Stamattina ricordo nitidamente quanto accaduto la notte appena trascorsa, quando, forse il caldo, forse i pensieri, forse per ingannare le lancette dell’orologio, ho deciso di scrivere.
Scrivo? E che scrivo si nun ghiesce niente? ‘e ttre d’ ‘a notte, stanco, che ha da asci’? Veco ca perdo ‘o tiempo inutilmente: ma, senza suonno, comme aggi’ ‘a durmi’? E sto screvenno ‘a n’ora, a tiempo perzo: ‘a n’ora sciupo a carta, ghiengo ‘a penna e scrivo e scasso senza fa’ nu vierzo.
Che tengo ‘ncapa, segatura o vrenna? So’ ddoie quartine, manco nu sunetto. Aggio pigliato ‘a carta e ‘aggiu stracciata, ma po’ me so’ pentuto dint’ ‘o lietto. N’ora a penza’: «Si chelle erano belle?!» E aggio passato ‘o riesto d’ ‘a nuttata, mettenno assieme tutte ‘e ccartuscelle.
Nel percepire che la notte amplifica il silenzio, stanco dell’inganno senz’affanno del buio, decido di tornarmene a letto. Spengo le luci e mi distendo su quel materasso che spesso, anziché lasciarmi a metà del guado, mi fa attraversare il fiume e raggiungere, tra le due sponde, quella pregna di conoscenza. Giaciglio che, di sovente, navigando piano, nell’aria calda dell’estate, mi traghetta verso interessanti e profondi sogni.
In questa cornice serena, come fossi un pianeta, tra il desto e l’addormentato, esco e rientro nell’ombra, dormiveglia che mi spinge sia verso la realtà che vivo ogni giorno, sia verso la tanto desiderata consapevolezza. Uno stato di torpore in cui la mente, ormai fuori dal mio controllo, vagando autonomamente, ricerca le verità anelate.
Sento improvvisamente suonare, in modo limpido ed acuto, il videocitofono e, stropicciati gli occhi, scendo dal letto e vado a rispondere.
È Fabio Da’ath che mi chiede di aprire perché, non riuscendo a dormire, vuole passare il tempo in compagnia di qualche interessante conversazione. Contento per l’inattesa visita, apro il cancello sulla strada e la porta di casa e, nella penombra del salotto, lo invito ad accomodarsi.
Discorriamo in modo superficiale osservando le parole che, volando come le foglie, lasciano un delicato profumo di distacco. Continuiamo a chiacchierare sino a che ci appare l’ombra del cugino di Raimondo di Sangro, il Cavalier Luigi d’Aquino, nobile vissuto nel diciottesimo secolo, che vanta, tra l’altro, di essere il maestro di Cagliostro.
Felice per ciò che sta accadendo e manifestando la mia proverbiale disinvoltura, lo prego di sedersi accanto a noi e lui, conservando il suo innato aplomb, ci regala un parco sorriso.
Fabio, fortemente emozionato, gli chiede se preferisca restare nella penombra o passare alla luce artificiale e lui, di rimando, risponde che predilige la prima, perché utilizzando la mente, anziché il corpo, il suo processo sensoriale garantisce la percezione e la visione reale delle cose.
Infatti, per parlare di esoterismo, tenendo conto che il mondo spirituale spalanca le porte di un cosmo capovolto rispetto a quello che l’occhio osserva, l’uomo necessita di cospicue capacità intuitive ed immaginative.
La luce, oltre ad essere un archetipo, si distingue in fisica ed esoterica o iniziatica.
La fisica è quella che Gesù, già Luce del Mondo, dona al cieco di Betsàida, anziché ai ciechi di cuore.
Giunsero a Betsàida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo. Allora preso il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?».
Quegli, alzando gli occhi, disse: «Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano». Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa. E lo rimandò a casa dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio»
Mc 8,22-26.
Quella esoterica o iniziatica, oltre ad essere invisibile ed illimitata, rappresenta il paradigma universale della divinità. È l’elemento spirituale che, occupandosi del caos, dell’oscurità originaria, mediante il Tutto, delimita, in confini prestabiliti, le tenebre dell’ignoranza.
A tal proposito, il Cavaliere cita Platone, il quale ritiene che ciò che vediamo con gli occhi non è altro che l’ombra della luce vera, mentre la vera luce è rappresentata dal mondo delle Idee eterne, che funge da sede della Verità.
Il filosofo greco, superando i limiti del sensibile, si riempie della Luce del Vero ed individua uno strato superiore della realtà. Egli, scoprendo l’iper-luce delle Idee, dei concetti universali, scorge un livello dell’essere nuovo e pieno di profondi significati.
Fabio, rendendosi conto che lo spettro non vuole aggiungere altro, dichiara:
Anche nella Kabbala ebraica la luce originaria incarna la divinità. In ambito giudaico – cristiano la luce, oltre a possedere qualità proprie, non è affatto concepita come emanazione del Sole.
Nella Creazione, la separazione fra luce e tenebre è la pimandria manifestazione di Dio.Per i buddisti, la Luce, sul sentiero che conduce alla realtà assoluta, equivale alla conoscenza della verità e al superamento del mondo materiale; essa, spesso, è oscurata dalla benda che copre lo sguardo dell’uomo privo di occhi per vedere e di orecchie per udire.
Ascoltate le parole del mio amico, intervenendo garbatamente e, tenendo alta l’attenzione di entrambi, affermo:
La stoffa coprente di cui parla Fabio porta alla mente la storia del giocatore di scacchi che chiede al suo allenatore di insegnargli ad implementare autostima e autocontrollo mentre gioca.
L’istruttore, porgendogli una scacchiera con poggiati alla rinfusa pezzi bianchi e neri, lo invita a disporli in modo corretto, ma prima prende un nastro nero dalla tasca dei suoi pantaloni e glielo offre, affinché si fasci gli occhi.
Il giocatore, a quel punto, ribatte che, senza poter vedere ciò che fa e i colori dei pezzi, è impossibile ordinarli nel modo esatto. L’allenatore, allora, replica che la risposta al quesito iniziale, inteso all’automiglioramento, consiste nella sua stessa affermazione.
I giocatori, infatti, possono leggere innumerevoli libri, imparare infinite mosse, ma tutto ciò è utile solo per conoscere le consuetudini e le regole che governano sia il gioco degli scacchi che il mondo in cui viviamo, le quali, nonostante siano indispensabili per entrambi, da sole non bastano.
Per ambire alla trasmutazione, al mutamento, al miglioramento è necessario rimuovere la benda che impedisce la vista, perché chi è cieco, poiché non conosce la verità, non è in grado di sostituire, con le conoscenze e con i sensi, quella luce che permette agli occhi di osservare, in modo intenzionale, ciò che accade sia nella realtà assoluta che in quella relativa.
Il giocatore deve comprendere che è l’unico responsabile di ciò che gli accade e che quello che contempla non è altro che la proiezione di un film.
Lo spirito del Cavaliere, mentre ascolta il mio racconto, annuisce e, una volta che ho terminato, ci chiede di accogliere, con il dovuto riguardo, l’ombra di un Maestro spirituale esperto in risveglio della consapevolezza, un mistico, mai nato e mai morto sulla terra, poiché l’ha solo visitata, un profondo osservatore dell’animo e dell’essere umano: Osho.
Improvvisamente, mentre il suono circolare ed armonioso di un tampura indiano crea una magica atmosfera, appare una sagoma dalla lunga barba, dallo sguardo capace di manifestare tutta la saggezza di questo mondo, di osservare orizzonti di pura bellezza e di fissare l’interlocutore con teneri e magnetici occhi che riescono a penetrare nel cuore dell’osservatore alla stessa stregua di un puntatore laser.
È impossibile descrivere cosa emani il mio cuore mentre mi accingo a ricevere il nuovo arrivato.
Fabio, accortosi del mio stato confusionale, mi viene aiuto, ma non riesce ad evitare quel caratteristico balbettio figlio del timore reverenziale.
Entrambi, seppur emozionatissimi, mettiamo a proprio agio il visitatore, sia perché la nostra educazione ci induce a farlo, sia perché siamo desiderosi di guadare il fiume che ci conduce al perfezionamento.
Lo spettro di Osho, resosi conto del nostro profondo turbamento, esclama:
Cari miei, a proposito di cecità mi preme dire che le compresenze non sono possibili.
La conoscenza non può coesistere con l’ignoranza, l’intuizione della realtà dell’esistenza non può convivere con la cecità, la consapevolezza non può coabitare con l’inconsapevolezza. L’umanità è immersa in una vasta cecità: io lotto sia contro un’inconsapevolezza enorme che contro le tenebre.
L’uomo che, spontaneamente, decide di serrare lo sguardo è in grado di osservare nei dettagli il suo essere interiore e la sua vera natura.
Allo stesso tempo, colui che ama è cieco, ma capace di scorgere l’invisibile, di giungere sino agli abissi dell’anima.
Chi possiede occhi per vedere, comprende che la verità dimora dappertutto, nel vuoto, nell’assenza della forma, in ogni molecola di ciò che ci circonda, in ogni particella che pervade lo spazio.
Chi, invece, ha la vista offuscata dalla benda, non è in grado di coglierla.
Lo spirito di Luigi ci avvisa di prestare attenzione al prossimo ospite, il famoso scrittore portoghese José Saramago. Come per incanto, delicatissime e soavi note, generate dalle corde di un’invisibile chitarra lusitana, creando una piacevolissima atmosfera, scortano l’ingresso dell’ombra del premio Nobel per la letteratura.
Saluto il nuovo invitato con genuina e profonda gentilezza, lo prego di sedersi accanto a noi e lo invoglio ad aggiungere un mattoncino alla nostra conversazione.
Perfettamente a suo agio, asserisce:
Cari miei, tenendo conto dell’argomento principe della vostra conversazione, poiché l’uomo è ancora orbo, vi parlo del mio romanzo ‘Cecità’.
In un tempo e in un luogo indefinito, un automobilista, fermo con la sua auto al semaforo, improvvisamente non vede più nulla. Affetto da una malattia particolare, poiché vede tutto bianco, è accompagnato prima a casa e poi dall’oculista. Nello studio medico trova un vecchio con una benda nera su di un occhio, un ragazzino strabico, con una donna, e una ragazza dagli occhiali scuri.
L’oftalmologo, visitatolo, non riesce a trovare una spiegazione per quella misteriosa disfunzione, anzi, ne viene contagiato insieme a tutti i pazienti che sono nella sala d’attesa. Quando l’infezione inizia ad espandersi in maniera capillare, il governo decide di mettere i malati in quarantena, che, divisi in gruppi e rinchiusi in edifici fatiscenti, tornano al loro stato primitivo.
Fra di loro c’è una donna che non si comporta come una non vedente, poiché è contemporaneamente dappertutto, aiuta a caricare e si comporta come se guidasse gli uomini.
La moglie del medico, l’unica immune dall’invalidità, per restargli accanto, si finge inferma e viene internata con lui in un ex manicomio. Lì ritrovano il primo cieco e la consorte, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera e il ragazzino strabico, tutti colpiti dal morbo contratto nello studio oculistico.Inizialmente la distribuzione degli alimenti avviene in modo regolare, ma, ben presto, i minorati si ritrovano abbandonati a se stessi perché, eccezion fatta per la moglie del medico, la patologia si diffonde in tutto il paese. All’interno dell’ex ospedale psichiatrico, un gruppo di ciechi malvagi, per ricattare ed ottenere potere e vantaggi, s’impossessa di tutte le razioni di cibo provenienti dall’esterno. Nel corso di uno stupro collettivo, però, la moglie del medico riesce ad uccidere il capo dei ciechi spietati.
Un’altra donna, nel tentativo di renderli inoffensivi, appicca il fuoco ad un mucchio di coperte nella camerata. Le fiamme, sfuggendo ad ogni controllo, finiscono con l’avvolgere tutto l’edificio. Mentre molti muoiono, il gruppo della moglie del medico riesce ad uscire e, finalmente all’esterno, la donna si rende conto dei danni causati dall’epidemia. La città è in uno stato di totale abbandono: defunti per strada e gruppi di ciechi che, oltre ad occupare le case altrui, lottano, l’uno contro l’altro, per assicurarsi le vivande disponibile.
Il gruppo della moglie del medico cerca di organizzarsi e riacquistare la dignità sottratta durante la reclusione e, nel frattempo, tra i membri s’instaurano amicizia e collaborazione. A loro si unisce un randagio, il cane delle lacrime, attirato dal pianto della donna. Nel finale, tutti guariscono, senza alcuna ragione apparente, proprio come si erano ammalati, all’inizio della vicenda.
L’ombra del Cavaliere d’Aquino, ascoltatolo ed accertatosi di poter parlare, aggiunge:
Cari amici, credo che il tema della storia sia l’indifferenza tra uomini che, pur vedendo, non vedono, e che prende piede con il proliferare di una cecità mentale già presente prima della propagazione del contagio. Uomini che sono parte integrante di una società priva del necessario senso di solidarietà e tolleranza tra le persone.
Questo racconto porta alla mente, tra i tanti trovati a Qumran, la località abitata da una comunità essena, il manoscritto di Amran, il cui frammento 1-2-3 merita attenzione, dato che si occupa di Tenebra e Luce, intese come personificazioni angeliche del Bene e del Male.
Il versetto recita così:
“Io vidi dei Vigilanti nella mia visione, la visione del sogno. Due uomini stavano lottando al mio riguardo e ingaggiando una grande disputa su di me.
Io domandai loro: chi siete voi, per avere su di me un tale potere? Essi mi risposero: noi abbiamo ricevuto potere e dominio su tutta l’umanità. Essi mi dissero: quale di noi tu scegli perché ti governi?
Io alzai i miei occhi e osservai: uno di loro era d’aspetto terrificante, come un serpente, il suo manto era variopinto, ma molto scuro… Ed io osservai di nuovo, e… nel suo aspetto, il suo volto era come una vipera.Gli replicai: questo Vigilante, chi è? Egli mi rispose: questo Vigilante è il Principe delle Tenebre e Re del Male.
Io gli dissi: mio Signore, quale governo ha? Lui rispose: ogni sua via è oscura, ogni sua opera oscura. Nelle Tenebre egli vive. Tu vedi, egli ha potere su tutte le Tenebre, mentre io ho potere su tutta la Luce. Dalle regioni superiori alle regioni inferiori io governo su tutta la Luce, e su tutto quello che è buono. Io governo su ogni uomo. Io ho ricevuto potere su tutti i figli della Luce.Io gli chiesi: quali sono i tuoi nomi. Egli mi rispose: i miei tre nomi sono, Michele, Principe della Luce, Re della Giustizia. Io tutto vi farò conoscere, proseguì, certamente io vi farò sapere; che tutti i figli della Luce saranno resi Luce, mentre tutti i figli delle Tenebre saranno resi oscuri. I figli della Luce avranno accesso alla Conoscenza, e i figli delle Tenebre saranno distrutti poiché tutta la follia e il Male sarà oscurato, mentre tutta la Pace e la Verità sarà resa Luce. Tutti i figli della Luce sono destinati alla Luce, alla gioia eterna, alla letizia. Tutti i figli delle Tenebre sono destinati alle Tenebre, alla morte e alla distruzione, per lo splendore per il popolo”.
Cari miei, queste due creature angeliche, svolgendo compiti differenti, operano sino alla venuta del Creatore. Il Principe della Luce sovrintende alla verità, alla giustizia, alla letizia e alla conoscenza, l’Angelo delle tenebre al male, alla follia, all’errore, alla menzogna e alla distruzione. Quest’ultimo si distingue negativamente perché tenta i figli della Luce, allo stesso modo e nello stesso deserto in cui Cristo affronta la tentazione, ma, nonostante i molteplici tentativi, non riesce ad avere il sopravvento sul Bene.
Dopo quella che potrebbe essere intesa come una divagazione, ma che non è affatto, lo spettro del Cavaliere spiega:
La differenza tra l’uomo affetto da cecità spirituale e quello che riesce a vedere è ben espressa dalla Kabbala. L’immagine bipolare luce – buio, bene – male, rappresenta la chiave del cosmo. Non a caso, chi ne divulga la dottrina ritiene che, l’emanazione luminosa, agendo come vibrazione ordinatrice del caos, sia l’artefice della creazione del mondo sensibile, ossia, della dimensione terrena.
Lo spirito di Osho, rendendosi, a sua volta conto che quella del Cavaliere ha concluso, asserisce:
Cari miei, la mente umana si lascia fuorviare dall’apparato visivo e questo inganno rende l’individuo spiritualmente non senziente. A tal proposito vi narro la storia del Monaco Buddista e dello Sciamano.
Il primo domanda: “Voi Sciamani, pur credendo nella forza della natura, non sapete che essa è solo un’illusione”?
Il secondo risponde: “Certo che ci crediamo e lo sappiamo”.
“Ma allora, perché?”
“Perché ci fa ridere”.
“Come?”
“Sì perché nell’illusione sono presenti anche i Monaci che credono esistano gli Sciamani”.Questo episodio fa riflettere, perché se l’uomo non riesce a liberarsi della benda che copre i suoi occhi, non può fare altro che aggrapparsi alle apparenze. Lo stesso Buddha inserisce l’ottenebramento, tra le tre radici del male.
Credetemi, essa non è altro che quell’imbarbarimento dello spirito che, oltre ad impedire d’intravedere la vera natura dell’uomo, non consente di guardare la luce divina. La cecità spirituale afferisce l’intelletto e rappresenta l’ipertrofia della volontà.
L’ombra di Luigi, conscia che né io, né nessun’altra entità presente nella stanza intendiamo aggiungere altro, chiede a tutti di trattare con premura la nuova presenza che si accinge ad unirsi a noi.
Essa è indescrivibile, inidentificabile, più luminosa delle altre ed è accompagnata dal suono di una delicatissima aria, realizzata da un’invisibile e melodiosa chitarra classica, che sembra priva di esecutore.
Prima che io possa omaggiarla nel giusto modo, con un tono di voce fermo e distaccato, enuncia:
Sant’Agostino scrive che l’accecamento spirituale, che solo Dio può guarire, perché Egli solo è la vera luce, è un peccato, per il quale si cessa di credere in Lui; è castigo per lo stesso, perché punisce l’animo superbo tirandogli contro il giusto sdegno e odio dell’Altissimo; è causa dello stesso, quando il cuore, ingannato dalla passione, viene a commettere qualche cosa di male. Così i Giudei, accecati dall’errore e dall’indurimento dello spirito, perseguitano Gesù Cristo e lo mettono a morte.
Udite queste parole, mentre un’impercettibile arpa, prendendo il posto della chitarra, si spande nell’ambiente con suono delicato, mi accorgo che tutti, pian piano, abbandonano la casa per far ritorno al loro nido.
Lo stesso Fabio, senza aprire l’uscio, si allontana e, nel farlo, impreziosisce le note declamando un sonetto dai tanti e profondi significati:
“Se il buio mi scivolasse dentro, vedrei nell’ombra la bellezza, poiché la luce al centro fissa ogni realtà dell’impurezza. Con il cuore che continua nel suo lamento, chiedo, dal profondo, vera luce.
Vivo quasi sempre a luce spenta. Limito la visione di questo mondo truce, che lascio illuminar dal perpetuo lume.Non voglio un mondo che vuol sembrar bello. Che il suo bello sia semplice e reale.
Che non loda questo o quello. Che sia sobrio, candido e morale. Cieco per scelta e per bellezza, fin quando il cuor acquisirà la mano vera che accarezzerà e in quel momento guarirà, l’ingannevole cecità”.
Ascoltate anche queste parole, la mia mente si libra verso vette indescrivibili e, sorvolando il mondo sensibile, innesca un discernimento che conduce a consistenti e diverse riflessioni.
La prima è antropologica ed afferisce il saggio di Saramago. La quarantena da lui citata, oltre a far pensare alla pandemia da Coronavirus, mostra alcune salienti caratteristiche dell’essere umano.
L’intellettuale sembra evidenziare come la gente sia naturalmente incline alla sopraffazione e all’indifferenza, tanto di fronte alle catastrofi naturali che non la riguardano da vicino, quanto alle morti causate da guerre insensate. Passare accanto ai corpi esanimi e non vederli è una vecchia abitudine, ormai radicata nel tempo.
Nel descrivere i soprusi e le violenze che si scatenano nel carcere e fuori di esso, il geniale letterato rimarca che i conflitti sono sempre frutto di un offuscamento che conduce al trionfo dell’homo homini lupus, ossia, dell’uomo lupo per l’altro uomo.
In altre parole, attira l’attenzione sul trionfo della natura dell’individuo, che, schiavo del suo egoismo, privilegia la legge del più forte e si lascia guidare sia dall’istinto di sopravvivenza che da quello di sopraffazione.
Saramago, inoltre, sottolinea che i limiti del singolo lo riportano ad uno stadio primitivo che, facendogli scegliere il male, anziché il bene, lo conduce a quell’oscurità della mente che ben simbolizza l’indifferenza.
Nel tener conto dell’irrazionalità, si lascia andare ad un profondo, indiscutibile ed inderogabile avviso: se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere totalmente come animali.
Nel descrivere sia l’abbrutimento delle anime senza vista, che la violenza, figlia del contagio, riscontra una tara che, anziché riguardare gli occhi, consiste in una condizione insita nella natura umana, che, in modo volontario, copre lo sguardo con un velo scuro. Oltre a ritenere che l’individuo sia già orbo prima di diventare tale, lascia intendere che alcuni indossino una benda virtuale, giacché pur vedendo, non vedono.
Secondo lui, molti vivono il buio della ragione; infatti, quando i ciechi abbandonano la quarantena, lasciandosi andare ad una guerra fratricida, non fanno altro che combattere per accaparrarsi beni e cibo.
Una lotta per il territorio messa in atto perché, incapaci di affrontare le vicissitudini della vita, anziché far prevalere il bene sul male, smettono di cercare la Luce.
La seconda considerazione, nonostante molti mi ritengano un giullare dal pensiero superficiale, mi induce a ritenere che l’essere umano, con la sua mente finita, non sia in grado di concepire ciò che è infinito, quindi, celando lo sguardo, si sottrae ad un compito ritenuto ingrato e gravoso e, oltre a ridurre il divino alla misura antropica, allontana i sentimenti che migliorano se stesso e la sua condizione.
Invece, colui che è provvisto di occhi per guardare, di orecchie per udire e cuore per amare, riuscendo a distinguere la realtà assoluta da quella relativa, inizia a sviluppare un nuovo stato di coscienza, che, oltre a renderlo consapevole della sua insita indole, gli permette d’intervenire sui processi fisici e psichici che formano l’universo e di collegare ciò che è in basso con ciò che è in alto.
Allo stesso modo, Gesù, ridando la vista al cieco, lo inizia e gli dona una nuova visione della realtà, consistente nella verità spirituale. L’uomo, risanandosi dall’handicap di cui non sa di essere affetto, sottoponendosi all’iniziazione, è in grado di salire i gradini della scala di Giacobbe, la cui base è poggiata sulla terra e la cui cima giunge in prossimità della Luce.
Egli, guarendo dalla cecità mentale, riacquista quella prospettiva che gli permette di osservare la propria vita e l’ambiente circostante, in una prospettiva spirituale più vicina all’immanenza divina.
Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è tesoro, sarà anche il tuo cuore. La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona.
Matteo 6,19-24
Restanne dint’ ò lietto, penso: che suonno, che spreco scetato ‘int”ô scuro! Ah… si putesse dicere chello c’ ‘o core dice; quanto sarria felice si ‘o sapesse dì! E si putisse sèntere chello c’ ‘o core sente, dicisse: eternamente voglio guardà anziché vedè.
Intanto, preso dalla stanchezza, nel passare dal dormiveglia al sonno profondo, penso che la cecità spirituale sia quella disabilità che, pur consentendo all’individuo di vedere, non gli permette di guardare la primavera che, ogni giorno, accompagna l’esistenza.
Autore Domenico Esposito
Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.