Neapolis – Puteolos attraverso l’antica via Antiniana
12 luglio 2020
Il Cammino è una ricerca spirituale profonda in cui si è in continua meditazione, in cui si avverte la profondità della propria anima che cerca di valicare livelli sempre più altri.
Alcuni di essi, alcuni Cammini spingono dalle viscere in maniera così profonda che non possono essere fermati, taciuti o nascosti. Devono esprimersi nell’intera loro pienezza.
In questo, da Napoli a Pozzuoli, ho cercato di seguire il più possibile la via Antiniana “per colles” facendo riferimento soprattutto a quanto ipotizzato dagli archeologi Werner Bernardo Johannowsky e Mario Napoli negli anni ’50 del Novecento. Come supporto storico cartografico, invece, ho utilizzato quanto tracciato da Niccolò Carletti nel 1775.
Alcuni dubbi ne ho avuti, ma, per quanto mi è stato possibile, ho cercato di non distaccarmi troppo da quanto da loro scritto. Il punto di partenza/arrivo dell’antica strada romana è posto da Johannowsky nell’odierna piazza San Domenico Maggiore, che qui pone la X Milia, nel Decumano Inferiore.
Qui si trovava la Porta Cumana, nei secoli spostata lungo lo stesso Decumano con l’ampliamento delle mura cittadine: prima nei pressi del complesso di Santa Chiara, poi, nella prima metà del Cinquecento, al termine di via Toledo. Da Porta Cumana divenne in periodo Angioino Porta Regia e, infine, Porta dello Spirito Santo per la realizzazione della basilica ominina lì nei pressi.
Il mio punto di partenza, invece, è stato piazza San Gaetano e questo per omaggiare quella che era l’agorà, il foro della Napoli greco-romana dove ancora oggi svettano, solitarie, le due colonne corinzie, uniche rimaste del tempio dei Dioscuri, lì dove sorge l’attuale basilica di San Paolo Maggiore. Un saluto, una benedizione per il Cammino dal cuore della città.
Il sole si alza morbido, come una lente che raccoglie la luce dell’Universo per convogliarla, lanciarla lungo il Decumano Maggiore. Rosso arancio si dipinge l’aria posata sul basalto accanto al campanile della Pietrasanta, dove il grifone, incastonato nei suoi mattoni, ricorda la duplice natura dell’uomo.
Il complesso della Pietrasanta è di per sé simbolo, essendo sorto sul tempio dedicato a Diana. Quel tempio divenne in era cristiana la prima chiesa dedicata alla Madre di Dio: Santa Maria Maggiore. Il grifo, nella sua dualità, accompagna la fusione, il passaggio, la continuazione tra Diana e Maria. Per chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Per chi valica i sensi.
Un ragazzo bengalese, credo, alla ricerca di una sigaretta mi fa compagnia per il breve tratto fino a San Pietro a Majella, dove due suoi connazionali iniziano ad aprire il loro piccolo bazar di legno. Davanti a me sbanda un ragazzo dai capelli lunghi, biondi raccolti in un codino dietro la nuca. Il torso nudo, coperto solo da un gilet aperto nero decorato con fiori rossi, bianchi ed oro. Gli occhi raccontano tanto della notte appena trascorsa. Sono quasi le sei e mezza e i bar danno inizio all’impresa di imprimere il calore nei primi risvegli.
San Paolo Maggiore e San Lorenzo, le due basiliche che erano parte dell’antico foro.
L’uno di fronte l’altro, i due santi si incontrano con San Gaetano che, con le braccia aperte, accoglie quella luce d’oro dall’alto del “basso” del suo piedistallo. “Basso” perché il progetto originario voluto nel XVII secolo dai padri Teatini, e realizzato da Cosimo Fanzago, prevedeva la statua del santo posizionata su un’alta guglia piramidale.
La famiglia Pisani diede inizio, però, ad una disputa temendo che l’opera, una volta realizzata, avrebbe avuto problemi di stabilità crollando, poi, su una loro proprietà lì adiacente.
Per un po’ sono rimasto in attesa, non so esattamente di cosa, ma ho atteso.
Il sole sfiora le braccia di Gaetano e da lì il campanile di San Lorenzo, posandosi per pochi istanti sul volto di Lorenzo, in piedi sul portale della cappella Pignone, con nella destra la graticola del proprio martirio. Con il fuoco, attraverso quella graticola, fu impresso il marchio sull’intero suo corpo che lo portò alla morte.
Lorenzo, che fu sorpreso nelle catacombe a celebrare l’eucarestia, è lì ancora a testa alta all’interno di una nicchia che accoglie i primi raggi di Sole, ma che guarda anche in alto al di là dello stesso cielo, quando le scintille scaturite dalla graticola lo invadono squarciando per quel tempo, solo per quel tempo, i lembi fragili della realtà.
Il cammino ha così il proprio inizio. Via San Gregorio Armeno è vuota nella squadratura del monastero e della chiesa. Qui sorgeva il tempio di Cerere. In questo luogo Santa Patrizia, il femminino inscindibile dal mascolino rappresentato da Gennaro, entrambi parti del Rebis Virgilio, arrivò dall’oriente armeno attraverso Costantinopoli portando con sé il teschio di San Gregorio l’Illuminatore.
Le botteghe degli artigiani presepisti, discendenti, probabilmente, da quegli artigiani che negli stessi luoghi realizzavano statuette in terracotta che vendevano ai devoti della dea Cerere, sono inserrate come le grate delle monache che si affacciavano sui loro accessi.
La Domus Ianuaria, ad angolo al termine della strada, reca il busto del Santo Gennaro volto verso la chiesetta, primo edificio di culto a lui dedicato, che porta l’appellativo “all’Olmo”. Svoltato l’angolo mi ritrovo sul Decumano Inferiore, via San Biagio dei Librai.
Il limite verso il mare della Napoli greca, dove, poco più giù, si innalzava la cinta difensiva.
Una pianta geometrica dà vita alla natura stessa della città, con le proprie proporzioni, i suoi numeri sacri scritti lungo i Cardini e i Decumani, ai bivi e alle scelte del viandante che si trovava e ancor oggi si trova a compiere, dando, così, forma al proprio destino, realizzando e concretizzando la concatenazione di eventi che lì, davanti ai suoi passi, si sono rivelati.
In quel bivio trovarono posto le reliquie di San Biagio portate a Napoli dalle monache armene. Questi divenne il patrono della corporazione dei librai napoletani di cui faceva parte il povero Antonio Vico, padre di Giambattista che in questa chiesetta fu battezzato.
Mi incammino lungo quel Decumano avendo il Sole alle spalle che lento continua il suo personale cammino nel cielo. Mi soffermo per qualche minuto davanti alla chiesa che onora i Santi Filippo e Giacomo. Ed è proprio Giacomo a guardarmi, a guardare i miei passi.
L’anima a volte somiglia un po’ ad uno Strandbeest di Theo Jansen, in questo caso il vento è il cammino che innalza in turbinii l’anima posata come foglie sul giaciglio di terra umida.
Davanti la strada è dritta, arrivo a San Domenico Maggiore passando per il Corpo di Napoli in cui è custodita l’anima antica della città.
Il basolato di piazza San Domenico Maggiore racchiude l’Opera della città. La grande stella bianca a dodici punte al centro della quale svetta la guglia di Cosimo Fanzago che sorregge la statua del santo.
Secondo la tradizione la stella fu vista brillare sulla sua fronte dalla madre alla sua nascita, divenendo, così, simbolo di predestinazione, ma anche di guida e orientamento, scintillando nel cielo notturno ad indicare il cammino. È la stella Polare che ad otto punte appare nelle raffigurazioni del santo, ma è anche simbolo di Maria.
In questa piazza, però, è stata raffigurata con dodici punte, simile a quella michelangiolesca presente in piazza del Campidoglio a Roma. Simbologia, questa, antica che affonda le radici nella tradizione egizia giunta fino a Pitagora e alla Cabala, per divenire, poi, parte del primo cristianesimo, sintesi pura della Tradizione mediterranea. Simbologia che assume un ruolo di primaria importanza, infatti, nella Cardiognosis come nella frase “μακάριοι οἱ καθαροὶ τῇ καρδίᾳ, ὅτι αὐτοὶ τὸν θεὸν ὄψονται” attribuita al Christos da Matteo
Mi siedo e ascolto. Un centro. Il Centro. Sto per lasciare Napoli, sto per uscire dalle sue mura. Nel tempio alle mie spalle prendono vita le profondità di Giordano Bruno e San Tommaso d’Aquino. In quel tempio avvenne un passaggio, un attraversamento importante della mia vita.
Poco più in là il principe di Sansevero realizzò il proprio tempio, non una chiesa, ma un sepolcro, come lo definì Matilde Serao
glaciale […] tutto vi è gelido, tranquillo, sepolcrale.
Benedetto Croce collocava in questa zona, tra la piazza e il Nilo, il tempio isiaco degli alessandrini. Mi siedo e vedo alla mia sinistra la linea retta che congiunge la Stella al Corpo e, da qui, ai Dioscuri attraversando il campanile di San Gregorio.
Si percorre il tempo da una dimensione all’altra. Si attraversa una membrana non si bene dove posta. Forse non ha una collocazione specifica, credo sia il singolo a darle uno spazio lungo il proprio cammino. Una squadra ben tracciata in cui il cuore, rappresentato dai Dioscuri, è congiunto al Corpo che racchiude l’Anima, e alla mente, la Stella di San Domenico. Squadra che collega le due statue del Fanzago: Gaetano e Domenico.
Il Sole continua il suo cammino in cielo ed io riprendo il mio su questa terra attraversando la piazza del Gesù Nuovo, dove un’altra guglia monumentale è posta a guardia delle mura esterne. La Madonna Immacolata che sottomette il male indica anche l’accesso alla Napoli parallela, la Napoli sovrapposta a quella dei sensi.
Chi sa ed osa varcare quella porta dovrà affrontare l’Anima della città in cui l’ombra dei vicoli diviene luce di conoscenza e i raggi del sole si tramutano in veli per chi non ha gli strumenti per alzarli.
Lascio alle spalle l’opera dei maestri pipernieri per arrivare alla chiesa del Santo Spirito, sorta di fianco a quella che era una porta di accesso alla città. La targa angioina indica ancora oggi la disposizione ultima della Porta dello Spirito Santo, della Porta Regia, della Porta Cumana.
Questa è posta a via Toledo sul palazzo Petagna e così recita:
Egregie nidi sum regia porta platee / moenia nobilitans hic urbis parthenopee.
Nel 1560 Pietro de Stefano così traduceva:
Io sono la Regal Porta dell’egregia strada di Nido, queste mura sono la nobiltà de la città de Napoli.
Qui il limite ultimo in cui la colomba bianca, il Nous, discende sul viandante che entra o che esce, ma qui, sotto le sue ali, il candore purifica in ciò che è Uno e Duo allo stesso tempo. L’entrata e l’uscita dai misteri non hanno più senso proprio se non inteso come unico movimento vibrante.
Autore Fabio Picolli
Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!