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‘O Munaciello

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Esoterismo da leggende napoletane

Se vuoi tramandare un messaggio ai posteri, dallo al popolo. Esso, trasformandolo in gioco, favola o leggenda lo perpetuerà in eterno.

Un popolo che ha saputo mirabilmente fondere ed amalgamare racconti e verità e trasmettere, avvolti in un’aurea di mistero, i messaggi delle immense civiltà che si sono succedute nella sua città dalle molteplici contraddizioni e crocevia di innumerevoli culture, è quello napoletano.

Fra le tante leggende che mi hanno sempre affascinato quella che occupa un posto particolare riguarda il Munaciello, lo spiritello dispettoso, pazziariello ed un po’ “rattusiello” la cui “presenza” ancora aleggia nei vicoli di Napoli.

Tale figura ben si è prestata, con le sue varianti fantasmine, a tanta letteratura ironica e satirica degnamente rappresentata nella commedia degli equivoci, tra cui “Questi Fantasmi” di Eduardo de Filippo e “La Gatta Cenerentola” del grande studioso della Napoletanità Roberto De Simone, ed è servita e serve ancora a trattare, con un’aria di segretezza mista ad umorismo, determinati argomenti.

Non nascondo che, a tutt’oggi, provo ancora un certo disagio ad entrare in quei palazzi dei luoghi della mia infanzia in cui si diceva albergasse lo spiritello in questione. A far scattare in me il desiderio di approfondire l’argomento è stata una scena a dir poco esilarante cui ho assistito una mattina in quel teatro itinerante che sono gli autobus napoletani.

In un diverbio piuttosto animato di coppia, un giovane marito accusava la moglie di aver prelevato dei soldi a sua insaputa cosa che lei negava fermamente. Alla fine la signora ebbe un’intuizione e disse: “Vuoi vedere che li ha presi il Munaciello?” A quel punto il marito assentì e tacque. Dovetti scendere dal bus per non scoppiare a ridere loro in faccia.

Ma come e dove la fervida fantasia popolare e la cultura napoletana fanno nascere l’allegorico” personaggio?

 Ho trascritto tutta la storia affinché il lettore abbia il quadro completo e possa apportare un valido contributo con le sue riflessioni.

La quale istoria fu così. Nell’anno 1445 dalla Fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Catarinella Frezza, figlia di un mercatante di panni, si innamorò di un nobile garzone, Stefano Mariconda. E come è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto e di rado fu vista coppia d’amanti, egualmente innamorata, egualmente fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite, che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Mariconda contro Stefano – e Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti dal padre e dai fratelli, torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire gli amanti mangiassero veleno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia ineffabile. A tarda notte, quando nei chiassuoli dei Mercanti, non compariva viandante veruno, Stefano Mariconda, avvolto nell’oscuro mantello, che mai sempre protesse ladri ed amanti, penetrava in un andito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, riesciva sopra un tetto e di là scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava sul terrazzino, dove lo aspettava, tremante dalla paura, Catarinella Frezza. Lettor mio, se mai fremesti d’amore, immagina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso, mani traditrici afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla ferriata lo precipitarono nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini. Il bel corpo di Stefano Mariconda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via, per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura. Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta: e perché v’è dubbio sul destino di quell’anima, strappata dalla terra e mandata jnnanzi all’Eterno carica di peccati, e perché a gentiluomo non conviensi altra morte violenta che di spada.

La Catarinella fuggì di casa, pazza dal dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo assegnato dalla ragion divina e dalla ragion medica, non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino, piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che passava, non cresceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante persona di Stefano Mariconda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna, perché desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi, e fece indossare al bimbo un abito nero e bianco, da piccolo monaco e scarpe con fibbia d’argento. Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza e la Catarinella non s’ebbe la grazia chiesta. Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene, ella continuò a vestirlo da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava, in suo volgare, il bambino: lu munaciello. Le monache lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari, Taffettanari, Mercanti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e quasi mostruosa, dal volto terreo, in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaventati, dall’abituccio strano: e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe, contro persona debole ed inerme. Quando lu munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia e gli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare, quanto comprendesse lu munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli venivano dirette, ma è certo che egli riedeva alla madre pensoso e melanconico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la madre lo faceva inginocchiare e gli dettava le sante parole dell’orazione. A poco a poco in quei bassi quartieri, dove egli muoveva i passi, si divulgò la voce che lu munaciello avesse in sé qualche cosa di magico, di sovrannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando lu munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio. Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, lu munacidello era bestemmiato e maledetto.

Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che, guardando nei pozzi, guastava e faceva imputridire l’acqua; lui che, toccando i cani, li faceva arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane; lui che, spirito maligno, suggeriva al re nuovi balzelli. Appena lu munaciello scantonava, a capo basso, con l’occhio diffidente e pauroso, correndo, o nascondendosi fra la folla, un coro di maledizioni lo colpiva. Il fango della via, che gli scagliavano veniva a insudiciargli la tonacella; le bucce delle frutta troppo mature lo ferivano nel volto. Egli fuggiva, senza parlare, arrotando i denti, tormentato più dall’impotenza della picciola persona, che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell’orto; ma, anche esse, a vederlo d’improvviso, in un corridoio, nella penombra, si sgomentavano, come per apparizione diabolica. S’avvalorava il detto dalla faccia cupa del munaciello, dal non averlo mai visto in chiesa, dal trovarlo in tutti i luoghi, a poca distanza di tempo. Finché una sera, lu munaciello scomparve. Non mancò chi disse, che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Ma per fede onesta di cronista, mi è d’uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a torto, i Frezza d’aver malamente strangolato lu munaciello e gittatolo in una cloaca li presso, da certe ossa piccine e da un teschio grande, che vi fu ritrovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo speculare quale sia favola, quale verità, lascio e raccomando specialmente alla prudenza e saggezza del lettore. Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito – soggiungo io, oscuro commentatore moderno – con la morte del munaciello. Anzi, tutto è cominciato. La borghesia che vive nelle strade strette e buie o malinconicamente larghe e senza orizzonte, che ignora l’alba, che ignora il tramonto, che ignora il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell’arte; questa borghesia che non conosce che sé stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di vanità, gonfia di nullagine; questa borghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sull’erba molle dei prati, non è lo spiritello che canta sulla riva del fiume; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è lu munaciello. Non abita i quartieri aristocratici di Chiaia, di S. Ferdinando, del Chiatamone, di Toledo, non abita i quartieri nuovi di Mergellina, del rione Amedeo, di via Salvator Rosa, di Capodimonte: la parte ariosa, luminosa e linda della città, non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, di Mercato, di Porto e di Pendino, il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno.

Dove è stato vivo, s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa, la faccia pallida, i grandi occhi lucenti, la tonacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto nero, lì ricompare, nella medesima parvenza, pel terrore delle donne, dei fanciulli e degli uomini. Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio, là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga ed insaziabile vendetta. Egli si vendica epicamente, tormentando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino, se veramente questo munaciello esiste e scorazza per le case e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete udirne delle storie, ne udrete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello…
Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto sfondata, il vaso dell’olio riverso e il prosciutto addentato dal gatto, è senza dubbio la malizia del munaciello, che ha schiusa quella porta e cagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi, colui che l’ha fatta incespicare, è proprio lui, lo spiritello impertinente; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese, che lavora all’uncinetto e le fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma; è lui che fa inacidire il vino nelle bottiglie; è lui che dà la iettatura alle galline, che ammiseriscono e muoiono; è lui che spianta il prezzemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita in bottega va male, se il superiore all’uffizio fa una rimenata, se un matrimonio stabilito si disfa, se uno zio ricco muore, lasciando alla parrocchia, se al lotto vien fuori 34, 62, 87 invece di 35, 61, 88 è la mano diabolica del folletto, che ha preparato queste sventure grandi e piccole. Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili, rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il munaciello che gli mette i diavoli in corpo; quando la fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione, s’immalinconisce, sorride guardando le stelle, sospira guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di autunno, è il munaciello che le guasta così la vita; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel fazzoletto, e si fa arricciare i capelli, rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco, gli occhi pieni di visioni, l’aspetto trasognato, è il munaciello che turba la sua esistenza; quando la moglie fedele si ferma, a guardar troppo il profilo aquilino ed i mustacchi biondi del primo commesso di suo marito e nelle fredde notti invernali, veglia, con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la salvatrice Avemmaria, è il munaciello che la tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello; è il diavoletto che dà al marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva MariaFrancesca; è il folletto che fa cadere in convulsioni le zitellone isteriche. È il munaciello che scombussola la casa, disordina i mobili, turba i cuori, scompiglia le menti, empiendole di paura. E lui, lo spirito tormentato e tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero. Ma la cronaca vendica lo dice, o buon lettore: quando il munaciello portava il cappuccetto rosso, la sua venuta era di buon augurio. È per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. È per questo che le fanciulle innamorate si mettono sotto la sua protezione, perché non venga scoperto il gentile segreto; è per questo che le zitellone lo invocano a mezzanotte, fuori il balcone, per nove giorni, perché mandi loro il marito, che si fa tanto aspettare; è per questo che il disperato giuocatore di lotto gli fa lo scongiuro tre volte, per averne i numeri sicuri; è per questo che i bambini gli parlano, dicendogli di portar loro i dolci ed i balocchi che desiderano. La casa dove il munaciello è apparso, è guardata con diffidenza, ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto, è guardata compassionevolmente, ma non senza invidia. Ma colei che lo ha visto – apparisce, per lo più, a fanciulle ed a bimbi – tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leggenda, rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana: è, vale a dire, un’anima ignota, grande e sofferente in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stramente simbolico; un’anima umana, dolente e rabbiosa; un’anima che ha pianto e fa piangere; che ha sorriso e fa sorridere; un bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomo; un folletto che tormenta gli uomini come un bambino capriccioso, e li carezza, e li consola, come un bambino ingenuo ed innocente.

In un contesto epocale in cui il sacerdozio era considerata vocazione regale ed i religiosi ed i monaci in particolare, erano temuti dal popolo sia per le loro proprietà di stregoni, sia per le loro attività inquisitorie, Napoli, approfittando di un fatto di cronaca si creò il suo particolare folletto, il suo spiritello, un giusto mezzo tra il bene ed il male. Qualcuno da poter oltraggiare ed adulare senza incorrere in “peccato”, qualcuno da poter incolpare per i propri problemi, disavventure, magagne, deficienze, qualcuno cui additare precise azioni, qualcuno da poter trattare quasi come pari ”’na cosa e miez tra ‘o riavul e l’acqua santa”, ma contro cui non ci si poteva opporre, essendo cosa spirituale, di altro mondo.

Non uno qualunque, non un normale spiritello dei boschi, piuttosto un preciso elemento allegorico, un monaco, quantunque piccolo. Potevano chiamarlo farfariello (da farfur-diavoletto?), diavoletto, gnometto? No, Munaciello.

Niente è dato al caso. Credo che il nome sia stato creato ad hoc, come pure il finale della storia che, a mio avviso, poteva benissimo terminare con l’entrata in convento della ragazza. Invece Napoli ci ha messo la “ionda”: la ragazza è incinta e, mistero della genetica, da due baldi e sani giovani nasce un figlio nano e deforme, che viene alla luce in un convento, come a dire, il diavolo nasce in un luogo sacro.

La saggezza popolare individua nel religioso e più propriamente nel monaco, l’esatta dualità tra il bene ed il male, tra la verità e la non verità.

La diffidenza verso i monaci però è notoria; alcuni di loro sfruttando l’ignoranza, il bisogno, la superstizione e la paura del soprannaturale, perpetravano innumerevoli malefatte nei confronti proprio del popolo.

In base a quanto sopra, credo che una mente molto sottile abbia escogitato un modo per trasmettere ai posteri il simbolico messaggio, oltre a prendersi la soddisfazione contro un monaco, cosa che a quei tempi non aveva prezzo. Far passare poi le sue azioni per opere del demonio ampliava l’allegoria e serviva a metterne alla berlina vizi, malefatte, usi, abusi e soprusi.

“È il Munaciello che tenta e palpeggia le giovin signore e turba le loro esistenze”, perché il religioso interveniva sovente anche nella sfera della sessualità che è sempre stata manovrata da sacerdoti di ogni cultura e religione, forse consapevoli della sua forza. Così come nel tempo, per influsso ecclesiastico, si è sempre avuto un timore reverenziale nei confronti dell’amore e della sessualità, quasi come se tale pensiero potesse essere fautore di chissà quali tragedie personali o pene future.

Si è sacramentato l’amore trasmettendo il concetto che in seguito a rapporti consumati al di fuori del matrimonio religioso si generassero figli deformi, quasi per mettere un freno ai sentimenti e guidare, con plagio ed interessi personali o di casta, i rapporti interpersonali o di coppia. Il Monaco, e nella fattispecie il Munaciello, diventa, così, il Sorvegliante dell’Amore.

Su questo Napoli ha tessuto il suo ricamo ribaltando la situazione, sfruttando una realtà esistente riguardante proprio la funzione del sacerdote sorvegliante dell’acqua, dei fiumi sotterranei e dell’amore, specialmente dell’amore, nascosto, rubato, quasi accondisceso, senza colpe perché misterico.

Nel sottosuolo napoletano, in antri scavati nel tufo, viveva un personaggio di corporatura esile e statura bassa addetto al controllo delle acque del fiume che si immettevano nelle grotte e che riempivano i pozzi delle abitazioni. Vestiva un abito che somigliava molto a quello monacale, per cui, di notte o da lontano veniva appunto scambiato per un frate.

Profondo conoscitore dei cunicoli, tramite scale scavate nella roccia tutt’ora esistenti, sbucava, attraverso i pozzi, nelle case da cui prelevava o lasciava oggetti di diversa natura e, per questo, alle signore che venivano improvvisamente baciate dalla fortuna si soleva dire: “‘A signora tene ‘o monaco dint’a casa”.

Con l’avvento delle condutture di acqua potabile nelle case “O’ munaciello” è scomparso e il difensore dell’amore è diventato il prete. Era talmente radicata l’abitudine di venir strumentalizzati sotto il profilo dell’amore e della sessualità da religiosi di ogni fede e cultura che la gente prestava poco interesse alle dicerie adducendo, quale scusante, che non si poteva contrastare il soprannaturale; non per niente, memori della biblica fecondazione ognuno, nella sua ambizione, poteva supporre di diventare parente con il Padreterno.

Il popolo, così, trasformò la norma in farsa, ne rafforzò la leggenda ed il Munaciello, spiritello un poco ladro e un poco “fetentiello”, a cui i napoletani attribuivano, specie dopo la sua scomparsa, tutto ciò che a loro capitava di piacevole o dispiacevole, assurse così ad emblema oltre che del bene e del male, del positivo e del negativo, anche dell’Amore nei suoi molteplici aspetti e, particolarmente, dell’Amore segreto, sotterraneo, contrastato, conteso e alle sue grazie si affidavano benevoli le giovini innamorate.

Egli entra, così, a far parte del folklore napoletano, diventa parte integrante di esso, vive nei vicoli dove è nato, nel loro ventre, nelle case della gente, nelle loro anime. Ed in quell’Athanor che è il centro storico napoletano, egli diventa un tutt’uno con essi/o.

Associato alla parte cattiva dell’animo umano, al demonio che si nasconde e che è sempre pronto ad afferrarci e che i napoletani cercano da sempre di evitare, egli è il folletto maledetto.

Vestito con un saio bianco e nero, con sguardo tetro, faccia arrabbiata, mentre cammina storto e deforme come una fusione mal riuscita, un ritorno al Nigredo, il suo incedere mesto, sconsolato, furtivo, “comme na gatta mazziata” nei meandri del sottosuolo a riprendere quel percorso sotterraneo appesantito dai metalli che si è ulteriormente caricato rientrando da un’uscita mal riuscita, rispecchia la metafora dell’uomo, le sue miserie, le sue sofferenze, i suoi affanni, le sue disgrazie, la sua ignoranza, il suo oscurantismo, le sue contraddizioni, ma anche la sua tenacia, la sua voglia di riscatto, di cambiamento, di miglioramento, di trasformazione, di rialzarsi dopo aver toccato il fondo, dopo essere sceso nei propri abissi, perché si sa che  «‘o munaciello: a chi arricchisce e a chi appezzentisce», ed in questa fornace sempre accesa che è il ventre di Napoli e dei napoletani, in cui è sempre vivida la fiammella della speranza, guai se si spegnesse, ad illuminare il buio dei vicoli e di ognuno, dai meandri bui e silenziosi del sottosuolo, con incessante, lungo ed instancabile cammino, guidato dalla forza dell’Amore, dopo aver percorso la via umida e attraversato la porta stretta, la bocca del pozzo, fuoriesce l’Uomo Nuovo, l’oro da donare alle persone amate.

Allora, e solo allora, avendo cambiato pelle, lo si vede camminare radioso e solare per i suoi vicoli con il cappello frigio, finalmente colorato di rosso, portando gioia, armonia, benessere e Amore nelle sue infinite sfaccettature ma, principalmente inteso come Cultura, Conoscenza, Sophia, Scienza e Sapienza.

È questa forza, questa magia, questa conoscenza che fuoriesce da ogni singola pietra della città, questo perno attorno al quale ruota tutto l’Universo, che permette la trasformazione alchemica dell’Uomo-Munaciello, la realizzazione del maestro, l’unione di Forza, Amore, Sapienza. Conscio dei messaggi degli antichi saggi, risplendente di Luce propria, viene innalzato a più eccelse vette per portare, oltre che in se stesso, luce in questo Buio dei vicoli dove i raggi del sole stentano ad entrare, quasi come una sorte di timore reverenziale verso quella luce irradiata dall’Uomo rinato, quasi a non confondere la luce che sale dalle viscere della città, la luce emanata dalle antiche civiltà come un monito agli Uomini che non sanno riconoscere i tesori su cui camminano.

Tutto sommato, il diavolo non è poi tanto brutto come lo si vuol dipingere.          

Mi fermo qui. Il discorso può tendere all’infinito e spaziare dalla grande cultura egizia, alla massoneria, ai grandi personaggi napoletani quali il Gian Battista della Porta, il principe di San Severo, Luigi D’Acquino, Alessandro Cagliostro, tutti i grandi costruttori ecc. Potrei parlare dell’antagonismo Bellambriana -Munaciello, simboleggianti fra loro ed ognuno per sé il bene ed il male, dell’Uomo Bellambriana, il femmineo, e dell’Uomo Munaciello; ancora dell’Amore quale sapienza iniziatica e della Donna Amata intesa quale iniziato, dei tesori del sottosuolo napoletano, del rito egizio, degli Arcana Arcanorum… Mi fermo qui, ma invito tutti ad approfondire i racconti napoletani, a tramandarli per evitare che la modernità li porti nel dimenticatoio.

Ricordiamo sempre che: “Il Munaciello è in ognuno di noi”.      

Autore Giuseppe Strino

Giuseppe Strino, docente in pensione, esperto di cultura, esoterismo e tradizioni partenopee.