La maestria di Pupi Avati nel disegnare un contesto storico e nell’estrapolare il meglio dagli interpreti scelti per rappresentare una storia delinea, perfettamente, il giudizio per ‘Il papà di Giovanna’.
Accurata la descrizione dei particolari dei personaggi e delle loro fisime rivelatrici di passioni e di dolori celati; scrupolosa la ricerca di un’evoluzione costante della narrazione che non appesantisca lo scorrere degli eventi, ricerca addirittura esasperata in un finale troppo affrettato.
Siamo a Bologna, la storia attraversa il periodo fascista dalla sua ascesa alla sua caduta: Giovanna è una ragazza psicologicamente labile e fisicamente poco appariscente; l’assenza quasi assoluta di rapporti sociali la rende fragile ed insicura nonostante l’assidua presenza di un padre che, ossessivamente, le parla spiegandole l’importanza dei propri sogni, di inseguire ciò che si vuole perché prima o poi capiterà.
Alla figura paterna si contrappone quella di una madre che pare non riuscire a capire la figlia, il suo comportamento, il suo modo di essere, unita alla volontà di non sforzarsi nemmeno di comprenderla.
A seguito di un’amicizia nata con una ragazza della Bologna bene, Giovanna comincia ad avere i primi contatti con il mondo esterno, anche se la sua personalità non sembra trarne giovamento, fino a quando, a scuola, la stessa in cui suo padre insegna disegno, non incontra un ragazzo che parlandole la fa sentire finalmente come le altre, anzi meglio delle altre.
Giovanna si innamora, credendo di essere ricambiata; il padre è emozionato per questo anche se il suo istinto, la sua profonda conoscenza della figlia, lo induce a pensare che questa straordinaria emozione potrebbe farle del male… e così avviene.
Il dramma familiare raccontato da Pupi Avati si svolge di pari passo con il dramma di un’intera nazione che prima viene abbindolata dall’effimero rinnovamento per poi vedersi distruggere a poco a poco dalla dittatura fascista.
È emblematico il passaggio che il regista riesce a fare dal momento più alto del regime, con il popolo travolto dall’entusiasmo che la propaganda diffonde strategicamente, agli istanti più bui di una storia che ha visto l’emanazione delle leggi razziali, la perdita delle libertà e dei diritti fondamentali per la gente, la guerra con i bombardamenti e le morti e il dopoguerra, con le esecuzioni sommarie e le vendette personali.
Un cast tanto anomalo quanto apprezzabile per intensità e naturalezza: come in ogni film Avati regala piacevoli scoperte a livello interpretativo.
Serena Grandi è davvero brava nel difficile ruolo della paraplegica vicina di casa della famiglia di Giovanna e suo marito è interpretato da Ezio Greggio che, abituati a vedere in veste comica, mostra buone doti drammatiche nei panni del poliziotto Sergio, migliore amico del papà di Giovanna, ma da sempre innamorato di sua moglie.
La madre della protagonista ha il volto di Francesca Neri e probabilmente l’attrice in questa pellicola affronta una delle prove più difficili della sua carriera riuscendo pregevolmente ad incarnare una quantità di emozioni represse da una donna che, volenti, si è cercato di rendere antipatica al pubblico, cinica ma non per questo condannabile a priori.
Giovanna è interpretata ottimamente da Alba Rohrwacher, una delle giovani attrici più promettenti del cinema italiano, a cui va il merito di riuscire a mostrare l’incomprensibile umanità di una ragazza indifesa e instabile che si erge a paladina delle proprie emozioni arrivando a togliere la vita a un’altra persona; da lodare le intense scene di lei rinchiusa in manicomio.
Il papà di Giovanna è Silvio Orlando: eccezionale la sua interpretazione dell’italiano medio frustrato da una vita che sognava differente. Compagno del pittore Morandi all’Accademia di Belle Arti di Napoli non ha avuto la stessa fortuna nel dipingere ed è finito ad insegnare disegno; la figlia, troppo diversa dalle altre ragazze, diventa sua unica ragione di vita e la voglia di proteggerla e di farle coraggio diventa quasi un’ossessione per lui.
Questo affetto è interpretato straordinariamente da Orlando che recita con lo sguardo, con la mimica, esterna i suoi pensieri, compresi i più tristi, anche senza parlare; sono magistrali i duetti con la Rohrwacher perché esemplificativi di tutta la storia, del morboso rapporto padre-figlia, legame in parte forzato da un mondo esterno che li esclude, in parte da una precisa volontà che, automaticamente, porta un padre a difendere la figlia da ciò che può farla soffrire.
L’attore è stato premiato con la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia per questa interpretazione e, giustamente, ha diviso il riconoscimento con Pupi Avati e con tutto il gruppo che con lui ha dato vita a questo film, delicato e intenso dramma familiare all’ombra del fascismo.
Autore Paco De Renzis
Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.