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Nicola Maffulli e l’eccellente Ortopedia e Traumatologia AOU Salerno

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Nicola Maffulli


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Intervista al Direttore UOC della Clinica Ortopedica universitaria più produttiva in Italia

L’emergenza da Covid-19 ha messo sotto i riflettori la situazione sanitaria globale, evidenziando sì inefficienze e disservizi, ma portando anche alla luce le eccellenze che, fortunatamente, interessano il settore.

Tra gli esempi più lampanti di professionalità ed empatia si distingue Nicola Maffulli, Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Locomotore dell’Università di Salerno e Primario di Ortopedia e Traumatologia della stessa AOU ‘San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona’.

La preminenza del reparto da lui guidato è motivo di vanto per l’intero sistema sanitario campano. Nel nosocomio salernitano, perfetto ed unico connubio di attività ospedaliera ed universitaria, convergono, infatti, pazienti da tutta Italia nel trattamento dei problemi di traumatologia dello sport, chirurgia del ginocchio e del piede a caviglia, e soprattutto quelli tendinei, data la valenza internazionale in questi campi.

Dalla fine del 2015, quando ha preso in mano la Clinica Ortopedica universitaria, quando meno del 5% delle fratture prossimali di femore erano operate in 48 ore, con una media di 15 giorni e picchi a 35 giorni, e l’AOU era fra le ultime 5 grandi Aziende Ospedaliere nel Belpaese, si è passati, ad oggi, all’82%, con il 50% di pazienti operati in 24 ore fino ad arrivare al quarto posto in nazione. Se allora si facevano circa 60 interventi l’anno, adesso il numero si è decuplicato, arrivando, appunto a 600 operazioni in 12 mesi. Risultati impressionanti in soli 5 anni!

Ma conosciamolo meglio. Napoletano d’origine, Maffulli ha un curriculum notevole. Laureato ‘summa cum laude’ in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’, a soli 24 anni, dopo il dottorato di ricerca e importanti esperienze all’estero, tra cui Svezia, USA, Canada, Australia e Cina, dal 2013 si divide tra Salerno e Londra, città in cui rimane Professore Onorario presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia alla Queen Mary University.

È stato il primo europeo non britannico a conseguire il FRCS (Orth), Fellowship of the Royal College of Surgeons in Orthopaedics. Ha ottenuto il Diploma in Sports Medicine dalla Society of Apothecaries nel 1990 a Londra e dallo Scottish Royal Colleges Joint Board in Sports Medicine nel 1991 ad Edimburgo.

Tiene corsi in tutta Europa e negli Stati Uniti e vanta titoli esclusivi quale ‘Honorary Fellow of the American Orthopaedic Society for Sports Medicine’ e quale membro dell’American College of Foot and Ankle Surgeons. Nel 2013 gli è stata conferita la Fellowship of the Royal College of Physicians, di fatto la specializzazione in medicina interna del Regno Unito.

Ortopedico di fama mondiale, è specializzato in lesioni da trauma sportivo, sostituzione articolare, chirurgia della mano e reumatoide e ortopedia per adulti e pediatrica.

Ha descritto oltre 40 nuove tecniche chirurgiche nel campo di ginocchio, piede e caviglia e chirurgia sportiva, molte delle quali sono diventate lo standard di pratica in tali campi.
I problemi dei tessuti molli costituiscono il focus principale della sua ricerca, tanto da essere stato simpaticamente indicato come il “Re dei tendini”.

Il mondo dello sport gli è grato per aver rimesso in sesto assi di fama internazionale la cui carriera si sarebbe amaramente conclusa senza il suo intervento: David Trezeguet, Thierry Henry, Cristiano Zanetti e Alessandro Pistone, giusto per fare qualche nome.

Nel 2006 ha collaborato con la Nike per progettare la Nike Free, la scarpetta d’allenamento migliore e più corretta, dal punto di vista ortopedico, prediletta da campioni della stregua di Maria Sharapova.

Nello stesso periodo, insieme all’allora medico della Fiorentina, il Prof. Galanti, ha preparato il primo Master in medicina sportiva applicata al calcio esistente in Italia.

Ha organizzato la supervisione medica delle competizioni di judo e lotta per i Giochi Olimpici di Londra 2012 e coordinato il gruppo di lavoro per le Universiadi 2019 relativamente alla città e alla provincia di Salerno e, proprio in occasione dell’importante competizione sportiva dello scorso anno, ha eseguito la prima operazione su un’atleta messicana per la rottura del tendine di Achille con risultati impeccabili.

Inoltre, è caporedattore di due riviste scientifiche ad alto impatto, sottoposte a revisione paritaria, e ha pubblicato più di 1.200 articoli scientifici, risultando l’ortopedico più citato al mondo, integrando la pratica chirurgica con la ricerca scientifica per produrre risultati clinici insuperabili.

A Londra, è stato direttore e capo del servizio clinico e accademico del Centre for Sports and Exercise Medicine, l’unico centro universitario di questo tipo del Regno Unito, ed attualmente è impegnato in numerosi progetti multidisciplinari in varie nazioni. Riceve privatamente con studi ad Angri (SA) e Salerno.

Insomma, che abbia una mente geniale è palese. Ma quello che colpisce ancor di più, al di là del fatto che sia giustamente iperesigente con staff e allievi, è la capacità di instaurare con loro un clima goliardico che predispone ad una fattiva collaborazione e il calore umano che riserva ai pazienti.

Lo incontriamo nel noto locale del centro storico di Napoli, San Carlo 17, ormai il nostro luogo prediletto per cene di lavoro e momenti di relax, di proprietà dello chef Luigi Marra, per quella che, più che un’intervista, risulta una piacevolissima chiacchierata.

Sguardo limpido e sereno tipico dello specialista coscienzioso, consapevole che dal suo agire dipende la salute del paziente. Tono pacato, ma fermo, di chi sa che la comunicazione chiara ed efficace è alla base di ogni rapporto sincero in cui ci si fida ed affida al proprio interlocutore. Espressione complice propria del buon educatore che si rispetti, perché trasmettere conoscenza è arricchimento reciproco. Disciplina e rigore che traspaiono da ogni risposta, dettati dal suo passato di grande sportivo che ha gareggiato, a livello europeo, nelle arti marziali, come judo, lotta libera e sambo. Ma soprattutto, conversatore brillante che ci strappa anche sonore risate.

Nicola, da “cervello in fuga” sei finalmente rientrato in Italia nel 2013, prendendo in mano, due anni dopo, la Clinica Ortopedica di Salerno. Cosa ti ha spinto a tornare pur restando con un piede a Londra?

Nel 2009 conobbi il Prof. Raimondo Pasquino, allora rettore dell’Università di Salerno, che mi informò dell’intenzione di ricostruire la facoltà di Medicina e, tramite il sistema del “rientro dei cervelli”, affidare il compito a studiosi già formatisi totalmente.
La proposta mi stuzzicò parecchio, perché mi aveva sempre accarezzato l’idea di creare una scuola di ortopedia nel nostro Paese.
Gli inviai il curriculum, ma la lettera di nomina dal Ministero arrivò solo nel 2011, quando ormai non ci pensavo più.

Nel frattempo, ero stato incaricato di costruire i servizi medici, nella lotta e nel judo, per le Olimpiadi di Londra 2012, che si sarebbero svolte in estate, e coordinare le oltre 60 sedi olimpiche distribuite nel Regno Unito, dunque, presi servizio solo il 2 gennaio 2013.
È nata così la Clinica Ortopedica Universitaria che ha sede all’AOU
San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona’.

Inoltre, in Inghilterra mantengo una cattedra onoraria alla Queen Mary University di Londra e nell’università dove ho iniziato il mio percorso come cattedratico, la Keele University School of Medicine. Queste collaborazioni risultano fruttuose anche per la stessa UNISA, che, come tutti gli atenei, è orientata all’internazionalizzazione per un buon posizionamento nel ranking mondiale. I miei dottorandi di Salerno, infatti, trascorrono almeno 6 mesi della loro formazione nei laboratori britannici, e ciò permette loro di arricchire la propria formazione.

La Scuola di Specializzazione quinquennale in Ortopedia e Traumatologia è attiva dall’anno accademico 2017/2018 e tu sei il Presidente del Consiglio didattico. Com’è organizzata?

L’Università ha due campus. A Fisciano si concentrano tutte le facoltà tranne Medicina, che si divide, invece, tra Baronissi, dove si tiene la parte accademica, dunque ci sono laboratori ed aule, e il ‘San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona’ di Salerno, dedicati a quella clinica.
Ne fanno parte anche altri presidi che sono distaccati. Nei dintorni del capoluogo di provincia poi, gravitano una serie di strutture accreditate per la formazione degli specializzandi.

Il laboratorio di Medicina Traslazionale di Baronissi, affidato alla Prof.ssa Giovanna Della Porta, è dedicato all’attività di ricerca, sviluppo di micro e nano sistemi per la veicolazione controllata di molecole bioattive e per la fabbricazione di microambienti tridimensionali bioattivi, funzionali all’ingegneria tissutale del sistema muscolo scheletrico.

I miei specializzandi spendono lì un giorno a settimana per approfondire materie come biochimica, ingegneria tissutale, genetica, perché così sono esposti sia alla parte clinica che a quella didattica; la finalità è quella di far comprendere loro il più possibile così da renderli ortopedici migliori.

La Scuola ha tre specializzandi al terzo anno, due al secondo, cinque al terzo. Per il momento non abbiamo ancora bocciato nessuno, ma alcuni hanno scelto di rinunciare alla scuola, rendendosi conto di non riuscire a stare al passo con i ritmi serrati a cui sono sottoposti. Il nostro motto è: “We never finish, we only stop for a while”.
È dura, ma, quando si recano ai congressi, si accorgono del livello di superiorità che hanno rispetto ai loro colleghi.

L’attuale rettore, il Prof. Vincenzo Loia, scherzando ma non troppo, dice che frequentare la mia Scuola di Specializzazione equivale a stare nei corpi speciali. Parto dal presupposto che gli ortopedici siano i cosiddetti “eletti”, che hanno scelto una branca che permette di vedere la medicina in maniera differente.

Questo si concretizza anche nei programmi di ricerca, che trascendono l’ortopedia ‘classica’. Ad esempio, uno dei progetti per i quali siamo stati finanziati dall’Ateneo è con la Prof.ssa Giovanna Truda, con la quale stiamo studiando l’effetto dell’abbigliamento del medico sulla considerazione che i pazienti hanno su tali professionisti.

Sono estremamente dedito agli studenti, l’insegnamento è una parte fondamentale della mia vita, non ne potrei fare a meno. Al momento, nel mondo, ho 28 primari e 2 cattedratici e vari professori associati che sono stati miei allievi, compreso il mio attuale Professore Associato, Francesco Oliva, una bella soddisfazione.

Sono consapevole di avere standard troppo elevati rispetto alla media. Tendo, infatti, ad una ricerca assoluta dell’eccellenza, mentre, spesso, c’è chi si avvicina ad alcune tematiche al meglio per acquisire competenze ma non punta al massimo. Se vogliamo, questa è la mia concezione di artista marziale, la dedizione totale a ideali, che, mi rendo conto, è un po’ difficile comprendere nella società attuale.

Tengo molto anche al rapporto personale con i ragazzi, infatti, cerco di instaurare un clima cameratesco e piacevole e, almeno una volta al mese, ci vediamo a cena per il gusto di stare insieme.

Gli specializzandi iniziano ad operare da subito perché “egoisticamente” sostieni che sarai un loro futuro paziente, per cui è necessario che sappiano operare…

Lo faccio per dare a loro le stesse opportunità che sono state offerte a me a suo tempo, perché seguano un percorso fruttuoso: infatti, nel 1985, dopo un mese e mezzo in Gran Bretagna, il mio capo già mi faceva operare. Ovviamente, sono con loro in sala operatoria a supervisionarne il lavoro e a guidarli passo passo, pronto, se serve, ad intervenire.

In questa maniera non rischiamo di avere una scuola di specializzazione che sia solamente teorica; non avrebbe senso. L’esercizio continuo e costante è fondamentale, in qualsiasi campo, a maggior ragione in quello chirurgico: è la pratica perfetta che rende perfetti.

Nell’ottica poi della formazione teorica, chiedo loro di redigere, rigorosamente in inglese, la lingua scientifica riconosciuta, due manoscritti ogni sei mesi da pubblicare su giornali internazionali. Abbiamo già raggiunto un buon numero di articoli pubblicati, dato che hanno imparato come approcciarsi alla letteratura scientifica e all’elaborazione di dati e statistiche.

Per essere miei tesisti, poi, bisogna avere tre requisiti: essere in regola con gli esami, avere una media che permetta di laurearsi con lode, e ottima conoscenza dell’inglese, idioma in cui esigo sia scritta la tesi, che, normalmente, pubblichiamo prima della seduta di laurea in giornali internazionali.
La qualità dell’elaborato in sé è quindi altissima, ed il momento della discussione non li trova affatto nervosi.

Dati alla mano, come riportato sul National Library of Medicine – National Center for Biotechnology Information, il tuo dipartimento ortopedico universitario, per staff accademico, è il più produttivo in Italia. Cosa si può e si deve fare per mantenere requisiti così elevati?

L’armonia nello staff è la componente principale. A Salerno, in pratica, l’università si è inserita all’interno della preesistente azienda ospedaliera e questo ha comportato, inevitabilmente, problemi di incomprensione tra le due realtà. Per quanto mi riguarda sono stato fortunato, perché abbiamo integrato in tempi celeri entrambi gli aspetti.

Sarebbe stato impossibile fare tutto da solo e così ho formato delle professionalità specifiche, per adattarle alle esigenze dell’Ateneo. Dei validi collaboratori con cui condivido una comunione di intenti e che godono della mia massima fiducia e stima.

Siamo riusciti ad aumentare significativamente i LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, riducendo drasticamente i tempi di attesa, eseguendo subito analisi di laboratorio e di diagnostica, garantendo intervento e dimissioni in pochissimi giorni, assicurando, così, al paziente, la cura immediata evitando fosse “parcheggiato” chissà per quanto su di una barella magari in corridoio in attesa di un letto libero.

Di conseguenza, il numero degli interventi è notevolmente aumentato, così come la richiesta del servizio da fuori regione. Risultati ottimali, che, oltre ad inorgoglire, hanno importanti implicazioni mediche, sociali ed economiche.

Una sola notte in un ospedale pubblico costa allo Stato circa 800 – 900 euro, più o meno quanto si pagherebbe in un hotel di lusso in città; prestar cure celeri, operare presto e dimettere non appena le condizioni cliniche lo permettono significa innanzitutto far star meglio il paziente, farlo tornare alla sua routine, circoscrivendo al massimo le ripercussioni psicologiche negative sul suo umore, e ci permette di seguire un altro caso.

Dopo una serie di riunioni, tra i vari attori parte attiva di un intervento, come anestesisti, ematologi, radiologi, medici di laboratori, siamo riusciti a capire il giusto approccio da utilizzare per essere funzionali e massimizzare i tempi morti.

All’inizio del 2019, poi, è venuta a lavorare con noi una geriatra, la dott.ssa Gabriela Pezzuti, il cui supporto è fondamentale, per ottimizzare il percorso sia pre che post operatorio, riscontrando benefici sostanziali per l’anziano ricoverato, che, spaesato per essere stato sradicato dal suo ambiente, può godere del supporto di un ulteriore professionista, specializzato nei bisogni e nei problemi di salute tipici della terza età. Inutile dictu, abbiamo documentato l’impatto favorevole di questo approccio, e pubblicato su Osteoporosis International. 

Affidarsi ad un’équipe preparatissima nella propria regione, significa anche evitare al malato e alla sua famiglia quei tristi “viaggi della speranza” in regioni del nord Italia, giusto?

Esatto. Uno dei grandi problemi che abbiamo al Sud è che si è portati a pensare che da noi non ci siano eccellenze, e non è affatto vero. Basta documentarsi e verificare che, al di là dell’architettura poco piacevole di alcuni edifici, l’efficienza del servizio è comprovata da dati statistici incontrovertibili, accessibili a tutti.

Abbiamo tante punte di diamante, ma se i cittadini non ne sono al corrente e si recano al Nord per farsi operare, il danno per la Campania, oltre che sociale, è anche economico. Infatti, l’introito statale, spesso cofinanziato dall’UE, che dovremmo ricevere sul ricoverato finirà ad un’altra regione e, nella successiva ripartizione dei fondi a livello europeo e nazionale, verificata la nostra incapacità di spendere soldi pubblici, ci verrà destinata una cifra minore, a vantaggio degli Enti, che, al contrario, avranno dimostrato una capacità di spesa maggiore.
E poi ci lamentiamo che al Nord arrivano più soldi e noi al Sud rimaniamo indietro! Ognuno deve fare la sua parte, a cominciare dai cittadini.  

Il nostro, in fondo, è un problema di mancanza di visibilità all’esterno delle potenzialità della singola struttura. Probabilmente la stessa Pubblica Amministrazione dovrebbe fare una campagna di comunicazione mirata in questo senso per permettere al cittadino di percepire concretamente quali opportunità ha nel proprio territorio, senza doversi recare altrove per ottenere una prestazione pari se non addirittura inferiore, qualitativamente parlando.

Da noi manca del tutto il concetto di streamlining, la linearizzazione dei processi, che, snellendo le varie procedure in maniera logica, razionale e pratica, possa abbattere tempi morti e costi, massimizzare il raggiungimento di obiettivi e risultati, premiare il lavoratore efficiente ed intervenire per penalizzare quello improduttivo. Sono anni che si parla di semplificare la Pubblica Amministrazione e di renderla simile ad un’azienda privata, ma, di fatto, ci sono poche evoluzioni in questo senso.

In un contesto fortemente globalizzato come quello in cui viviamo, la mobilità degli studiosi appare quasi fisiologica, eppure, proprio per l’elevato tasso di disoccupazione occorre puntare sulla qualità come strategia di competitività. Esulando dal discorso di preferenze politiche e soffermandoci solo su quello istituzionale, quali spiragli intravedi per il rilancio del settore?

Uno dei grandi problemi dell’Italia è che spesso si trascorre tutta la propria vita senza entrare in contatto con altre realtà culturali, mentre, al contrario, nel mondo accademico britannico, prima di avere una posizione lavorativa stabile si è abituati a spostarsi, tra città e dipartimenti sia ospedalieri che universitari.

Personalmente, ritengo giusto il confronto con qualcosa che ci è estraneo, serve a far tesoro degli aspetti positivi e a correggere il tiro su cosa non va; è sempre un discorso di crescita.

I miei specializzandi, come accennavo prima, ruotano in vari istituti, dove, ovviamente, c’è un criterio di efficienza, di economia, ma soprattutto di umanità e dove, ci tengo a sottolinearlo, si tratta il paziente con la stessa attenzione che si avrebbe se fosse un nostro parente.

L’ideale di meritocrazia è difficile da realizzare in qualsiasi contesto, a maggior ragione se vige un certo nepotismo. Si dovrebbe giungere a comprendere che, se premiamo i veri talenti, allora ne beneficia l’intera Penisola, ma qui temo di entrare nel campo della pura utopia.

Con altri colleghi che, dopo l’esperienza all’estero sono rimpatriati, abbiamo convenuto che a livello nazionale il “rientro dei cervelli” è percepito un po’ con sospetto e, specialmente da noi, vige ancora il concetto di scuola che perpetra concezioni antiquate e sterili.

Se ci si è formati fuori dai confini nazionali ci si è responsabilizzati molto prima rispetto ai coetanei e, soprattutto, alle proprie capacità. Spesso in Italia accade che gli incompetenti avanzino e, di conseguenza, non si può concepire che le persone valide li superino. Torniamo al discorso della mentalità chiusa che si ha restando sempre e solo nel proprio cantuccio, senza avere, invece, un respiro culturale più ampio.

Il “rientro dei cervelli” è una grande opportunità, ma si deve preparare un substrato che permetta ad ognuno di svolgere al meglio il proprio compito. Diversamente, se ci si trova male, e purtroppo è accaduto specialmente ai chirurghi, si scappa via, e questo evidenzia la falla del sistema.

Finanziamenti competitivi europei, con grosso sforzo per medicina traslazionale. Quanto è importante questo settore e come dovrebbe essere potenziato?

Il successo accademico attuale è basato essenzialmente sul numero di articoli scientifici prodotti e, nelle classifiche nazionali ed internazionali, Salerno è in posizione altissima, ma anche sulla ricerca in senso stretto.

L’accademico è spesso visto come qualcuno distante dalla vita comune, mentre la medicina, per definizione, è un’arte applicata.
Uno dei grandi sforzi di Salerno è stato lo sviluppo della medicina traslazionale, quindi, dal banco sperimentale di laboratorio al letto del paziente. Nel nostro laboratorio cerchiamo di abbracciare tutto il processo a partire dallo studio del molecolare grazie al supporto degli specializzandi.

Al momento, stiamo portando avanti un progetto finanziato con fondi europei di rigenerazione tessutale dei tendini, che coinvolge diversi Stati: Italia, Germania, Austria, Gran Bretagna. Il programma è frutto di quattro anni di collaborazione internazionale e permette di interagire a più livelli, secondo il proprio ambito di conoscenza; la parte applicativa si svolgerà proprio da noi.

Una serie di sperimentazioni in tempo reale permetterà di monitorarne l’andamento, se dovessimo riuscire a ricreare il tessuto dei tendini, otterremmo un risultato significativo per la medicina, di cui l’umanità intera potrebbe beneficiare.

Tutto questo, ovviamente, prende tempo e può essere traslato, nella medicina reale, in 5 – 10 anni. L’ingegneria tissutale, che fa parte della grande sub specialità della medicina rigenerativa, è eccitante: è uno dei prossimi futuri nel nostro campo. Al momento, ad esempio, per un’anca, siamo capaci di rimpiazzare metallo biologico con metallo e ceramica, un domani speriamo di ridare al paziente il proprio tessuto biologico.

Concretamente quanto è cambiata l’organizzazione del tuo reparto in seguito all’emergenza sanitaria da Covid-19?

L’epidemia, logicamente, ha rivoluzionato le nostre abitudini. Abbiamo cercato di limitare l’esposizione dello staff, mettendo in reparto e in sala quante meno persone possibili, ma è pur vero che, rispetto alla media del periodo, in tutto l’ospedale si è registrato un forte calo dei ricoveri.

Gli specializzandi hanno ruotato in gruppo; chi lavorava, chi stava in quarantena e chi si dedicava allo studio ed analisi di dati.

Il servizio è stato garantito sia per l’utenza, assistendo anche quei degenti Covid che andavano operati per urgenze o per motivi particolari, ma si trattava di un rischio calcolato, sia per gli specializzandi, che, in questo modo, non hanno interrotto la loro formazione. E, come sappiamo, se un medico smette di apprendere, il danno si ripercuote sulla comunità.  

Come concili vita privata e lavoro, considerando che la tua famiglia d’origine è a Napoli e tua moglie e tuo figlio adolescente vivono a Londra?

Che cos’è la vita privata?!
Sono partito da Napoli che ero un grande animale sociale, uscivo tutte le sere e avevo mille interessi, compresi sport e cultura. In Gran Bretagna, ho dovuto ridimensionarmi, anche perché lì si hanno altri costumi.

La mia vita sociale ora riflette semplicemente la necessità di dedicarmi alla carriera, ma non rinuncio a circostanze piacevoli, che mi stimolino intellettualmente e che mi facciano crescere culturalmente.

Soprattutto a Napoli intrattengo una serie di relazioni interpersonali, di cui vado fiero e di cui non potrei e non vorrei più fare a meno. Organizzo tutta la mia vita in funzione di questi momenti che centellino. O ancora, mi circondo di persone che mi stiano vicino ad alto livello, che magari, pur vivendo nella stessa parte di Londra, frequento poco, ma che sento spessissimo a telefono.

Giuseppe, mio figlio di 13 anni, al di là del vedermi o meno ogni giorno, sa che sono sempre presente nella sua vita. E così deve essere, altrimenti non sarei un buon genitore.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.