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Privacy e giovani: una nuova prospettiva

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Esistono tre generazione che possono essere definite quelle dei Nativi Digitali, vale a dire i nati dal 1980 ad oggi, che sono praticamente nati già con la tecnologia e un device in mano.

Sperimentano una condizione di connessione perpetua come modo di vivere quotidiano. Questi ragazzi interagiscono diversamente da come facevano i bambini delle generazioni precedenti, studiano, lavorano, scrivono attraverso nuove modalità.

Leggono blog e post sui social invece di giornali, scaricano musica da Internet invece di comprarla nei negozi di dischi, studiano tramite motori di ricerca e scrivono con il copia incolla. Spesso si conoscono in rete prima ancora che di persona. Mandano messaggi per darsi un appuntamento pomeridiano, invece che usare una telefonata.

Per alcuni di loro il primo animale di cui si sono presi cura è stato il Tamagotchi e sono tutti legati tra loro da una cultura comune nella quale le loro interazioni sociali, amicizie, attività, sono mediate dalle tecnologie digitali. E non conoscono un modo diverso di vivere.

Del resto, molti di loro vengono già instradati su questa strada da genitori assenti o distratti, e comunque non curanti della loro privacy, che già durante l’infanzia mettono loro in mano tablet o smartphone per farli addormentare o mangiare tranquilli.

Questi giovani stanno vivendo un rapporto con la loro riservatezza, la privacy, la tutela del proprio “io” che è esattamente l’opposto di tutte le passate generazioni.

E sicuramente non si rendono conto di quanto ciò sia pericoloso in quanto li espone a pericoli non solo di esibire la loro personalità a chiunque senza alcuna remora, ma anche di essere vittime di furti di identità e di manipolazioni da parte delle medesime macchine a cui hanno demandato la loro stessa esistenza.

Inoltre, nell’epoca dei social, nella quale l’apparire prevale su altri valori e l’approvazione del cosiddetto popolo della rete e, in particolare, dei follower è diventata fondamentale.

L’immagine deve essere accattivante, performante, attrattiva per avere like anche a costo di snaturarsi dalla persona che si è o che si dovrebbe essere in un mondo non caratterizzato dal virtuale.

I contenuti, una volta demandati ai testi scritti, sono ormai sempre più visuali e TikTok ha definitivamente sdoganato il video per tutti.

Conseguenza: la privacy è un concetto del quale i giovani non hanno consapevolezza. La riservatezza e un minimo di protezione di sé stessi sono concetti che sembra non abbiano senso in un contesto dove tutto deve essere necessariamente fatto vedere agli altri oppure non esiste. E questi altri, chiunque essi siano, devono manifestare la loro approvazione.

Non è mistero che una persona venga valutata solo per i like che ottiene, i commenti e il numero di follower che ha.

Da dati reperibili in rete e ricerche, emerge che oltre il 50% degli under 14 ha ammesso di avere modificato almeno una volta una foto prima di postarla, e le ragazze che mostrano maggiore propensione a farlo rispetto ai ragazzi anche insieme alla pratica di scattare molte foto per scegliere la migliore da condividere.

Sempre dalla rete si apprende che oltre il cinquanta percento dei giovani intervistati ha confessato di rimuovere tag dalle foto non gradite, cancellato commenti non apprezzati e, in via preventiva, inviato le foto agli amici prima di condividerle.

Difficile in questo contesto, oltretutto globale, cercare di spiegare che cosa voglia dire diffondere senza alcuna forma di controllo i propri dati, tentare di mantenere riservata la propria personalità, proteggersi.

Potremmo giungere ad un totale cambiamento nel paradigma della privacy richiesta e voluta in teoria da tutti ma, alla quale, le giovani generazioni sembra proprio abbiano definitivamente rinunciato.

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Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.