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Pulcinella, Fabio Da’ath e il dialogo immaginario con Umberto Leonetti

Pulcinella


Stamani cerco telefonicamente Fabio Da’ath, sia per vederlo che per parlargli, perché ho bisogno del suo aiuto per capire meglio la mia essenza, la sua essenza e quella di Umberto Leonetti, artista – mago, alchimista, ermetista napoletano contemporaneo, che, mediante i suoi dipinti, cerca di trasformare la materia vile in opera immortale.

Come direbbe un famoso e straordinario cantante, questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine che causano un rapimento mistico e sensuale che ci imprigiona a quel percorso che ci conduce in prossimità del Divino.

Anch’io, come il cantautore, anziché accontentarmi di piccole gioie quotidiane, dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri e fare come quell’eremita che avvantaggia il Sé, perché preferisce la via mistica a quella materiale.

Nell’asceta vedo le mie radici e le mie aspettative. Mi intrigano la sua scelta di vita, i suoi pensieri e le sue parole. Mi affascina il suo percorso, poiché, come afferma Khalil Gibran, oltre ad essere un viaggiatore, è un navigatore che, ogni giorno, scopre una regione nuova della sua anima.

Mi interessa l’archetipo del “Viandante” perché rappresenta l’individuo lacerato dalla necessità di scegliere tra un’esistenza convenzionale, che soddisfa il bisogno di normalità, che lo spinge ad obbedire alle regole collettive che caratterizzano il mondo materiale, e una alchemica e, fermamente convinto della seconda, decide di vivere la sua trasmutazione. La sua figura, oltre ad essere un topos della tradizione letteraria, è un paradigma di quella esoterica.

Mi attira anche l’ombra, poiché essa, quando si rende conto del perdurare dei miei silenzi, consentendomi di parlare, mi ascolta in mistico silenzio e, rispetto a me, tratta argomenti molto più intensi e saggi, suggerendomi di essere indulgente verso me stesso, perché questa è la strada che conduce al mutamento alchemico.

La mia ombra è in sintonia con me, ama ciò che amo io; la notte ama gli uomini perché sono seguaci della luce e, come me, si allieta quando osserva lo splendore dei loro occhi mentre conoscono e scoprono. Non è diversa dalle altre, infatti, come tutte le altre, quando su di sé cade il sole della conoscenza, anziché seguirmi, mi cammina accanto.

Oltre a prestare attenzione alla voce della mia ombra, alla stessa stregua dell’alchimista, mi interessa ascoltare il richiamo della mia anima, rendermi conto di quanto sia importante per me sentirle ripetere, con tono più tenue del mio, ciò che pronuncio io, udirla mentre mi consiglia e suggerisce il modo in cui comportarmi. Ascolto con grande interesse la mia anima, perché mi rammenta spesso di non adirarmi se le parole pronunciate da altri, suonano per me, in modo incomprensibile.

Nell’esaminare le opere di Umberto Leonetti mi accorgo che l’anima e l’ombra sono necessarie quanto la luce, che non sono sue avversarie, anzi, la tengono amorevolmente per mano e, quando il chiarore scompare, le scivolano dietro.

In esse si intravede un percorso in cui è vivo il concetto ermetico che trasforma in un unico insieme viaggio, viandante e destinazione. I quadri di questo artista – alchimista mostrano, inoltre, lo stimolo alla ricerca racchiuso nella figura del pellegrino, che non si ferma mai, conscio che non è importante la meta, bensì la bellezza del cammino e l’esperienza offerta dal percorso.

Sia io che Fabio, identificandoci nel modello ottimamente tracciato da Umberto, oltre a convenire che lo scopo dell’itinerario non consista nel desiderio di giungere a destinazione, comprendiamo che non è fondamentale il traguardo, ma ciò che si sperimenta lungo la strada. Pensiamo, che quando termina il tragitto, poiché il fine ultimo consiste nel giungere all’Immanente, al cospetto della Luce emanata dall’Uno, la tensione energetica, che normalmente sprigiona la ricerca, si spenga.

Umberto, mediante le sue opere, appare come un nomade munito di bisaccia che inizia il viaggio che simbolizza il percorso vero e complesso che l’artista realizza per giungere alla verità.

Una rotta definibile come un continuo divenire, materialmente assimilabile al trasferimento fisico che implica l’abbandono dei confini abituali e delle sicurezze della vita, causato dall’incessante spostamento da un luogo all’altro.

Una tappa che spinge l’artista a scalare i gradini della scala di Giacobbe, ad imbattersi in un’esplorazione conoscitiva che comporta il rifiuto di ogni tipo di dogmatismo, la rinuncia alle certezze consolidate dalla società e la ricerca di nuove intuizioni ermetico – pittoriche.

L’itinerario che si intravede nelle sue opere appare spesso come la ricerca di un contatto sia con gli abitanti degli altri mondi che con le ombre, poiché queste ultime sembrano avere il dono della profezia.

I suoi dipinti mettono in contatto il non-senso con il senso e rivelano che, quotidianamente, l’uomo è costretto a costatare che il primo contamina il secondo.

Immerso in queste considerazioni, decido di contattare Fabio, sia per analizzare il pensiero alchemico – ermetico dei quadri del maestro partenopeo, che per confrontarmi con lui sull’intensa personalità dell’artista.

Le mie dita, autonomamente, compongono il numero di cellulare di Fabio, giacché anche loro intendono capire se la sua pittura riesca a tradurre il suo consistente pensiero in forme e colori, e se egli sia in grado di fornire un’immagine che, quando le tenebre oscurano la via, chi ha occhi per guardare, possa comprendere e decodificare.

Fabio, ascoltato il mio invito al viaggio, immensamente felice per l’argomento che intendo trattare con lui, mi invita a raggiungerlo immediatamente.

Indosso il camicione, la “meza sola”, il “cuppolone” e mi dirigo verso l’amato terrazzo cenacolo.

Deciso di percorrere una stretta strada, nu vicariello: case sgarrupate, spurcate e stunacate tutt’ ‘e mure. For’ ‘e pputeche vólleno ‘e pignate, passano ‘e voce ‘e tutte ‘e venneture. E Mast’Errico, ‘nnanz’ ‘o bancariello, vatte na meza sola p’allunga’: e mentre ‘a ‘ncasa e ‘a stenne cu ‘o martiello, se mette dinto ‘e rrecchie cu ‘o ccanta’. ‘O sole, ‘e mosche e ‘o canto ‘e Mast’Errico: putite immagginà ched’è stu vico.

Abbandonando solo materialmente la strada stretta che amo sempre percorrere, visto che incarno le doti possedute dal popolo napoletano, giungo, felice, sotto casa di Fabio.

Avvicinandomi al citofono, sento una voce ferma ma gentile che mi dice:

Non bussare è aperto, ogni uscio vedendoti arrivare, con grande gioia, ti concede l’accesso.

Dopo l’iniziale sorpresa, comprendo che arriva proprio dal citofono e ne sono contento.

Salgo, saluto Fabio e gli chiedo il permesso di accomodarmi, poiché il desiderio di parlare del pittore è all’acme.

Ansioso, quanto me, d’iniziare la chiacchierata che riguarda uno dei suoi più cari maestri, abbozzando un lieve ma sentito sorriso, esordisce:

Caro amico mio, ho difficoltà a parlare del Maestro Umberto Leonetti, perché riconosco in lui parte di me, se non me stesso, nella piena interezza. È stato il mio primo vero Maestro o, per meglio dire, individuo in lui il mio vero e unico Maestro e lui credo intraveda in me il discepolo prediletto.

La sua non è semplice pittura, piuttosto una forma subliminale di alchimia “reale”, in altre parole, quel tipo di alchimia spirituale protesa al miglioramento individuale. Con la sua ispirazione artistica contribuisce ad affermare i valori sottili nel subconscio cui ogni anima dovrebbe tendere, fosse anche solo per vivere semplicemente l’esistenza nella sua interezza.

La sua arte deve essere concepita sia da un punto di vista “morale”, che anagogico.
Le sue tele vanno esaminate con l’ausilio di un sovrasenso tale da permettere di contemplarle nel giusto modo, lasciando spazio agli istinti che si liberano dal perineo, piuttosto che facendo prevalere il proprio Io. Per comprendere appieno i significati celati tra le forme, le linee e i colori dei suoi quadri, l’osservatore necessita di vivere una sorta di nigredo interiore.

La comprensione “reale” di ciò che Umberto trasferisce su tele, fogli di carta e supporti vari, richiede un’idonea trasformazione interiore, perché le energie che manifestano le sue opere sembrano essere caratterizzate dalle stesse pulsazioni vitali che fanno vibrare il Cosmo.

I suoi lavori, inoltre, inserendosi nel flusso della vita universale, hanno la capacità di consentire a chi li guarda di comprendere la catena dei rapporti esistenti tra le forze universali e l’uomo, nessi che, oltre a esserne parte integrante, rivestono un ruolo attivo.

L’osservazione e, di conseguenza, la comprensione delle sue opere, avvia un vero e propria trasmutazione, un consistente e significativo andamento ascensionale che va dal mondo sensibile all’estremo limite di quello intellegibile. Un processo che, anziché mistificare l’individuo, migliora il singolo e la società che lo circonda, giacché essendo caratterizzato dall’interazione tra i due livelli, consente all’uomo di permanere nel mondo sensibile ma di lavorare in quell’Iperuranio tanto caro a Platone.

Umberto usa olio, acrilico e inchiostro, come strumenti per fissare sulla superficie scelta i contenuti che intende esprimere. Grazie al suo interesse per la filosofia, la psicologia, l’esoterismo, l’antroposofia e l’alchimia, sia essa teorica che pratica, realizza lavori pregni di consistenti contenuti alchemici.

Mediante molte sue opere, riesce a manifestare un’arte subliminale che lascia un’impronta capace di suscitare, in chi si sofferma a scrutarle, una maggiore coscienza dell’Assoluto.

I suoi dipinti svelano, inoltre, un denso vissuto soggettivo e uno spessore personale composto da impulsi inconsci e tensioni e sono colmi di una serie di valori culturali ed esoterici comprensibili a chi ha occhi per vedere.

L’estetica delle sue pitture è subordinata al loro contenuto, poiché riesce sempre a trasferire sui supporti scelti una radicata realtà. Ciò che crea, oltre a tener conto della relazione tra il relativo e l’assoluto, manifesta contenuti, memorie e dimensioni ancestrali che hanno lo scopo di mostrare agli occhi e alle menti pronte, la conoscenza dell’ignoto.

Il messaggio subliminale che invia, capace di svelare l’arcano, può essere recepito totalmente o in parte, secondo il grado di conoscenza acquisito dal ricevente. La qualità della comprensione varia secondo i contenuti interiori e la specifica preparazione di chi ammira i suoi lavori.

Le sue tele lasciano ampio spazio interpretativo anche perché, mentre le esegue, anziché affidarsi unicamente all’istinto, tiene conto della propria dimensione interiore, dei propri processi evolutivi e del gradino, che sulla scala di Giacobbe, lo ospita.

Caro Pulcinella, ti invito ad un viaggio da compiersi nel tempo in cui si dischiude un tulipano, perché vorrei farti capire concretamente che Umberto dà vita alle sue opere sia in modo empirico che cosciente, e queste, oltre a tener conto delle tensioni esistenti tra il suo conscio e il suo inconscio, si adeguano ai meccanismi dinamici che, esteriorizzando il grado di conoscenza acquisito, mediante un’estetica molto simbolica, trasmettono valori assoluti.

Il mio Maestro, attraverso le sue pennellate, traccia quel connubio forma – simbolo che acquisisce un significato profondo ma non assolutistico. Egli, infatti, nelle sue creazioni, si lascia amorevolmente influenzare dalle esperienze vissute e dalle costanti visite alla terra interiore o al continuo lavoro introspettivo, realizzato sia in modo cosciente che inconsapevole.

Caro Pulcinella, vorrei che ti accostassi con cura ai lavori di Umberto, poiché, oltre che esprimere entrambe le polarizzazioni del vissuto interiore, penetrano l’invisibile, rappresentano un mezzo di espressione di proiezione e rivelano alcune regioni dell’inconscio.

Improvvisamente, mentre Fabio è intento a parlare di come le opere del Maestro manifestino sia una consistente cultura ermetica che una pregevole arte contemporanea, è interrotto da una voce ben modulata proveniente dall’etere, che esclama:

Caro Fabio, esimio Pulcinella, non posso intrattenermi molto con voi ma, intendo manifestarvi brevemente il mio punto di vista.

Penso che per realizzare un certo tipo di opere si debba far riferimento ad alcuni parametri insiti nella cultura ermetica, che per trasformare il pensiero in raffigurazione sia necessario conoscere quei concetti che, con un muto linguaggio, riescono a diffondere in modo chiaro le dinamiche e i cambiamenti di cui le espressioni moderne sono colme.

Cari miei, prepongo, come fondamento di ogni mia indagine, l’assunto che ogni cosa evolve, muta, cambia e trasmuta, in virtù delle peculiarità essenziali del Tutto. Peculiarità importanti perché presenti sia nel micro che nel macro, sia nel microcosmo uomo, che nel macrocosmo dell’UNO.

Vi parlo di queste caratteristiche per farvi comprendere i meccanismi e le dinamiche che, superando la forma standardizzata, esprimono un’estetica contemporanea libera da farraginose catene.

Come già detto ad un nostro comune amico, Luigi, studioso di esoterismo, utilizzo le mie opere, frutto di un lavoro che coinvolge la coscienza e l’istinto, per svelare ciò che è nascosto e che non è raggiungibile.

A tal proposito, Julius Evola, in un suo scritto, tenendo conto della funzione che l’Io svolge nelle realizzazioni artistiche, sostiene che l’artista si colloca nella via di mezzo tra immanente e divino nascosto nel profondo.
Più nell’opera si manifesta l’immanente, più questa assume una valenza assolutistica.

Con il progredire dell’Io, i motivi che trasformano l’artista in un veicolo dell’Immanente, gradualmente decadono e, come Evola in modo molto arguto percepisce, l’Io dell’artista inizia a rivendicare un compito proprio e a porsi come attore principale, anziché come strumento passivo.

L’Io individuale, prendendo coscienza della propria dimensione, agisce alla stessa stregua di suo padre, l’Immanente, e non si esprime più mediante l’artista, ma in qualità di artista; in altre parole, il contenuto e il contenente partecipano alla stessa finalità.

Cari miei, un certo tipo di pittura contemporanea esprime una serie di dinamiche evolutive della coscienza tese a concepire e confermare un proprio stato e una propria dimensione che si manifesta con una gradazione che va dal conscio all’inconscio.

Ritengo che ogni persona possieda un’indole artistica che galleggia tra gli estremi della coscienza, fra le necessità dell’Io e gli eccessi dell’istinto. Indole che, facendo vedere il tutto attraverso una lente che deforma l’immagine, dà luogo a molteplici correnti artistiche, a varie tendenze, a diverse rivendicazioni e ad una serie di manifestazioni formali.

Credo che l’arte contemporanea riveli in modo approssimativo, ma abbastanza realistico, le dinamiche più articolate che, con la supervisione dell’Uno e dell’Immanente, regolano l’evolversi del Cosmo.

Le manifestazioni dell’arte contemporanea, però, non possono essere universali perché essendo legate al mondo sensibile, sono definibili come effetti transitori di dinamiche evolutive e temporali.

Penso che li uomini che, in un’infinita scala di motivazioni ed intenti, incarnano ed esprimono direttamente le dinamiche evolutive dell’esistenza siano artisti. Sostengo che quelli di stampo alchimistico siano chiamati ad assumere nelle soluzioni delle molteplici necessità dell’esistenza, idonee e consistenti funzioni creative.

Cari miei, il tempo a mia disposizione è terminato, restare mi tenta tre volte tanto, farei fuoco e fiamme per continuare a parlare con voi delle mie opere, ma dopo questo bellissimo viaggio in vostra compagnia devo purtroppo ritornare al nido.

Fabio ed io, sentendo un crepitio simile a quello dei tronchetti di legno che bruciano sul fuoco e percependo un leggero venticello che, dal basso si dirige verso l’alto, ci rendiamo conto che nonostante la voce stia andando via, ci lasci sì soli, ma in compagnia di consistenti e peculiari considerazioni alchemico – ermetiche.

L’allontanamento della voce di Umberto coinvolge emotivamente Fabio: i suoi occhi brillano offuscati e il rossore si stende sulle sue guance, alla stessa stregua dell’appannatura del fiato su di un bicchiere d’acqua fresca.

Il cenacolo, oltre a sprofondare in un silenzio così sconvolgente da non aver pari, si addormenta in una calda luce di giacinto e d’oro. Il dio Sebeto, invece, come un vagabondo, dorme pigramente, sapendo che non siamo ancora in grado di manifestargli i nostri desideri.

Resomi conto di questo, tento di difenderlo dalle forze contrarie, di distrarre la sua mente, di coinvolgerla in altri pensieri.

Dichiaro:

Caro Fabio, per comprendere il concetto di archetipo espresso da Umberto si deve ricorrere al mondo delle idee di Platone, da intendersi come le essenze che generano ciò che accade nel mondo visibile e tangibile.

Credo che per il tuo Maestro, il mondo esemplare si possa identificare nell’eredità genetica del DNA, negli dei, nei santi e in quelle manifestazioni che esprimono le astrazioni contenenti i principi che connotano il mondo finito. Penso che per Umberto, ogni colore rappresenti il riflesso delle vibrazioni iperfisiche, giacché in natura ogni tinta porta con sé i caratteri della sua matrice di provenienza.

Ritengo che egli consideri rilevante l’armonia degli opposti e, nonostante non lo riveli in modo palese, lo lasci trasparire attraverso la frase: “La mia grande felicità consiste nell’Amare la mia Sposa perché solo Lei può sviluppare i germi di tutte le creazioni”.

Con questa affermazione penso che Umberto intenda diffondere l’idea che nella materia, così come nello spirito, siano presenti due polarità e due sensibilità, che generalmente determinano un conflitto che sfocia in equilibrio, in altre parole, in un magnetismo ermetico che permette la completa comprensione delle forze sensibili presenti nei due estremi.

Terminato di parlare, mi accorgo dell’ora tarda e, scusandomi, informo Fabio che è giunta l’ora di lasciare l’amato cenacolo. Mentre mi congedo gli dico che sono contento sia per l’inattesa visita della voce del suo Maestro, sia perché, mentre si avvicina la notte fonda, in cui i pensieri precipitano, tutto mi fa pensare all’orizzonte di un sole che ogni giorno si leva.

Salutato l’amico e compagno di tanti viaggi, tenendo conto che “tutte ‘e ccòse ‘mpruvvisate sòngo sèmpe sapurite”, in compagnia della mia “meza sola”, del “cuppolone”, del camicione e della speranza di intraprendere anche domani un piacevole viaggio, mi dirigo verso casa.

Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.

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