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Politically correct, sì, ma non per chiesa e meridionali

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Le “strane” deroghe all’ipocrita morale del pensiero unico

Le assurde pretese del politically correct sono sempre più asfissianti, tanto da farci chiedere, in un precedente articolo, se prima o poi non ne moriremo.

Ci sono, però, due eccezioni, universalmente accettate e riconosciute, che costituiscono l’ennesima di quelle regole non scritte su cui si fonda l’ipocrita etica del pensiero unico.

Riguardano la chiesa cattolica e i meridionali.

Se qualcuno si lascia sfuggire un’affermazione vagamente offensiva nei confronti di qualsiasi religione, sia questa anche il Pastafarianesimo, le crociate dei politicamente corrette scattano immediate.

Colui o coloro che si sono resi colpevoli dell’offesa diventano bersagli, sono denigrati, mediaticamente distrutti da chi muove le fila con orde di non-pensanti pronte a scagliarsi contro.

Se, invece, si tratta di veri e propri insulti rivolti alla religione cattolica, allora va tutto bene, soprattutto se queste offese vengono dalle solite intoccabili comunità – caste.

E non si tratta, si badi bene, di critiche alle propaggini secolari della chiesa, che potrebbero pure starci.

No. Ne sono vilipesi i simboli fondamentali, che molto spesso sono molto più antichi della stessa religione cattolica.

Ci si aspetterebbe indignazione. Viene offesa comunque la spiritualità di milioni di persone.

Detto, questo, sia chiaro, da un non cattolico quale sono.

Ma niente, tranne qualche sporadica protesta sui social, tutto passa nell’indifferenza generale.

I paladini del politically correct sono distratti. Non si inginocchia nessuno.

Stessa sorte è condivisa dai meridionali.

Se in uno stadio si alzano cori razzisti contro una qualsiasi etnia, ci sono polemiche, sanzioni, reprimende, come è giusto che sia.

Se, invece, il coro o lo striscione offensivo riguarda i meridionali, allora va tutto bene. Se si inneggia all’eruzione del Vesuvio, fa nulla, cosa vuoi che sia.

La cosa altrettanto strana è che tutte queste becere manifestazioni di ostilità e gli altrettanto beceri silenzi dei santoni del politically correct, riguardano, più che i meridionali in generale, la città di Napoli.

Cosa ancora più paradossale, non sono rare le volte che a scagliarsi contro Napoli siano altri meridionali. A cantare non siamo napoletani, sono spesso altri campani.

E non si tratta di semplici cori da stadio.

Gli esempi di politici, giornalisti, opinionisti e “intellettuali” che fanno lo stesso sarebbero infiniti.

Perché tanto accanimento contro Napoli?

Possiamo individuare due livelli di riflessione.

Il primo si basa su meccanismi istintivi e, per tanto, individuali.

Napoli è troppo, Napoli è tutto.

Napoli è cultura, arte, gastronomia, architettura, teatro, letteratura, scenari naturali.

Napoli è una storia millenaria, metropoli quando la maggior parte delle altre città moderne non esisteva ancora o era poco più che villaggio.

Il problema, forse, è che Napoli non è solo bellezza, che si caratterizza per il senso di piacere che trasmette.

No.

Napoli è un sublime kantiano e, per questo, il sentimento più comune è di disagio.

Il bello si accorda col sublime in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Inoltre, entrambi non presuppongono un giudizio dei sensi né un giudizio determinante dell’intelletto ma un giudizio di riflessione […].

Ma saltano agli occhi anche differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità […]

Tra i due tipi di piacere c’è inoltre una notevole differenza quanto alla specie: mentre il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e di intensificazione della vita, e perciò si può conciliare con le attrattive e con il gioco dell’immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto come gioco, ma come qualcosa di serio nell’impiego dell’immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva […]

merita di essere chiamato un piacere negativo.
Immanuel Kant – Critica del giudizio

Il piacere legato al sublime, dunque, presuppone un salto nell’uso dell’immaginazione, in una più sottile dinamica di attrazione e repulsione.

Anche nei mille difetti, che ha e che non possono essere negati; che ha, come tutte le metropoli. Che ha anche per colpe più politiche che legate alla città.

La politica. Certo. Ma non vogliamo impelagarci su questioni del genere.

Andiamo oltre.

È facile, dunque, di fronte al sublime, provare disagio, sentirsi piccoli.

Poi, ognuno reagisce come può.

L’altra riflessione, invece, ha un respiro più ampiamente sociologico.

Pier Paolo Pasolini definì Napoli come l’ultimo villaggio.

Cosa voleva dire, con questa affermazione?

Lo chiarisce lui stesso.

Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà ecc. ecc.; ma strano, ciò che conta non è questo.

(…) Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare.

Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.

La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).

I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletano, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.
Pier Paolo Pasolini

L’unicità di Napoli, dunque, sarebbe anche nel rifiuto della modernità.

E diremmo noi, nel rifiuto della massificazione, dell’omologazione, ma soprattutto della disumanizzazione che un certo modello di modernità porta con sé.

In una serie di articoli avevamo provato a definire cosa si possa intendere come umanità.

Cosa distingue l’uomo dagli altri animali?

Forse la bellezza? L’arte?

E cosa resta dell’uomo senza bellezza, senza arte?

Continua ad essere uomo?

Napoli, dunque, potrebbe essere, nel suo esistere come ultimo villaggio, il residuo che resta all’umanità?

Ci sovviene un passo di Luciano De Crescenzo:

Io, dice Saverio – del mio quartiere so tutto.

E per forza, perché a Napoli ci sono le corde tese da palazzo a palazzo per stendere i panni, e su queste corde le notizie corrono e si diffondono – dice Bellavista.

E già perché, se ci pensate bene un momento, per stendere una corda tra il terzo piano di un palazzo ed il terzo piano di un altro palazzo è necessario che le signore inquiline dei suddetti appartamenti; si siano parlate, si siano messe d’accordo: «Signò, adesso facciamo una bella cosa, mettiamo una corda fra noi e voi, così ci appendiamo il bucato tutt’e due.

Voi il bucato quando lo fate? Il martedì? Brava, allora vuoi dire che noi lo faremo il giovedì che così non ci possiamo, tozzare».

È nato il colloquio ed è nato l’amore.

I panni stesi al sole sono tutti belli – dice Luigino.

lo da piccolino pensavo che i panni si stendevano al sole per festeggiare qualcosa, come se fossero bandiere. E ancora oggi tutti questi panni mi danno allegria.

Non ho mai capito perché in certi quartieri signorili è proibito stendere i panni all’esterno.

Il fatto poi che a Napoli queste corde legano tutte le case l’una con l’altra è una cosa veramente importante; ma voi ci pensate?

Immaginate per un momento che il padreterno volesse portarsi in cielo una casa di Napoli.

Con sua grande meraviglia si accorgerebbe che piano piano, tutte le altre case di Napoli, come se fossero un enorme gran-pavese, se ne vengono dietro alla prima, una dietro l’altra, case corde e panni.
Luciano De Crescenzo

Il senso del villaggio è espresso tutto in questo dialogo del compianto scrittore partenopeo.

La solidarietà è organica, si basa sul rapporto diretto, affettivo, emotivo.

È amore, è colloquio.

Napoli è comunità, lo è ancora.

Nel senso espresso dal sociologo tedesco Ferdinand Tonnies.

Napoli resiste come Gemeinschaft pur essendo una metropoli di mare inserita nel cuore della Gesellschaft europea.

Napoli che vive una sua propria autentica e originale dimensione mitica.

Che conserva, praticamente intatte, tradizioni pagane precristiane.

Che convive con vampiri e demoni, munacielli e belle ‘mbriane.

Che della comunità fa sopravvivere tradizioni, come quella della zuppa di cozze del giovedì santo.

È questo il motivo per cui è così osteggiata?

Perché Napoli è un villaggio di circa un milione di abitanti?

Che arrivano a circa 3 milioni e mezzo se andiamo a considerare tutta l’area metropolitana, conglomerata, che diventa un unico immenso centro urbano?

Chi resiste, chi non si piega dà sempre fastidio.

È per questo che la propaggine di chi non è nemmeno campano si affanna a provare a cancellare un’identità a colpi di scartoffie?

È per questo che la narrazione di Napoli, tranne poche piacevoli eccezioni, è assolutamente denigratoria?

È per questo che da 18 anni c’è chi manovrato dall’alto, prova a demolire anche la passione per il calcio, che a Napoli assume connotati mitici, eroici, oltre che socializzatori nel senso più genuinamente legato alla Gemeinschaft?

E lo fa non perdendo occasione per offendere Napoli e i napoletani, tranne appigliarsi ad una non meglio precisata napoletanità quando si tratta di risparmiare su ingaggi o creare traditori da offrire in pasto ai non più napoletani.

Anche questo discorso dovrebbe essere trattato a parte, troppo lungo per essere esaurito in un articolo che, sostanzialmente, parla di altro.

È per questo che qualcuno continua ad accanirsi contro la movida?

Perché la Napoli il cui centro storico torna ad essere agorà di giovani e non solo dà fastidio?

Qualcuno preferisce che il centro storico semideserto torni ad essere territorio della malavita organizzata o della microcriminalità?

Mi ricordo che alcune zone popolari, ai tempi in cui frequentavo l’università, erano  ‘impraticabili’ dopo il tramonto.

Oggi sono una festa di locali, turisti, giovani.

Rumorosi? Forse.

Ma se fossi un abitante di quei quartieri preferirei questo alla zona di nessuno.

Il problema è davvero la birra o lo spritz servito a qualche quasi maggiorenne?

Il problema sono davvero i panni stesi?

Il problema sono davvero i fuochi di artificio? Che a Napoli, a differenza di altre realtà dove comunque sono utilizzati, assumono una più marcata valenza apotropaica?

Perché criminalizzare questa usanza e non altre di altri paesi?

Il ferito dal toro che corre per le strade di paese è meno ferito di chi spara i botti, ad esempio?

Potrebbe essere, Napoli, un esempio pericoloso da seguire per chi vuole ancora mantenere dei margini di umanità?

Vuole continuare ad essere comunità?

I napoletani continuano ad essere umani, è forse questo il problema?

Almeno quelli che resistono. Quelli che sono ancora napoletani, in modo irripetibile, irriducibile e incorruttibile.

Quelli che resistono, almeno, scegliendo di estinguersi.

Perché ci sono anche quelli che accettano la modernità, quelli che in una sorta di etnocentrismo invertito si convincono di essere culturalmente e, perché no, anche geneticamente, inferiori, Lombroso docet.

Quelli che sono napoletani ma non si vede.

Loro sono altro, non sono dei napoletani trasformati.

No, loro davvero non sono napoletani.

Esistono diversi termini per definirli, li risparmiamo.

Fintanto che ci saranno, i veri napoletani, continueranno nel loro unico possibile modo di essere. Fino all’estinzione saranno, forse, gli ultimi baluardi di una umanità quasi definitivamente smarrita.

È questo il motivo per il quale lo stesso De Crescenzo affermava che Napoli è l’ultima speranza per l’umanità.

Napoli è un villaggio di umanità che resiste nel cuore della modernità disumanizzante.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.