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Pagare per ricevere pubblicità? Lo state facendo

Pubblicità


Qualcuno di voi ricorda ancora quando la pubblicità in TV era un momento di gioia e di unione della famiglia?

Era l’ora più bella del giorno per molti ed un premio per i bambini per i quali, la punizione peggiore era andare a letto senza poter vedere Carosello.

Era una pubblicità educata, in punta di piedi, discreta e non invadente.

Registi come Sergio Leone, Pupi Avati, Fellini e Pasolini si sono cimentati negli spot pubblicitari che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Totò, Nino Manfredi, Raffaella Carrà, Peppino De Filippo, Walter Chiari e moltissimi grandi nomi del cinema e dello spettacolo.

Era l’unico spazio pubblicitario concesso dalla RAI e, ovviamente, era una gara tra le aziende non solo per averlo, ma anche per offrire agli spettatori un’immagine di qualità della loro azienda e dei prodotti che venivano offerti. Prodotti che trovavano un’identificazione in uno slogan o nella faccia del personaggio scelto come testimonial.

Oggi, invece, la pubblicità abbiamo deciso di pagarla. E a caro prezzo.

Tutto ciò che riceviamo quotidianamente dei nostri dispositivi digitali è ciò che dobbiamo accettato compaia in cambio della possibilità di iscriverci ad una piattaforma social, di navigare su un determinato sito, di poter leggere le notizie di un giornale.

È scritto chiaramente in quelle pagine riempite a piccoli e fittissimi caratteri, in linguaggio tecnico legalese, che forse nessuno legge ma che dichiara, mentendo, di conoscere e accettare.

Basta un semplice click ed ecco che abbiamo accettato di “ricevere messaggi personalizzati anche dai nostri partner e fornitori selezionati (da chi?)” ai quali permettiamo che vengano trasmessi i nostri dati di navigazione e tutte le nostre scelte e interazioni al fine “di garantire un’esperienza di navigazione migliore e in sintonia con le vostre preferenze”.

Potremmo anche non accettarlo ma, in quel caso, otterremmo “avvisi pubblicitari di carattere generale e non personalizzati”.

In estrema sintesi, noi paghiamo con i nostri dati personali, l’esclusivo privilegio di ricevere una quantità a volte insostenibile di messaggi pubblicitari.

Lo dicono chiaramente anche le condizioni generali di Facebook e di Instagram al momento dell’iscrizione.

Per poter usufruire di uno spazio dove postare le foto dei gattini, delle nostre pizze, i selfie passati attraverso un numero incredibile di filtri, noi paghiamo permettendo ai gestori di utilizzare tutte le informazioni e i contenuti che veicoliamo attraverso la rete.

Inutile e sciocco (per non dire altro), condividere sui nostri profili un messaggio con il quale non autorizziamo Mark Zuckerberg a utilizzare i nostri dati, foto e così via.

L’unico modo per farlo sarebbe chiudere i nostri profili. Ma, anche in quel caso, nulla possiamo fare per il passato. Tutto ciò che abbiamo inviato online resta e resterà nella memoria infinita ed eterna del sistema.

Esistono anche sentenze che ci danno la conferma del fatto che quella che insistiamo a chiamare “iscrizione” è, in realtà, la conclusione di un contratto con il quale l’utente accetta di mettere a disposizione della piattaforma non solo un indirizzo mail e alcune informazioni personali bensì, l’intera cronologia della sua navigazione, le scelte e i like, i post e tutto ciò che possiamo inviare sul web e che, direttamente o indirettamente, rivela qualcosa della nostra identità.

Si potrebbero aprire lunghe ed interessanti discussioni sulla validità del consenso di un minore che mette a disposizione e a repentaglio l’intera sua identità a chi si trova dall’altra parte dello schermo.

Anche se leggi e regolamenti europei indicano come età minima per l’iscrizione ad un social tredici anni, sorgono perplessità sulla validità del consenso per pagare l’accesso con il bene più prezioso che esiste e che è anche il più rubato di sempre.

Con buona pace di chi insiste nel rivendicare il diritto alla sua privacy alla quale, viceversa, ha rinunciato quando ha iniziato a navigare.

Soluzione possibile?

Ripeto, è una sola. Chiudi i social e disconnettiti. Se puoi.

Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.

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