Bisogna trovare il proprio sogno perché la strada diventi facile. Ma non esiste un sogno perpetuo. Ogni sogno cede il posto ad un sogno nuovo. E non bisogna trattenere alcuno.
Hermann HesseSe le cose stanno in questo modo dovremo certo riconoscere l’esistenza di una stretta parentela tra la vita e il sogno.
Arthur Schopenhauer
Da dove vengo?
Questo è ciò che Pulcinella chiede a se stesso. Ritornando a riflettere su Leibniz, la risposta potrebbe essere quella che rappresenta l’uomo come una Monade incarnata, proveniente dall’Essere che comunemente chiamiamo Dio o Principio Unico, Creatore degli Universi materiali, Signore Onnipotente, Uno…
Perché sono qui?
La presenza della Monade uomo sulla terra, secondo un disegno divino, è necessaria per elevare la vibrazione della materia con la quale viene a contatto ed acquisire e manifestare, mediante il libero arbitrio, le caratteristiche che consentono il ritorno alla Sorgente, a Dio.
Dove vado e perché?
La Monade uomo svolge il suo compito, più o meno bene, in modo da liberarsi, progressivamente, della coercizione dell’involucro fisico e tornare al mare magnum d’amore rappresentato dall’Onnipotente. Pur provenendo dall’Altissimo non è perfetto, quindi, lavora sulla materia universale, ma senza chiedersene il significato perché la sua mente limitata non è in grado di comprendere appieno il disegno divino.
L’attività onirica, prerogativa che, ben sfruttata, permette di visitare luoghi reali ed irreali, è sempre pronta a soccorrere l’uomo affinché possa conoscere se stesso. Basta recarsi in Svizzera, nel Canton Ticino, a Montagnola, frazione del Comune di Collina d’Oro, per sognare, vivere, capire cosa provi il viandante che, nell’arco della sua vita, percorre un itinerario inquieto alla strenua ricerca di sé.
Il viaggiatore in questione è Hermann Hesse, intellettuale in grado di parlare alle menti di chi legge i suoi libri e lasciarvici un po’ del suo spirito. Nel recarsi nella sua casa, nel museo a lui dedicato e nei luoghi che frequentava, viene voglia di viaggiare, incamminarsi lungo percorsi pregni di quella spiritualità e di quei colori sgargianti che caratterizzano la natura tanto cara a San Francesco d’Assisi e a Giordano Bruno; caratterizzata da tinte vivaci ma forse non gioiosa, giacché la felicità non esiste.
Come direbbe Totò:
Felicità!
Vurria sapè ched’è chesta parola,
vurria sapè che vvò significà.
Sarrà gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,
ma chi ll’ha ‘ntiso maje annummenà.
Forse vi sono minuscoli momenti, quelli durante i quali si scordano le cose brutte. La felicità è fatta di attimi di dimenticanza.
La sua assenza è forse la molla che spinge Siddhartha, «colui che ha trovato la meta», a cercare il vero cammino, la sua vera essenza. Figlio di un brahamano, un sacerdote indiano, fin da piccolo si interessa alla spiritualità, alla ricerca di un legame forte con l’universo e la divinità.
Il ragazzo non si ferma davanti a nessun ostacolo e cerca il misterioso e, apprendendo dai saggi, sacrificandosi e meditando, tenta di ritrovarsi, raggiungere l’equilibrio interiore, l’elevazione che può condurlo al tutto, ossia all’ambita meta divina.
Nonostante diventi eremita, ricco mercante, poi povero barcaiolo e anche padre, non riesce nel suo intento sino a che non scopre che la vera pace non consiste nella continua ricerca di qualcosa che si pensa sia nascosto e lontano, bensì, risiede nel presente, nell’amore per il mondo circostante e per quello che alberga nell’essere umano.
Siddhartha è un insoddisfatto giovane indiano, membro della casta sacerdotale a cui spetta il compito dell’insegnamento dei testi sacri. Sceglie la via ascetica della rinuncia a tutto perché in lui alberga una forte inquietudine. Nobile di nascita, quindi destinato al privilegio e al benessere economico, inizia il suo lungo viaggio con Govinda, l’amico di sempre, unendosi ai Samana, asceti mendicanti che, conducendo una vita essenziale, perseguono l’empatia con il mondo.
I due vivono tre anni tra meditazione e privazioni tra cui la pazienza, il rifiuto d’indossare indumenti di casta, i digiuni e l’astinenza dai piaceri del mondo. Il loro obiettivo è far emergere il Sé, sentirsi parte della totalità dell’universo. Siddhartha si rivela un eccellente allievo e, in poco tempo, apprende tante tecniche tra cui quelle per controllare il respiro e rallentare il battito cardiaco. Grazie alle innate capacità e alla perseveranza, si predispone alla realizzazione di svariati prodigi.
Eppure, ancora una volta, è insoddisfatto. Preso atto che anche con i Samana non può giungere alla piena realizzazione e che la tanto attesa rivelazione spirituale è ancora lontana, non appena giunge notizia dell’imminente passaggio in zona del Buddha Gotama, decide di raggiungerlo ed impara che la vita è un’ininterrotta catena di cause ed effetti.
L’incontro con il maestro dall’aspetto regale, pacifico e radioso, cambia il destino dei due amici.
Govinda, conquistato dai suoi insegnamenti, sceglie di seguirlo. Siddharta, invece, pur comprendendone l’eccezionalità e la saggezza e riconoscendo che oltre a conoscere il modo per superare il dolore, sa anche fermare la ruota delle rinascite, decide di lasciarlo. Ritiene, infatti, che l’illuminazione possa essere raggiunta solo tramite la ricerca personale e l’esperienza, che nemmeno la dottrina di un guru potrebbero garantirgli.
Non ancora convinto e soddisfatto del traguardo toccato, ambisce ad altro. Decide, così, di ripartire, cambiare vita, perché vuole giungere in modo individuale alla meta. Il suo obiettivo è scoprire il vero Io, trovare il giusto equilibrio interiore, acquisire quella saggezza che non necessita dell’intercessione spirituale del maestro, sia perché la natura del Sé non può essere insegnata, sia perché per rinunciare all’ego si può e si deve contare solo su se stessi.
Impara ad ascoltare la voce interiore e ad apprezzare la bellezza della natura che, circondandolo, gli fa apparite tutto nuovo e più puro, compresi i colori del torrente e della foresta. Attraversa il fiume ed intraprende un cammino che si sviluppa attraverso nuove e variegate esperienze. In città inizia a frequentare Kamala, una famosa cortigiana che, facendogli incontrare Kanaswami, un agiato commerciante, lo introduce nel mondo della floridezza economica e dell’ozio.
Diventa sempre più ricco, ma, con il passare degli anni, le qualità sviluppate durante il periodo speso nella ricerca del Sé interiore scemano e vengono sostituite dal benessere materiale, dall’avidità, dai problemi quotidiani e dall’inquietudine. Sentendosi ostaggio del piacere, dei bassi istinti e del dolore, apre l’uscio della mente ai sensi di colpa e diviene vittima dell’infelicità.
Vivendo nell’agiatezza niente ha più valore, neanche i piaceri che Kamala gli procura, quindi, abbandona casa e ricchezze mentre, pervaso dal disgusto e dal rimorso per il tempo perso per la ricca ma insignificante vita, l’idea del suicidio si insinua lentamente nella sua mente. Giunto sulle rive del fiume precedentemente attraversato, decide di diventare parte di quel flusso ma, ascoltando la sua voce interiore, il suono dell’OM, comprende che la distruzione del corpo non porrebbe fine alle sue sofferenze e si siede per riposare.
Esausto si addormenta e, al risveglio, si rende conto che nonostante sia trascorso tanto tempo, la bellezza dell’acqua e dei cieli è rimasta immutata. Sentendosi di nuovo rinato, guardandosi attorno, vede che Govinda gli siede accanto e veglia su di lui perché il luogo, a causa dei serpenti, è molto pericoloso.
L’amico monaco riprende il suo cammino e Siddharta, accortosi di appartenere ormai al fiume, cerca e incontra un barcaiolo, Vasudeva, iniziando con lui una nuova fase della sua esistenza. Osserva il movimento dell’acqua, ne ascolta la voce e nota che ogni momento è nuovo per lui, che l’acqua scorre sempre, ma non si esaurisce mai.
Dato che il traghettatore conosce molti segreti del torrente, condivide con lui capanna, cibo e lavoro. L’abilità d’ascolto del suo nuovo amico è encomiabile, senza giudicarlo affatto lo aiuta a capire che la vita esiste solo nel presente.
Il lento e sereno scorrere dei giorni è interrotto dalla notizia che Gotama sta per morire. L’amata Kamala, divenuta seguace di Buddha, vuole raggiungere l’illuminato prima che trapassi e, accompagnata dal figlio nato dall’amore con Siddhartha, si incammina alla ricerca del maestro ma, mentre riposa sulla riva, viene morsa da un serpente.
Vasudeva, sentendone le urla, la soccorre e la conduce alla capanna. Kamala affida il figlio a suo amato e questi, riconoscendone i tratti somatici della sua gioventù, capisce che è suo e lo tratta con rispetto, sebbene questi sia viziato e avvezzo ad un diverso tenore di vita.
Il ragazzo, non si abituandosi alla nuova vita, ed emulando l’esperienza paterna, decide di andar via. Siddharta, notando la ripetizione dei cicli e dei percorsi dell’esistenza, comprende che Vasudeva si è trasformato nel fiume stesso, diventando una divinità. Mediante la meditazione e la sua guida impara ad ascoltare il rivo e a vedere, nelle sue acque, i volti solitari di suo padre, di suo figlio, di se stesso e dei suoi amici, e a sentire la sua anima immergersi nell’unità.
Vasudeva, a sua volta, si accorge che l’amico sta provando le esperienze nella loro interezza, vivendo il tanto desiderato senso della vita, il Nirvana, la rinascita spirituale, il perfetto equilibrio tra ciò che è tangibile e ciò che non lo è. Preso atto che è giunto all’illuminazione e sopraggiunta la vecchiaia, ricco d’equilibrio e saggezza, gli cede la propria l’attività, abbandonando la sua dimora e recandosi nel bosco per restarci.
Govinda, sentendo parlare di un saggio barcaiolo con trascorsi simili ai suoi, si reca da lui e gli chiede se segua una dottrina, ma Siddhartha replica che se la conoscenza può essere trasfusa ed insegnata, la saggezza no, che per ogni verità ne esiste una opposta, altrettanto vera, che il tempo è un’illusione, infatti, con la meditazione è possibile escluderlo nell’attimo presente, nel qui e ora, che la sofferenza è necessaria per imparare e che non vi è nessuna divisione tra il mondo e la perfezione.
Spiega che cercando nelle parole e nei pensieri, non si ottiene l’illuminazione e cita l’esempio dello stesso Vasudeva, diventato un illuminato senza consultare alcun libro. Quindi, invita il monaco a baciarlo sulla fronte e questi, nel farlo, penetra nel suo sorriso e nella sua sfera personale dove oltre a vedere Krishna, scorge infinite immagini gioiose e dolorose, vive l’esperienza del Nirvana e riconosce il volto radioso di Buddha, per cui si inchina per venerarlo.
Nell’analizzare il racconto è chiaro che Siddharta, durante il lungo cammino verso l’illuminazione, incontri molte persone che rivestono un ruolo utile per la sua ricerca e la sua crescita evolutiva. Tra di esse spiccano Govinda, l’amico d’infanzia, Vasudeva, l’umile e saggio barcaiolo, Kamala, la cortigiana; dietro ognuno di loro si celano molteplici e rilevanti prerogative.
Kamala, con la sua bellezza, lo affascina a tal punto da insegnargli l’arte e le gioie dell’amore e distrarlo dalla ricerca del Sé. La donna, innamoratasi di lui, gli trova un lavoro presso un mercante della città e vive con lui giorni d’intensa felicità.
Quando il brahamano si rende conto del regresso della sua anima, causato dalla ricchezza e dai vizi, decide di lasciare la città e l’amata e lei, nonostante non ne rimanga sorpresa, soffre molto per la sua partenza. Accortasi di essere incinta, partorisce e chiama il bambino Siddhartha come il padre, poi convertitasi alla dottrina di Buddha Gotama, ospita, nel suo giardino, i sacerdoti del maestro.
Vasudeva, non è un filosofo ma un uomo semplice e saggio che sa ciò che occorre sapere, è il barcaiolo che traghetta il protagonista dopo che questi lascia l’amico Govinda e il Buddha Gotama e lo accoglie quando scappa dalla mondanità. Con i suoi suggerimenti contribuisce alla sua formazione e condivide la saggezza che solo il lento ma inesorabile scorrere del fiume può insegnare e facendogli prendere coscienza dell’OM, il sacro mantra induista della perfezione.
Govinda è il gregario fedele che ognuno vorrebbe al suo fianco, una persona statica, dall’indole tranquilla, che non cambia il modo di pensare, il fido compagno di meditazione e di studio, che lo segue senz’alcuna esitazione quando decide di partire per congiungersi ai Samara e lo lascia andare ad ascoltare gli insegnamenti di Buddha Gotama. Nonostante sia curioso e cerchi le risposte alle domande sul senso della vita, si rifugia nella dottrina già elaborata perché non riuscendo o non volendo intendere la ricerca come impegno individuale e originale, si affida ad una guida sicura.
Da monaco poi, rincontra Siddhartha prima quando questi decide di suicidarsi e poi alla vecchiaia e, nell’ascoltare le sue parole, comprende, gli insegnamenti del fiume. Rimanendo estasiato dalle parole dell’amico, riconosce che questi è diventato un uomo straordinario, il Buddha illuminato, la Forza Divina. Giacché ne riconosce le qualità evolutive e le approva, dimostra di essere giunto al culmine del percorso di formazione.
La vita di Siddhartha attira l’attenzione dell’acuto osservatore, del sognatore in cammino, perché trasmette insegnamenti, che innescano profondi spunti di riflessione. Il primo tra questi, ma non per importanza, riguarda la debolezza umana; infatti, egli, resosi conto di essere in balia di tali debolezze, lascia tutto e riprende il cammino di ricerca. Fuggendo dalla vita incompleta, si lascia sopraffare dai rimorsi dovuti agli anni trascorsi, seppur al fianco di Kamala, in balia dell’effimero benessere materiale.
Altra riflessione riguarda il rapporto che s’instaura tra padre e figlio. Quando il figlio lo lascia, questi pur rivedendosi nella fuga che prende il là dalla volontà di seguire il destino individuale, prova un forte dolore e riesce a calmare la sua pena solo ascoltando la voce e la luce che emana il fiume che lo conduce all’illuminazione.
Da rilevare anche l’importanza del silenzio, quello di Arpocrate, emblema della prudenza, che destabilizza l’ego e conduce alla felicità; requisito fondamentale dell’ascolto, svolge una funzione ristoratrice per l’anima e consente di prendere coscienza della propria presenza e, fungendo da vuoto, si alterna al pieno, in un armonioso equilibrio tra gli opposti.
Oltre a rappresentare la capacità di espandere lo spazio tra l’emozione e la sua conseguenza, permette di apportare l’ordine laddove impera il caos, cioè in se stessi, e conduce alla riscoperta della condizione presente, della propria essenza.
Un altro spunto riguarda le implicazioni filosofiche che accompagnano il racconto, perché sembra evidente che nel vissuto di Siddhartha vi sia l’amore per quella sapienza, codificabile come frutto del pensiero insito nell’uomo, tale che, nascendo in ogni singolo luogo della terra, può dar il via a dottrine più o meno evolutive. La filosofia che accompagna la narrazione sembra basarsi sui pensieri, sulla vita pratica di tutti i giorni, sugli insegnamenti e sui comportamenti individuali.
Siddhartha è alla ricerca della verità e, alla stessa stregua di San Francesco, rinuncia ai beni terreni, fugge dal piacere, dall’agio, dall’ego, dagli istinti, dalle pulsioni e dai dettami della società che lo circonda e si incammina verso l’assoluto. Entrambi, non riuscendo a trovare nel comodo quotidiano l’equilibrio e la pace interiore, per soddisfare la sete spirituale, diventano eremiti, viandanti, asceti.
Il primo vive affinché l’Atman si avvicini all’Assoluto, al Brahma, ossia al divino diffuso in tutto l’universo; il secondo, invece, si impegna ogni giorno affinché la sua anima si avvicini al Creatore dell’intero Universo.
La vita del protagonista intriga molto, giacché cerca l’Io profondo che consente di raggiungere la purezza e di sfuggire all’involuzione sempre pronta a rendere l’uomo vittima di se stesso. Un Io in grado di trascendere i rischi connessi al Saṃsāra, ossia, alla trasmigrazione dell’anima.
Inoltre, il dialogo che intercorre tra il brahmano e Vasudeva lascia trasparire che Siddhartha, ascoltando il fiume, si renda conto che il tempo è un’illusione.
Oggigiorno diversi fisici affermano che la nozione comune del tempo non corrisponda ai risultati scientifici, perché non esiste alcun grande orologio che batta quello dell’universo, nella stessa maniera e ovunque, ma che il suo corso dipenda dal luogo e dalla velocità. In montagna, infatti, procede più velocemente che in pianura; per le cose in movimento è più lento che per quelle ferme.
Un altro insegnamento consiste nella correlazione saggezza – esperienza. Il saggio non è colui che non sbaglia mai, infatti, Siddharta, nonostante nel corso della sua vita commetta tanti errori, impara molto da essi.
Anche Aristotele fa un discorso simile:
Dato che la virtù è di due tipi, intellettuale e morale, la virtù intellettuale in genere nasce e si sviluppa a partire dall’insegnamento, ragion per cui ha bisogno di esperienza e di tempo.
In altre parole, la consapevolezza che si acquisisce grazie all’esperienza è più utile di quella trasmessa dai maestri.
Hesse tenta di far prendere atto a chi legge che la saggezza dimora a metà strada tra gli eccessi dell’ascetismo e la vita passionale e terrena. Siddharta, pur provando entrambe le vie, la prima presso i Samana e la seconda con Kamala, scopre che la natura è un ciclo eterno di opposti, come il bianco e il nero, la notte e il giorno, che non sono incompatibili, anzi, manifestano una complementarità che si traduce in sinonimo di vita. Sono tali perché rappresentano soltanto differenti aspetti dello stesso fenomeno, ossia, l’equilibrio dinamico tra i due poli.
Siddharta scopre, anche che l’uomo, anziché rifiutarla, immergendosi nella vita e abbandonandosi al ciclo eterno e meraviglioso della natura, può conseguire l’illuminazione. Comprende, che chi si ritira completamente dal mondo, come fa egli stesso nei tre anni con gli asceti, non apre l’uscio della mente e dello spirito.
Inoltre, divulgando il culto brahminico, prova a far comprendere al lettore il concetto di Maya, di illusione della vita terrena; facendo leva sulla natura effimera del mondo sensibile lascia intendere che questa non consente all’uomo di vedere oltre le apparenze
Argomento trattato anche da Schopenhauer, con la sua metafora del velo di Maya. Il filosofo tedesco attribuisce poco valore a ciò che percepiscono i sensi, a ciò che si può vedere, toccare, sentire e che comunemente si scambia per realtà, che si contrappone alla consapevolezza dell’esistenza di una dimensione spirituale ultrasensibile.
Ancora, dal testo si evince che nessuna dottrina è eterna. Siddharta preferisce sperimentare il suo percorso in modo autonomo, senza appoggiarsi completamente a nessuno, senza accettare, in modo passivo, la verità dall’alto. Ricorre a quella suggerita e offerta dal maestro privo di braccia e di mani, che scorre fluidamente, ossia il fiume.
L’acqua, nonostante sia sempre in movimento e sia sempre la stessa, con il suo moto in direzione del profondo, invita chi osserva a fermarsi sulle sue sponde. La natura, con i suoi misteri e le sue ciclicità, manifesta appieno l’opera di Dio, con i suoi versi, suoni e silenzi, compone una melodia che unisce acuti e bassi, note e pause, atte sia a fortificare che a far riposare l’individuo durante il percorso.
Il discorso dell’insoddisfazione merita anch’esso una parentesi. Siddhartha, altri interpreti della storia e quasi sicuramente forse anche lo stesso Hesse, la manifestano. Essa non necessariamente è negativa, anzi, spesso rappresenta il segnale che indica un’anomalia, qualcosa che non va, direzioni errate, che necessitano di un cambio di rotta se si vuole raggiungere uno stato di maggiore benessere.
Essa è la molla che spinge il protagonista della storia a proseguire lungo il cammino che gli cagiona quel malessere interiore che lo accompagna sino all’illuminazione finale. Non deve essere vista, dunque, come atteggiamento egoistico, bensì, come stato che nasce dal profondo bisogno di conoscenza, esplorazione dell’animo umano, ricerca del Sé.
Siddharta percepisce la presenza di un velo che lo inviluppa e lo copre di realtà relativa, insita nel mondo sensibile, cosa che lo stanca e gradualmente lo rende simile al camicione di Pulcinella che con il tempo invecchia, perde la brillantezza del colore, si deteriora e si logora nei margini.
Il testo fa intendere che una guida può andare bene per alcuni ma non per altri. Il brahmano, infatti, convinto che gli insegnamenti di un saggio, per quanto siano interessanti, non sono necessariamente utili per tutti i discepoli; per alcuni possono rivelarsi illuminanti, per altri superflui e, per altri ancora, simili alla follia.
La relazione maestro – discepolo nel Buddismo, che si occupa della felicità e dello sviluppo dell’essere umano, è essenziale. Questa dottrina prevede che il fondamento consista nell’impegno condiviso, nella collaborazione per la felicità e nella liberazione dalla sofferenza.
L’illuminato ambisce alla consapevolezza del suo allievo, a renderlo edotto del suo vero potenziale, a infondergli fiducia nelle sue capacità infinite e sconosciute perché è difficile riconoscerle. Riesce a fornirgli la giusta ispirazione, mediante l’insegnamento e attraverso i suoi comportamenti nella vita quotidiana.
Nel Buddismo questo rapporto, anziché trasformarsi in un’inconsistente imitazione e adulazione, diviene un coraggioso cammino che conduce alla scoperta del Sé.
Siddhartha, nonostante comprenda che l’equilibrio individuale è un traguardo che presenta diverse difficolta, sin impegna per raggiungerlo, tant’è che da ragazzo assiste, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, prende parte alle conversazioni dei saggi e si esercita sia nell’arte oratoria che nell’osservazione e nella pratica della concentrazione interiore.
Nel comprendere che questa strada non può condurlo al traguardo e tenendo conto che gli insegnamenti dell’infanzia non gli bastano, decide di dare una svolta.
Obiettivo che sembra accompagnare Hesse nel corso di tutta la sua vita, dato che il suo conflitto quotidiano lo induce, probabilmente, a ritirarsi nella verde Montagnola. La tranquillità del luogo e la nuova vita gli fanno acquisire però un’autonomia non appagante; l’inquietudine e il dolore persistono, sia perché è costretto a ricoverare la moglie in una clinica, a causa del rapido aggravarsi della sua schizofrenia, sia perché, non essendo in grado di provvedere ai tre figli, deve affidarli alle cure di amici.
Come un pittore tramite le sue tele manifesta il suo pensiero, così Hesse caratterizza i principali personaggi del romanzo con la crescita della coscienza e con un’evoluzione del carattere tale da andare oltre il contenuto intellettuale della filosofia buddista.
Una auto-formazione spirituale di grande spessore che contraddistingue non solo il percorso buddistico ma tanti altri. L’auto-determinazione e la disciplina evolutiva, che i personaggi ben manifestano, forniscono al lettore la speranza di una liberazione in questa vita e sembrano trasmettere una prospettiva ottimistica.
Un’ultima riflessione riguarda alcuni momenti della vita di Hermann, tra cui quello onirico. Egli riferisce che, in una piovosa mattina, in cui vorrebbe riaddormentarsi, il suono leggero della pioggia sul tetto, destandolo, gli fa percepire tanta tristezza, ed emerge, simile a un’ombra, il ricordo di un lungo sonno.
Nel sogno ode due voci che gli parlano di una grande sofferenza, ma è la seconda, più profonda e sonora, che tuona:
Ascoltami! Ascoltami e ricorda: il dolore non è nulla, è illusione. Solo tu lo crei, solo tu provochi!
Lo scrittore la descrive come
In se stessa oscura e causa di dolore.
È conscio che tale voce sia una risposta all’interrogativo principale dell’esistenza che lo insegue sin dall’infanzia.
Per quanto riguarda l’ombra cui fa cenno nel suo diario, questa non sembra rivestire un carattere negativo, giacché, oltre ad essere parte di sé, rappresenta quel quid necessario affinché si possa giungere all’ambita meta. In altre parole, agendo positivamente, consente all’individuo di conoscersi, accettarsi, intraprendere il cammino verso il benessere spirituale.
Elemento necessario perché aiuta a comprendere che, per rinascere, bisogna vivere in armonia con l’opposto, in simbiosi con l’ombra con cui è necessario entrare in contatto e, con essa, toccare il fondo degli abissi più imperscrutabili dell’animo umano, giudicati inaccessibili, non perché lo siano realmente, ma perché si ha paura di affrontarli.
Hesse, mediante il romanzo, sembra voler suggerire al lettore di convivere con la propria ombra.
Scegliendo come ambasciatore del messaggio il protagonista, gli fa dire:
Che io non sappia nulla di me, che Siddhartha mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, da una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso.
L’autore non smette mai di cercare, con una risolutezza che manifesta pienamente mediante l’illuminazione finale di Siddharta, che descrive bene lo sviluppo, sperimentato a fondo, verso la percezione finale dell’Io Sono.
Autore Domenico Esposito
Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.