedendo quale sia la parola “potente”. Studiando gli insegnamenti del mio Maestro, credo che essa non debba essere pronunciata distrattamente, né quella esternata con poca convinzione e nemmeno quella caratterizzata dallo scetticismo.

La parola, qualora espressa con profonda sicurezza, radicata concentrazione e ferma volontà, per potenza ed effetti produce una consistente vibrazione astrale. Pur pregna di vibrazioni astrali, non può essere considerata completamente magica fin quanto non divenga utero-isiaco della volontà osiridea, finché non scaturisca dal piano delle cause assolute.

Qualsiasi concetto o pensiero è attinto come “seme” dell’Idea identificabile in termini assoluti, nonostante comprenda parole che sembrano caratterizzate da una forma relativa. Nonostante i termini male, bene, odio, egoismo, felicità, ingiustizia, appaiano caratterizzati da una forma relativa, sono, invece, ideati da una coscienza che attinge esperienza conoscitiva da una matrice infinita.

Recito una preghiera a me cara, un’invocazione che si usa rivolgere a Iside durante la magia cerimoniale:

“Benedetta, ISIDE, madre celeste, nutrici, abbi cura di noi e confortaci quando siamo afflitti. Aiutaci a ritrovare le parti disperse delle nostre personalità spirituali come hai cercato e ritrovato le membra disperse del tuo sposo divini. Consolaci quando siamo angosciati e allontana le nostre lacrime con la magica forza del tuo amore divino”.

Riporto, inoltre, una delle formule che gli antichi egizi iscrivono sul sarcofago del defunto per consentirgli di uscire e rientrare nella sua dimora quando desidera e senza impedimenti, dal Libro dei Morti Egizi, Capitolo II. Titolo: Formula per uscire al giorno e per vivere dopo la morte.

“A dirsi dall’Osiride N giustificato: O Unico, splendente dalla Luna? Possa io uscire tra la moltitudine tua. Possa io manifestarmi tra i glorificati e che la Duat sia schiusa a me poiché‚ l’Osiride giustificato ecc., esce al giorno per compiere quel che mi piace sulla terra tra i viventi”.

Concludo dicendole che, nell’Antico Egitto, la Morte è vista come un mutamento di stato, come il passaggio dalla condizione primitiva ad una successiva. Una condizione in cui, alla chiusura nel sarcofago, la mummia, inizia a vivere accanto al suo doppio, l’anima. Una condizione in cui le immagini, le parole, i geroglifici e le statue, espletano il loro compito, la parola «luce» diventa sole o fiamma illuminante e a un cenno volitivo della mummia ogni cosa si anima.

Pulcinella – Caro Fabio, i temi della leggenda o mito, che dir si voglia, di Osiride e Iside credo che siano diversi. Penso che in particolare si possa evidenziare che:
– Osiride e Seth indicano la conciliazione degli opposti. Si contrappongono e si completano a vicenda giacché il primo rappresenta l’Equilibrio Universale e il secondo il Caos;
– l’importanza del principio femminile come elemento di protezione e maternità, incarnato da Iside;
– l’apparizione della prima triade divina: Osiride, Iside e Horus.

Dovendo scegliere tra questi temi, bisogna citare Osiride giacché merita sicuramente un discorso a parte in quanto, oltre a simboleggiare il Signore di ogni cosa, il civilizzatore, la divinità che personifica l’evoluzione dello spirito, riproduce, appieno, la ciclicità della natura e l’equilibrio del mondo.

Osiride è generalmente raffigurato sia con il viso color nero, quando indica la morte, che con quello verde, quando si riferisce al rinnovamento e alla risurrezione. Le due rappresentazioni, pur sembrando in dicotomia tra loro, non lo sono, giacché ambedue i colori contribuiscono ad un fine comune. Infatti, il nero, paragonabile alla putrefazione del grano nel buio della terra, e il verde, assimilabile alla risurrezione del grano, formano un insieme che riproduce appieno il ciclo “vita – morte – resurrezione”.

Caro Fabio, la ringrazio per i concetti espressi con dovizia di particolari. Ascoltando e riflettendo sulle sue parole arriviamo alla conclusione che la magia egizia ingloba conoscenze della metafisica e delle sue applicazioni, sia per scopi pratici che religiosi. In altre parole, la magia permea completamente la vita quotidiana del popolo egizio.

Cari lettori, prima di salutarvi, vi ribadisco come l’Antica Tradizione Egizia sia foriera di un insegnamento profondo, incancellabile, immortale, al di fuori del tempo, dello spazio, un indottrinamento figlio dell’Insegnamento Universale.

Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.

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