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Pulcinella e Fabio Da’ath: intervista esoterica a Pietro Riccio

Pulcinella


La curiosità non è un difetto ma una dote. L’incontro svoltosi sul terrazzo cenacolo, alla presenza di Madame Carmen, di Fabio Da’ath e di Pietro Riccio, il noto alchimista, accende ancora tanti e variegati LED nel mio cervello.

Anche la mia anima è curiosa, infatti, mi dice:

pecchè ‘nun siente ‘a voce e chest’anema pezzente, s’assurduto ‘o core tuoje, e nun’siente chisto core ca int’a ‘o piette sbatte comme all’acqua d”o mare, e io scugliera sotto ‘o sole m’abbrucio!

Sono una maschera che assimila lo scrivere a quella conoscenza alchemica capace di trasformare un’idea, una riflessione o un discernimento, in una storia da raccontare.
Una maschera che, mediante la scrittura, ricerca l’intrinseca essenza dell’esistenza e prova a colmare le inevitabili lacune esistenziali.

Una “meza sola” che cerca di soppesare la propria emotività e di tener conto degli archetipi, che durante i viaggi, mi guidano tra i meandri dei vari mondi; questi, oltre a rispondere alle domande ancestrali, sono alla base degli istinti primordiali e dei principi primitivi. La mia maschera e io abbiamo bisogno degli archetipi poiché i nostri sono viaggi dell’Io per giungere all’autorealizzare.

Il mondo ordinario mi sta stretto; non a caso, incessantemente, da stamani, penso che sia necessario dare un significato alla mia vita, perché mi rendo conto che non ha un senso finito. La mia insoddisfazione mi spinge a voler interpellare Pietro l’alchimista così da poter calmare la mia consistente sete di conoscenza. Sono combattuto perché, riflettendo con raziocinio, mi dispiacerebbe distoglierlo dai suoi impegni.

Desiderando un significativo cambiamento, assisto, in modo neutrale, alla battaglia tra il desiderio inconscio di chiamare Pietro e quello conscio che mi spinge a non farlo, la mia “meza sola”, invece, spera che vinca il primo. Alla fine sento Fabio affinché gli chieda di salire con noi su quella navicella spaziale che non aspetta altro che, partendo dal nostro amato terrazzo cenacolo, farci viaggiare verso le mete desiderate.

Fabio, felicissimo per il mio invito al viaggio, avvisa prontamente l’alchimista e, dopo aver fissato l’appuntamento per il primo pomeriggio, in un lasso di tempo che a me appare interminabile, mi avverte.

Sono certo che, intervistandolo, io possa implementare la mia conoscenza e sono contento per la decisione presa, poiché ogni volta che ascolto la voce della mia anima ottengo ottimi risultati.

Prima di recarmi all’appuntamento, mi osservo mediante quello che a Napoli si definisce “o tale e quale” e l’immagine che vedo riflessa non è quella del Pulcinella ozioso, sfaticato, burlone, goffo e matto, che tutti conoscono, bensì quella di una maschera che, mediante la sua poesia, è capace di raffigurare una condizione umana profonda e colta.

All’ora prestabilita giungo al terrazzo cenacolo e lì trovo ad attendermi, sia Fabio che l’alchimista, intenti a degustare un freddissimo bicchiere d’acqua zurfegna o di mummare che dir si voglia. Dopo aver salutato entrambi, dissetato il mio palato, assaporando con loro la freschissima bevanda, mi dirigo verso le sedie che solitamente fungono da navicella durante i nostri consueti incontri esoterici.

Chiedendone il permesso, per saziare sia la mente che l’anima, chiedo all’ormai amico Pietro di rispondere ad alcuni miei quesiti. Non aspetta altro. A mo’ di preambolo, osservo che per ciò che attiene la Dottrina Ermetica, da più parti si legge che la morte iniziatica consiste nel porre la mente, pur restando vivi e coscienti, nelle condizioni in cui essa viene a trovarsi nello stato di morte fisica.

In altre parole, per realizzare lo stato di Uomo Rigenerato si deve vivere quella morte iniziatica che corrisponde a vivere in piena coscienza una sorta di sperimentazione e di simulazione della morte reale.

Fatta questa premessa e tenendo conto di un precedente articolo pubblicato dall’alchimista sul quotidiano online Ex Partibus, dico:

Caro Pietro, ti dispiace parlarci dell’iniziazione?    

Felice per la domanda postulatagli risponde:

Esimio Pulcinella, l’iniziazione produce nella mente un vivo ricordo che mai abbandona chi la vive; è sempre accompagnata da una profonda emozione e si ricorda con grande gioia e per sempre il buio che ostruisce totalmente o quasi la vista.

Chi si sottopone all’iniziazione, ricorda la compagnia di un tavolino, di pochi e significativi oggetti e di qualche scritta, appena leggibile, sulle pareti di uno stanzino dalle esigue dimensioni.

È impossibile dimenticare la scala che conduce verso il basso, il luogo che si pensa di raggiungere, così come è impossibile dimenticare che scendendo si prende coscienza che una volta iniziato il percorso, l’uomo, oltre a non desiderare di tornare indietro, non può farlo.

Colui che vive l’iniziazione, ricorda che in quell’istante si è consci che tutto sta mutando, che nulla permane nello stato precedente e che è possibile trascorrere un’intera esistenza senza poter mai giungere a consistenti consapevolezze.

Percependo l’emozione che sta vivendo l’alchimista, interrompendolo, lo incalzo:

Tenendo conto che il minuscolo stanzino riporta simbolicamente alla mente quel mondo straordinario conosciuto come la Caverna di Platone, mi spieghi cosa si prova quando s’intraprende il percorso, ovvero, quando si varca la prima soglia?

Pietro, accortosi che, mentre pongo le domande, rappresento l’archetipo del messaggero, con grande sincerità asserisce:

Iniziando la riflessione, muovendo i primi passi e visitando alcuni luoghi, non è più possibile far finta di nulla poiché ci si rende conto di aver ben ponderato la scelta e aver compreso che rappresenta ciò che si desidera.

Quando si inizia a scendere lungo la scala non si riesce a intravederne la fine, perché il buio la fa ancora da padrone. In quel momento mille pensieri invadono la mente e, man mano, si comprende che il luogo diventa sempre più angusto e lo spazio è sempre più piccolo.

Scomparsi i gradini, inizia una discesa molto ripida, in quel luogo che nell’oscurità, sembra poggiare su una terra viva che trasmette innumerevoli vibrazioni ctonie.

Si è costretti a proseguire, prima abbassando leggermente la testa, perché lo spazio si restringe sempre di più, poi a carponi fino quasi a strisciare. In quel momento, corre in aiuto dell’iniziando un lontanissimo bagliore che, rischiarando il luogo, indica il percorso da seguire.

Il recipiendario, a quel punto, inizia a scavare a mani nude, perché vuole prima visitare la propria terra interiore e quindi avanzare nel cammino. Dopo tanta terra smossa riesce a procedere senza essere più costretto a scavare, anzi, giunge in un ambiente molto più ampio e meglio illuminato. L’ampiezza del luogo e la presenza di tanti specchi, che riflettono tutti la stessa immagine, quella dell’iniziando, lo disorientano tanto da provare consistenti capogiri.

Questi specchi, restituendo tante repliche dell’iniziando, fanno comprendere che ognuna rappresenta un difetto posseduto. L’individuo allora inizia a mettersi in discussione, non capendo quale sia la sua versione reale e quale quella rifratta, e a fare i conti con le proprie debolezze, le proprie paure e le proprie angosce.

Fabio, intrigato da quelle parole, intuendo che qualcosa di magico sta pervadendo la navicella che ci ospita, interrompendo l’alchimista, osserva:

Intuisco che oltrepassando la prima soglia, vincendo l’opposizione del guardiano, si fanno i conti con se stessi, ma mi chiedo se poi ciò sfoci in qualcosa di considerevole.

Pietro, dimostrando di aver compreso il senso delle sue parole, ribatte:

Caro Fabio, l’individuo è dapprima sconvolto dal percorso, poi, cominciando a prendere coscienza del cammino, controlla ansie ed emozioni. Comprende di essere, nel medesimo istante, tutte le repliche di se stesso e che la loro molteplicità ricompone l’unicità della vera essenza, la peculiarità che permette sia di riprendere la strada che di guadare un altro fiume e, una volta superato il successivo torrente, riesce a districarsi nella complessità di quello che vede, quindi dal tutto ritorna all’Uno.

La conditio sine qua non, per giungere all’Uno, partendo dalla complessità, consiste, però, nel rimuovere le asperità, nel levigare ciò che è grezzo e nel raggiungere l’orizzonte mediante l’aiuto della volontà.

Resomi conto che, in merito all’iniziazione, non ha più nulla da aggiungere, intervengo:

Penso che l’iniziazione di cui si è appena parlato rappresenti quell’evoluzione da una condizione all’altra in un passaggio cui l’iniziando svolge una parte attiva, composta sia di una morte simbolica, definibile anche come viaggio nella profondità estrema del proprio essere, sia del processo evolutivo di rinascita, che segna l’inizio di quella nuova vita atta a permettere l’auto consapevolezza del proprio sé e la progressiva coscienza della propria realtà interiore.

Fabio, a sua volta, asserisce:

Caro Pulcinella, concordo pienamente con te e aggiungo che l’attraversamento della soglia, che separa la vita profana da quella iniziatica, permette l’accesso ad una nuova vita realizzata attraverso un processo alchemico atto a produrre il passaggio qualitativo dallo stato materiale a quello astrale, illuminato e vibrante di rinnovata energia. Un’energia non mostrata con superbia, ma con quell’umiltà necessaria affinché si possa trasmettere e tramandare i valori posseduti. Umiltà che si manifesta con la testa china e il cammino a carponi.

Rivolgendomi di nuovo all’alchimista, gli domando:

Caro Pietro, cambio argomento perché la lettura del tuo affascinante testo intitolato ‘L’infinita metafisica corrispondenza degli opposti’ mi spinge a chiederti cosa pensi della corrispondenza degli opposti e quale sia il nesso tra questa corrispondenza e l’iniziazione?

Come morso da una tarantola, abbozzando un sentito e convinto sorriso, risponde immediatamente:

L’iniziato, secondo una metafora molto comune, cammina lungo la sottile linea che separa il bianco dal nero. Premesso ciò, mi preme farvi notare che gli opposti debbano intendersi reciprocamente complementari, anziché inconciliabili, e che il percorso esoterico, oltre a riconoscere solamente l’Uno, conduce verso un’infinita metafisica corrispondenza degli opposti.

Li ritengo conciliabili, poiché ad ogni alba segue sempre un nuovo giorno e ad ogni giorno segue sempre la sera e il buio della notte, in una sequenza infinita che manifesta un’armonia capace di dispiegare la magia cosmica dell’Universo. Così come la notte segue il giorno e viceversa, altri eventi o fenomeni permettono agli opposti di viaggiare e nutrirsi sempre reciprocamente.

Se infatti osserviamo la natura, ci rendiamo conto che un principio non può esistere senza l’altro e che, ai fini dell’esistenza, vivono su di un piano sicuramente equipollente.

Ermete Trismegisto, afferma: “Tutto è duale; tutto è polare: per ogni cosa c’è la sua coppia di opposti. Come simile e dissimile sono uguali, gli opposti sono identici per natura e differiscono solo di grado.
Così gli estremi si toccano; tutte le verità non sono che mezze verità e ogni paradosso può essere conciliato, tant’è che la luce esprime pienamente il suo senso perché è accostata alle tenebre”.

In assenza di polarità, quindi di alternanza, il ritmo della vita non potrebbe esistere. Il fotone si oppone all’antifotone, l’inspirazione si alterna con l’espirazione, non c’è Sole senza Luna e non c’è Bene senza Male. La complementarietà degli opposti e la legge della polarità degli opposti, assicurano che ogni cosa mantenga il suo equilibrio; infatti, un polo privo del suo opposto, non ha ragione di esistere.

Trismegisto sostiene che il genere si manifesta in ogni cosa e su tutti i piani. Ogni cosa ha il suo principio maschile e femminile. Questo principio assegna un valore uguale al maschile e al femminile e si applica sia al piano cosmico, che a quello umano. In ossequio a quest’assunto, non esiste nulla di materiale, di fisico, di mentale o spirituale privo di principio.

Questo, oltre a teorizzare che ogni azione creativa ha bisogno delle due polarità, è simile allo Yin e allo Yang del Taoismo. Cari amici, questo simbolo, consiste in due opposti che nel momento in cui s’incastrano perfettamente, generano armonia, anziché uno stato di conflitto.
La ruota dello Yin e lo Yang abbatte la concezione dicotomica, manifesta pienamente l’armonia degli opposti e dimostra che “tutto è Uno”.

Un’evidente peculiarità dello Yin e Yang la si ritrova nell’abbraccio tra il bianco e il nero e che all’interno del bianco ci sia un punto nero e viceversa. In questo simbolo, le due semicirconferenze, che formano la linea che delimita internamente le due parti, diversamente colorate, corrispondono alle due spirali e i loro punti centrali, ossia, il nero nel bianco e il bianco nel nero, ai due poli.

La figura così disegnata manifesta, pienamente il simbolo dell’Androgino primordiale, poiché i due elementi rappresentano il principio maschile e quello femminile, il cielo e la terra, quindi, quell’Uovo del Mondo che rivela l’abbraccio tra il bianco, è il nero. Stretta di cui si deve tener conto e che è affine al piacere e alla sofferenza perché non può esistere l’uno senza l’altro.
A proposito del mistero dell’abbraccio tra il bianco è il nero, vi esorto a riflettere su di esso giacché, difficile da comprendere, non necessita di essere svelato, anzi, va accettato così com’è.

Affascinato profondamente da questo concetto, lo interrompo sia per manifestare il mio pensiero sia per cercare le conferme desiderate.

Caro Pietro, l’equilibrio tra i due generi è importante giacché il maschile, non bilanciato dal femminile, tenderebbe al caos, e, alla stessa stregua, il femminile, non compensato dal maschile, si protenderebbe verso la stagnazione. Gli opposti siano in equilibrio tra loro e il fine dell’uomo sia quello di ristabilire, dove necessario, l’armonia tra questi e con ciò che lo circonda.

L’alchimista, apprezzando molto le mie parole, abbozzando un sorriso che può sembrare beffardo, ma non lo è affatto, ribadisce:

Quando si fa riferimento a tali questioni, penso sia necessario ricordare Eraclito, che, con pieno convincimento, parla del gioco degli opposti nel divenire, ossia, della teoria secondo cui tutto ciò che esiste tende al suo opposto.

Il filosofo greco, per dimostrare che i contrari sono una serie di opposizioni necessarie, afferma che con il passar del tempo “gli elementi freddi si riscaldano e quelli caldi si raffreddano, gli elementi umidi si seccano e quelli secchi s’inumidiscono, la malattia rende buona e dolce la salute, la fame fa apprezzare la sazietà e la fatica fa stimare il riposo”.

Egli, inoltre, inoltre, nella corrispondenza dei contrari, un principio mutabile della realtà, che l’uomo percepisce mediante il continuo divenire. In ossequio alla legge fisica conosciuta anche come dottrina dei contrari, l’inspiegabile e incessante processo fa sì che due forze opposte si completino quando in un’azione reciproca trovano equilibrio.

Tenendo conto che l’energia sussiste grazie al principio di polarità e che in assenza di differenza di potenziale o delle molteplici coppie di opposti, essa non avrebbe ragione di esistere, ritengo si debba concordare con Eraclito.

Fabio, come un atleta fermo ai blocchi di partenza, in attesa dello sparo del giudice di gara, scatta con una potenza inaudita e dice:

Per Carl Gustav Jung quando l’uomo si spinge verso un estremo, con il passar del tempo, si confronta con la dimensione antitetica. Dimostrando un notevole spessore esoterico, definisce e fa sua la funzione regolatrice dei contrari, già anticipata da Eraclito, ritenendo che quando l’uomo, a livello di coscienza, avvantaggia un opposto, con il tempo fa i conti con l’altro, che, a sua volta provenendo dall’inconscio, ristabilisce l’equilibrio e consente la congiunzione delle opposte metà, di cui è fatta la personalità.

Jung, inoltre, ritiene, che la psiche sia duale, ossia, che ogni atteggiamento o sentimento contenga il suo reciproco, ovvero che la sottomissione conviva con la prevaricazione, l’odio con l’amore, il conscio con l’inconscio e l’energia maschile con quella femminile.

Il noto psichiatra e teosofo italiano Roberto Assagioli, oltre a riprendere ed esaltare il concetto di polarità, ritiene rappresenti la forma stessa della vita.

Egli definisce in due modi il concetto di polarizzazione.
Nel primo dice: “La polarizzazione è una delle chiavi più utili per comprendere noi stessi, gli altri e i rapporti reciproci”.
Nel secondo: “La polarizzazione è la guida per prendere la giusta posizione, è il più importante segreto della vita ed è di continua applicazione”.

Pietro, resosi conto Fabio ha terminato il suo intervento, non per rubargli la scena, bensì per dovizia di particolari, aggiunge:

Cari amici, accettare il concetto di polarità significa usare il principio del complemento, anziché quello di non contraddizione, su cui si basano la logica aristotelica e il pensiero scientifico.

Per quanto, attiene, Assagioli, invece, prima spiega, mediante il suo ‘Bilanciamento e sintesi degli opposti’, il concetto di polarità, poi nell’ambito del progresso psicosintetico, lo divulga come tecnica terapeutica essenziale.

Egli sostiene, inoltre, che integrare gli opposti significa mettere in atto un processo vitale ed evolutivo sia a livello personale che sociale.

Pietro, vedendomi quasi distratto, mi chiede se mi stia annoiando, se con le sue parole stia manifestando una eccessiva loquacità.

Prontamente e senza freni inibitori, gli rispondo:

Non mi sto annoiando, anzi, ma la logica aristotelica fa volare la mia mente in direzione di Pitagora, quel luminare che individua dieci opposizioni fondamentali, che sono: Limitato e Illimitato, Dispari e Pari, Uno e Molti, Destra e Sinistra, Maschio e Femmina, Immobile e Mobile, Retto e Curvo, Luce e Tenebre, Buono e Cattivo, Quadrato e Rettangolo.

Pietro, compiaciuto per il volo pindarico della mia mente, commenta:

Tenendo conto anche del pensiero di Pitagora, possiamo dire che ogni cosa, evento o fenomeno ha il suo opposto, giacché tutto è duplice e bipolare. Credo fermamente che l’Uno, scindendosi in due, induca l’uomo a mettere in relazione il due per ritrovare l’Uno.

L’individuo, nel farlo, dimostra di comprendere che il centro della croce rappresenta la risoluzione degli opposti, giacché è in questo punto che si conciliano e si risolvono tutte le antitesi; è lì che si conclude la sintesi di quei termini contrari, che sono tali solo perché osservati in superficie, anziché in profondità.

Fabio, mosso da una considerevole curiosità e dal ricordo della lettura di un articolo pubblicato dall’alchimista sempre su Ex Partibus, dichiara:

Caro Pietro, la mia sete di conoscenza mi spinge a chiederti in cosa consista la cecità esoterica.

Gli occhi di Pietro, a questo punto, s’illuminano di una luce così intensa da rischiarare a giorno il terrazzo cenacolo. Una luce abbagliante che ha la stessa intensità di quella di un faro che squarcia le onde del mare.

Contento per la domanda, risponde:

Tutto ciò che vediamo realizzato nella Cappella San Severo a Napoli deve essere letto mediante differenti linguaggi.

Personalmente, ritengo che la chiave di lettura dell’intero museo debba essere suddivisa sia nel linguaggio religioso – spirituale che in quello esoterico. Tutto ciò che si ammira nella chiesa non è plasmato, scolpito, decorato e dipinto come semplice abbellimento, bensì come strumento per trasmettere profondi messaggi.

Nel mio articolo, parlando di cecità, faccio riferimento alla scultura del Disinganno. Questa statua, oltre a raffigurare un uomo che si libera dalla rete che simboleggia la prigionia del peccato, rappresenta il padre di Raimondo e contiene una dedica intesa a far comprendere che il genitore, don Antonio di Sangro, dopo una vita di dissolutezze, prima si converte, rinuncia ai titoli nobiliari e agli averi, poi trascorre gli ultimi anni di vita da abate della cappella.

A livello di raffigurazione allegorica, il Disinganno incarna una precisa Virtù, ossia, il Disprezzo del Mondo Sensibile a favore di quello Celeste. Nell’opera sono presenti sia il volto dello scultore, che quello dello stesso Raimondo de Sangro. Il bassorilievo del Disinganno mi intriga molto, poiché riporta magnificamente l’episodio di Gesù che dona la vista all’orbo.

La cecità simbolizza lo stato di chi vive nell’errore, nelle tenebre e nell’oscurità. Incarna l’ignoranza di chi non sa di esserlo.
Il non vedente, dal punto di vista esoterico, vive nell’oscurità, quindi la sua infermità spirituale può essere guarita solo dalla Luce.
La mancanza della vista riveste un ruolo importante nella vita dell’uomo, giacché uno dei miracoli più raccontati nei Vangeli consiste nella guarigione della cecaggine.

Questo episodio, ben rappresentato dal Queirolo, non deve essere considerato solo come semplice guarigione fisica, ma anche come rappresentazione di una consistente remissione spirituale.

Tale handicap, riveste un ruolo importante anche negli Atti degli Apostoli; Saulo, infatti, perde la vista sulla via di Damasco e, solo dopo essersi convertito, riacquista la facoltà necessaria a vedere la Luce fisica e spirituale.

Vi invito a riflettere sulla sua menomazione, perché ben raffigura la condizione di essere lontani da Dio e dalla Verità. Dal punto di vista figurativo, essere non vedenti equivale ad indossare una benda che, coprendo gli occhi, fa sì che l’intelligenza sia oscurata da un ostacolo che la allontana dalla retta conoscenza.

La striscia di tessuto, fasciando gli occhi, non sempre rappresenta però un impedimento negativo per l’intelligenza, giacché, tradizionalmente, la Giustizia è rappresentata da una donna che detiene una spada, che indica la punizione, la bilancia, che soppesa le opposte argomentazioni, e la benda, la cecità necessaria affinché la Legge sia imparziale.

La cecità permette all’individuo di percepire quella realtà interiore che, esotericamente, riveste un preminente ruolo nella vita della persona. La visione esoterica inverte la percezione di ciò che si osserva; infatti, ciò che normalmente appare assoluto o sostanziale, diviene relativo o apparente.

A tal proposito, la frase di Carl Gustav Jung: “Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”, racchiude perfettamente il concetto di rinascita dell’uomo.

Personalmente non condivido l’opinione di chi ritiene che “vedere” equivalga a “credere”, di chi, privo di occhi per guardare, non confida nell’esistenza di Dio.

Concordo, invece, con il missionario e scrittore indiano visnuita, Srila Prabhupada, quando afferma che l’uomo per vedere Dio, deve avere gli occhi. Come quando conia, a proposito di chi non crede, la simpatica definizione: “Gli atei sono persone spiritualmente cieche che soffrono della cataratta dell’ignoranza”.

Nella Bhagavadgītā si narra della cecità fisica e spirituale di Dhritarastra, il Re che affetto dall’invalidità che oscura la vista e che impedisce di scorgere la verità, non raggiungendo alcun accordo con i Pandava, i devoti del Signore Supremo, conduce il suo popolo alla guerra di Kurukshetra.

Dhritarastra, nonostante l’Inabilità, riesce ad individuare ciò che accade sul campo di battaglia di Kurukshetra perché Sanjaya, il fido segretario, grazie alla sua consistente visione mistica, gli fornisce una dettagliata descrizione, nonostante la quale egli, però, non è in grado di comprendere gli insegnamenti di Krishna, sia perché affetto da cecità spirituale, sia perché molto legato ad un figlio malvagio.

Le anime prigioniere del mondo materiale, alla stessa stregua del Re non vedente, vivono quella condizione di cecità spirituale che può essere guarita solo da un autentico cammino verso la Luce che, rischiarando il buio delle tenebre, permette all’uomo di proseguire lungo la strada che conduce alla verità.

Ciò che mi interessa è la metafora di un’umanità sostanzialmente cieca, che brancola nel buio alla ricerca della Verità, della Luce. Sono conscio che, certe volte, questo cammino può essere paragonato all’azione di afferrare qualcosa di vago e iridescente, o può sembrare come il procedere a tastoni nell’oscurità, sin dalla nascita, ma sono, comunque convinto che questo non deve spaventare chi desidera abbracciare la conoscenza.

Esiste una cecità definibile come collasso della ragione, dell’etica, della morale che spinge l’uomo, senza che ne sia consapevole, a manifestare quello che molti definiscono bassi e reconditi istinti. Spesso, chi è cieco esotericamente, non sa di esserlo, perché è schiavo dell’ego, dell’arroganza e, a differenza di Socrate, non sa di non sapere.

Ritengo che il non vedente, cosciente di esserlo, sviluppi quei sensi profondi che permettono, nelle tenebre, di percepire di sorseggiare, a stille, la grandezza, l’immensità e l’armonia dell’Universo. L’uomo, geneticamente in possesso di questi sensi profondi, se vuole, oltre a riuscire a conoscere il mondo sensibile, può conoscere sia i mondi che gli arcani superiori.

Terminato l’intervento di Pietro, prende la parola Fabio:

A proposito di Alchimia, tenendo conto di quanto scritto in passato da Pietro, desidero rimarcare l’importanza degli archetipi e di ciò che rappresentano nell’ambito dell’opera trasmutatoria.
Essi possono essere concepiti come ingranaggi, forze motrici di misteriose macchine occulte.

Macchine che sono parte integrante sia della realtà microcosmica che macrocosmica, e che, con il loro moto circolare, generano un mandala che risveglia la coscienza di chiunque osservi il processo.
La materia, il fango primordiale di cui gli archetipi sono composti, oltre ad essere Maschio è anche Femmina e, oltre ad essere Acqua è anche Fuoco. Questa melma è paragonabile ad un gigantesco ventre materno, ricco di sostanze amniotiche, che raffreddandosi, si nutre del suo stesso vapore ed umore, che è molto affine al vaso ermetico, al canopo ribollente, all’Athanor trasmutante.

Il mandala, che in sanscrito sta a significare cerchio, è generato dagli archetipi, si manifesta in forma circolare ed è plasmato dalla stessa armonia di una danza le cui melodie, caratterizzate da accordature ed intonazioni a 432 Hertz. Spesso, questi tipi di mandala, contengono un quaternario o multiplo di quattro, a forma di croce, stella, quadrato, ottagono, che incarnano i disegni geometrici della tradizione indiana che rappresentano il Divino, ne evocano l’aspetto energetico e sono molto utili alla meditazione e alla concentrazione.

Pietro, ascoltate con grande attenzione le parole di Fabio, ma rendendosi, però, conto che le lancette dell’orologio si rincorrono spasmodicamente, scusandosene ci chiede il permesso di salutarci e di lasciare, anche se a malincuore, il terrazzo cenacolo.

Contento per quanto appreso, conscio anch’io dell’ora tarda, prima saluto Fabio, poi, dopo aver accompagnato l’alchimista fino alla sua auto, in compagnia del mio cuppolone e della mia “meza sola”, mi dirigo verso casa.

Intanto, un pensiero, facendosi strada nella mia mente, mi chiede di giungere a delle conclusioni in merito a quanto ascoltato e detto. La prima cosa su cui spontaneamente rifletto, è che l’iniziazione mistica, ionica o femminile, praticata, generalmente negli Ordini Illuministici, è intesa ad ottenere la Luce. Tale iniziazione non necessita di una serie di prove, perché basta desiderarla e volerla con tutto il fervore dell’anima, mentre l’iniziazione dorica o maschile si ottiene dopo aver superato tali impedimenti.

Nell’iniziazione mistica, invece, questi prendono piede nel momento in cui si ottiene la luce. L’uomo, condotto dall’iniziazione mistica alla soglia del mondo invisibile, giunto dalla cecità al dono della vista, terrorizzato dagli avvenimenti, percepisce di essere sull’orlo di un oceano burrascoso, dove spaventose correnti rovesciandosi le une sulle altre riempiono l’aria di orribili grida, rumori assordanti e lamenti che spezzano il cuore. Queste situazioni contingenti, costringono l’individuo ad attraversare le terribili acque sterminate, conscio che, una volta superate, altre e dure sfide lo attendono.

Prove che costringono l’uomo ad entrare in contatto con il Serpente Astrale, vivere l’inferno attraverso cui si deve avere la forza di passare e dal quale si deve uscire vittoriosi se si vuole giungere a Dio. Ostacoli che deve necessariamente superare, se ambisce ad entrare nella Fucina Mistica in cui si compie la Grande Opera. In altre parole, se aspira a ritrovare la Luce, la sua anima deve vivere e superare in modo indenne, la tempesta del dubbio.

Egli è fornito di una coscienza predisposta per guardare verso l’esterno, quindi per percepire sia il mondo sensibile che quello ultrasensibile, per dirigersi verso l’interno, in direzione del Sé, dell’Assoluto. È dotato di una coscienza discendente, che ubbidisce ai dettami della Creazione, e di un’altra ascendente, che ubbidisce all’azione salvifica di Dio.

Le due coscienze, convergendo in un dato punto, diventano un’unica entità e, danno luogo ad un equilibrio esistenziale dove manifestano una consistente concordia che si realizza sia con se stessi che con l’ambiente circostante. Un’armonia che necessità della guarigione, della ricostruzione di quell’equilibrio che incarna il fine dell’uomo.

Equilibrio e Armonia che nella mia lingua madre possono essere così descritte:

Nun correre tanto, p’ ‘a pace ‘e chest’ acqua, chest’ anema stracqua, se vo’ arrepusà.

Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.

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