Prima viene lo stomaco, poi viene la morale.
Bertold Brecht
Viviamo in un’epoca in cui la gestione cosiddetta d’impresa vige in ogni campo: i cittadini sono diventati portatori di interessi, la volontà politica sovrana del popolo «accettabilità sociale», le leggi «norme», i vincoli sociali «responsabilità sociale d’impresa».
Un’epoca in cui lo spirito pubblico, come ambito a sé stante di abitudini, costumi, linguaggi condivisi, è un reperto del passato.
Al suo posto è subentrato il campo dei portatori di interessi, l’arena delle dispute identitarie in cui ogni individuo si rapporta esclusivamente al proprio io e ne rivendica il valore precipuo, servendosi di categorie un tempo importanti e ridotte oggi a meri cliché: censura, privilegio, razzismo.
I costumi cessano così di definire un mondo comune e diventano il terreno di una feroce battaglia per stabilirne le norme. Dal tentativo di imporre norme estranee all’uso consolidato della lingua alla rimozione del conflitto sociale in favore della disputa, permeata di presunte virtù morali intrise di sociologia, tra sessi, orientamenti sessuali, età ed etnie di questa trasformazione in cui non ne è più nulla di ogni autentica prospettiva di emancipazione.
Può accadere, così, che si lotti per i diritti degli omosessuali, mostrandosi ostili all’immigrazione musulmana nel proprio Paese, e, allo stesso tempo, che i poveri vengano detestati, perché considerati responsabili dell’assistenzialismo sociale di cui usufruiscono.
Per riaprire la prospettiva di una lotta per l’emancipazione occorrerebbe rompere totalmente con le dinamiche delle dispute identitarie, opporsi sia alla parte cannibale odierna, che le ha elette a propria ragione d’esistenza, sia all’altra parte vandalica, che difende con le unghie e con i denti la libertà di espressione per gli unici discorsi che le si addicono, e battersi per l’uguaglianza, la cultura, la salvezza del mondo comune, nell’istante in cui una devastante crisi sociale e ambientale ne minaccia l’esistenza.
Come appare evidente guardando alla storia del pianeta, l’umanità si trova oggi davanti a un bivio: proseguire imperterriti sulla strada dell’atomizzazione individuale e della disintegrazione sociale, oppure deviare verso un nuovo modello di convivenza, che sia in grado di reinventarsi il vivere comunitario.
Non un semplice progetto politico, dunque, ma una trasformazione sociale radicale, che identifica nella comunità il suo nucleo primario. Ovviamente, non la comunità chiusa, che si pone come totalità escludente, bensì quella aperta e solidale, che attraverso un processo di autocreazione fonda, al contempo, un nuovo immaginario, un nuovo ethos e una nuova materialità attraverso numerosi e consolidati esempi di esperienze comunitarie.
E allora ribadiamo che una nuova minaccia incombe sulla nostra società: quella che proviene da individui che, sognando un mondo più giusto, chiedono più censura “per il bene di tutti”.
Questa nuova forma di autoritarismo sostiene la messa al bando o il divieto di circolazione di tutte le idee che essa non condivide e percepisce il linguaggio stesso come una potenziale minaccia da sorvegliare e disciplinare.
Ma tali buone intenzioni flirtano pericolosamente con il totalitarismo: la cancel culture, la sistematica demonizzazione di coloro che non si allineano, la compiacenza dei grandi media, la censura applicata impunemente dai giganti dei social network, le ingerenze di uno Stato sempre più paternalistico nel discorso privato e le ambigue legislazioni sul “discorso d’odio” sono solo alcuni degli esempi di questo fenomeno, tanto lampanti quanto sottostimati.
Ma l’autoritarismo dei buoni è pur sempre un autoritarismo.
Chi avrebbe mai immaginato, solo pochi anni fa, che prendere le difese della libertà di parola, la pietra angolare di tutte le altre nostre libertà, sarebbe stato sufficiente per essere etichettati come reazionari?
Ricordiamolo senza troppa enfasi ma nemmeno senza troppa leggerezza: il politicamente corretto è un’ideologia liberal-progressista e multiculturalista affermatasi alla fine degli anni Ottanta nelle università americane.
Secondo la dottrina americana del politically correct, mai apertamente enunciata ma ferocemente applicata, tutto deve essere politicamente corretto: dai comportamenti sessuali ai gusti letterari, al modo di parlare, di vestirsi, di scrivere. Esisterebbe dunque un modo “giusto” di fare le cose.
Secondo l’autore il pungolo segreto del “politicamente corretto” è l’insofferenza nei confronti di tutto ciò che ha una qualità e, per questo motivo stesso, si distingue, operando una discriminazione verso tutto il circostante.
Alla fine degli anni Ottanta, chi vi aderiva si proponeva inizialmente di modificare il linguaggio comunemente usato, in particolare quei termini che si presumono discriminatori nei confronti delle minoranze, come nel caso del termine “negro”, sostituito con afroamericano, ritenuto selettivo dal punto di vista razziale.
Una volta imposto il lessico, gli ideologi del politicamente corretto hanno avuto gioco facile a imporre determinati standard comportamentali, dapprima sanzionandoli moralmente fino all’intimidazione verso chi non li osserva, per poi trasformarli in reati attraverso un incessante lavoro di lobbying e di propaganda, anche se non recano alcun danno alle persone.
Poteva essere una banale forma di rispettoso galateo di fine millennio ma è degenerato ormai da diversi anni, trasformandosi in un paradigma ideologico estremamente attivo e pervasivo nelle nostre democrazie, prescrivendone le regole linguistiche e azzerando le differenze.
Una neolingua nata come risultato di un conformistico pensiero unico mondialista. Ne viene fuori una melassa indifferenziata, dove si annullano le identità e dove non esiste vera libertà, ma soltanto una piena omologazione del pensiero unico.
L’illusione profonda che genera è quella della libertà illimitata, perché il politicamente corretto manifesta comprensione e tolleranza per non far trasparire la piena volontà di controllo e di conservazione dello status quo.
Ancora oggi si tende a considerare alcune censure come irrilevanti vezzi d’epoca postmoderna e invece ci si accorge che siamo al cospetto di una pericolosa ideologia del terzo millennio dal sapore totalitario, che si alimenta tramite la martellante propaganda della retorica, diciamo molto progressista, incessante e dominante nel sistema mediatico e in quello educativo.
Dunque, tale correttezza politica, nata con l’apparente e lodevole intento di tutelare le minoranze attraverso la creazione e l’uso di un linguaggio più edulcorato, ha modificato, nel profondo, la percezione della realtà, riducendo i dissidenti a colpevoli ideologici, condannati a priori da un presente che rimodula la storia e il pensiero dell’uomo.
Esso rappresenta una pratica di dominio senza precedenti: conia nuove parole, monopolizza il dibattito pubblico, lancia scomuniche e riscrive la storia.
Divenuta il soft-power della globalizzazione, questa teologia laica impone i dogmi del multiculturalismo, del femminismo e della rivoluzione sessuale, decostruendo le identità e dando forma ad una “società aperta” fondata sulla neutralità asettica dei generi, sull’intercambiabilità sradicante delle culture e sulla mobilità apolide degli individui e delle merci.
La chimera di un’uguaglianza universale che ha sostituito la “lotta del proletariato” con i fantomatici “diritti delle minoranze”, erigendo il relativismo etico a parametro di un mondo liquido senza più riferimenti, appartenenze e confini.
Lo ripetiamo: questo concetto sta diventando una forma di dittatura del pensiero unico. Una caparbia ostinazione che porterà solo odio e pericolose derive. Diventerà sempre più demolitore del pensiero liberale perché si arrampica su un terreno liberale, o pretende di avere radici liberali, ma guasta il suo senso e tradisce il suo significato intimo.
Muta un metodo aperto in un credo chiuso. Difatti, mi pare evidente che utilizzi i metodi illiberali più tipici: etichettare i suoi avversari, qualificarli come inadeguati per una società civilizzata, meritori di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto.
Questa tendenza finisce per condannare irrimediabilmente il liberalismo ad un destino minoritario, se non anche settario, in cui solo pochi, i giusti o gli auto-eletti, possono identificarsi. Essi porteranno alla salvezza la loro anima politica in un mondo di infedeli e rinnegati.
In tale tendenza c’è un’inclinazione elitaria che è facilmente e demagogicamente osteggiata dall’attuale ondata di populismo, costringendoci ad elemosinare pietà per quella poca ma ancora forte libertà che spira tra le trame del nostro pensiero ribelle alla volontà comune che ci impone le regole per il bene di tutti.
Il politically correct non ci cambia, ci zittisce.
Glenn Beck
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.