Home Rubriche Lo sguardo altrove Nolente o dolente

Nolente o dolente

982
Nolente o dolente


Download PDF

Questa rubrica compie un anno. Il primo articolo è stato pubblicato il 17 marzo del 2020. Portava un titolo che voleva essere un auspicio: ‘La paura di oggi e la Luce di sempre.

Erano giorni drammatici, giorni di impazzita claustrofobia, giorni di clandestinità per strade chiuse.

Le immagini terribili degli ospedali assaliti dai primi contagiati, la gente che correva nelle farmacie a fare scorta di ogni tipo di medicinale che veniva menzionato in una banale chat di un qualsiasi social, dei balconi divenuti spazi di libertà assoluta, facevano il giro del mondo.

La pandemia era un nemico invisibile, il Coronavirus veniva identificato come una “sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus 2”, col nome di SARS-CoV-2.

Rispetto ad uno fa la situazione ha vissuto quello che ampiamente sappiamo e che abbiamo voluto raccontare con la giusta forza e con il doveroso tatto. Nessuno ha voluto vendere verità o nascondersi dietro parole fumose.

Abbiamo dato spazio al dolore, al sentimento di rinascita, alla voglia di vivere, abbiamo immaginato il futuro della scuola, della città, dei bambini. Un diario sincero ci permettiamo di scrivere senza alcuna presunzione.

Questa rubrica è nata di istinto, in un pomeriggio di silenzio tra le mura di una casa messa sottosopra da due indisciplinate quanto amabili figlie. Ho sentito l’urgenza di scrivere e mettermi a disposizione dei lettori con le mie idee e le mie riflessioni, in punta di piedi.

Lo sguardo volevamo puntarlo altrove dove gli altri potevano solo vedere le sfumature e le rotondità, gli spigoli e gli esterni. Ho pensato che bisognasse vedere dove si appoggiava lo sguardo subito ma spostando la vista immediatamente dopo altrove. Non per deviare o confondere ma per capire.

E al di là del risultato atteso ed ottenuto, quello che resta è una inquieta insoddisfazione. Non sono mai riuscito a raccontare, andando al di là di qualche settimana, qualcosa che non riguardasse questo dramma. Il Covid è stato il comune denominatore di ogni mio articolo. Nolente o dolente, è stato questo.

E dopo un anno, lo sguardo si posa ancora sugli effetti emotivi, sociali ed economici che questa pandemia ha comportato. Altrove lo sguardo troverebbe solo spazi disarticolati, ingarbugliati e poco coerenti con il pensiero di chi vi scrive.

Quello che stiamo ancora vivendo è unico, è terribile, è l’osceno che il destino ha voluto rappresentare nel cartellone di milioni di esistenze. Un tour infinito dove gli attori sono scelti con il dado e dove il solo ruolo del cattivo è già stato destinato.

Il canovaccio cambia di poco, lascia sorprese ma non stupiti. Il dolore e la paura un anno dopo, la speranza un anno dopo. Cosa resta?

Un dolore intenso che implora pace e destina pentimento che non si piega: abbiamo imparato a convivere con un dio che instabile nel suo equilibrio incondizionato ride sottovoce della gloria costruita da uomini che non lo meritavano.

O, forse siamo noi piccoli mortali che meriteremmo un dio diverso dai canoni che abbiamo accettato in una imposizione coercitiva. Meriteremmo un dio che sappia abbracciare la furia della nostra obliqua confusione e la nostra inutile ma verace vitalità.

In questo anno abbiamo pregato e vomitato sullo stesso altare, abbiamo benedetto ma anche gettato fulmini, non sapendo più distinguere il vero dal falso, il giusto dall’iniquo, il bene dal male. È un anno divorato che non abbiamo ancora imparato a sputare fuori.

Alla fine, questo silenzio, questo strisciante e tormentante male, questo mostro che si inerpica invisibile su di noi, è perfetto per capire chi siamo veramente. Il male si è incoronato, annullando gli spazi e aggredendo l’uomo nella sua centralità.

Ineluttabilmente quando si ha a che fare con il male, si ha paura. Non si è complici del male, si è seguaci o vittime. Oggi il nostro mondo, finora pensato come invulnerabile e impenetrabile, è ancora in preda alla paura, sottostà spaventato, compenetrato in una reazione nevrotica e indecisa.

La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto.
Howard Phillips Lovecraft 

Le parole sulla paura inseguono una ripartizione rassicurante. Si vuole individuare lo spavento come ptoesis, paura che accade, phobos, che percuote davanti a un pericolo, hyponoia tou kakou, dalla paura che dura, deos, sospetto, congettura del male.

Ci prende lo spavento proprio in quanto, sotto la minaccia dell’interamente altro, si nasconde una sopraffazione peggiore: che quel totalmente altro non sia che quel sé, opportunamente travestito da negazione, da proiezione, da mancata confessione, come una amnesia del sé, un ingombro taciuto dell’anima. E governare questo sentimento è possibile ma è anche un viaggio agitato intorno/dentro al proprio io.

Nel Medioevo si confidava che la fine del mondo fosse imminente e molti eventi, anche minimi, erano spesso ritenuti il segno dell’approssimarsi di una sorta di catastrofe finale. Le alluvioni e le inondazioni frequenti risvegliavano preoccupazione fra gli individui. Accanto alla città vera gli uomini medievali confidavano nell’esistenza di una vera e propria città dei morti.

Il senso della paura controllava la vita quotidiana e le paure legate a questa concezione istituivano un riferimento continuo di un mondo che senza le scoperte scientifiche non riusciva a spiegarsi molti dei fenomeni che in esso accadevano.

È finito o forse no il Medioevo?

La paura è uno dei concetti più immateriali e più esaminati che esistano. Un prodotto mentale mitizzato, che collima a tutte le realtà vissute, vagheggiate e cercate. Per essere completo, l’uomo deve sfidarla, ma allo stesso tempo deve comprenderla vivendo nel suo profondo ed eterno imbarazzo interiore.

A noi non resta oggi che vivere questi giorni con trasparente paura del futuro, senza confondere l’orrore che la Storia ci passa in rassegna con la volontà di reagire, rinnovando nello spirito la forza dell’intelletto e la speranza che il tempo non trascorra invano.

Non dobbiamo cadere nella trappola di impilare il presunto al reale, vivendo in una specie di illusione che ha più legame con le proprie scontentezze personali che con una vera e sentita ricerca spirituale.

La luce verrà, bisogna attraversare il buio e prepararla agli occhi di noi tutti.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.