Se si parla della seta nel Regno delle due Sicilie, la mente corre immediatamente a San Leucio; con gran stupore, invece, questa nobile arte ha radici ben più lontane e si innesta in quell’artigianato che tra il 1500 e 1600 teneva banco in tutta Europa con una produzione pari all’80%.
La sua introduzione la dobbiamo alla comunità ebraica sbarcata nell’antico porto di Bacoli e divenuta sempre più importante nell’economia della città, come abbiamo già constatato nell’articolo dedicato alla fontana di Spinacorona.
La produzione della seta iniziò a svilupparsi intorno al VI – VII secolo, comprendendo tutta la filiera, a partire dalla coltivazione del gelso, alla coltura dei bachi da seta e la conseguente trattura, per passare ai filatori, ai tintori, ai tessitori e, infine, l’immissione sul mercato di questi tessuti così pregiati e costosi.
Inizialmente scelsero come loro centro la zona del Mercato, nei pressi di Porta Nova, invogliando gli abitanti della zona ad innamorarsi del prodotto, tanto da dare vita ad una scuola con la conseguente nascita della corporazione specifica che possiamo datare 1465. Ancora oggi è presente una via chiamata dei Taffettari.
Nel 1477 Ferrante di Aragona decretò che Napoli fosse l’unico centro, ad eccezione di Catanzaro, dove si potesse sviluppare questo nobile mestiere.
Una siffatta struttura, molto complessa, aveva assolutamente bisogno di regole ben definite affinché non vi fosse nulla che ne rallentasse il processo.
Si decise di costituire un vero e proprio consolato, sorretto da un tessitore assolutamente napoletano e due mercanti, uno con la stessa prerogativa mentre l’altro non aveva vincoli di sorta.
I tre consoli avevano compiti sia puramente amministrativi che giurisdizionali, la loro prima preoccupazione era rendere questa corporazione forte e numerosa, per la qual cosa si decise di dare dei privilegi a tutti coloro che decidevano di farne parte.
Tra i tanti, due benefici ebbero grande presa, la sepoltura dei morti, a quei tempi i cimiteri erano lontani dalla città, e una dote, 50 ducati, alle figlie dei confratelli poveri o rimaste orfane.
La congregazione, in breve tempo, divenne tra le più potenti e innovative, ma, soprattutto, ricche, consentendo, così, lo spostamento della sede in via San Biagio dei Librai.
Nel 1591, fu acquistato il palazzo del Principe di Caserta Acquaviva, poi, nel 1601, il palazzo del Duca Spinelli di Castrovillari e la chiesa di Santa Maria delle Vergini e di San Silvestro, i cui lavori erano terminati nel 1593, ribattezzata dei SS. Filippo e Giacomo.
Il secondo da sempre era stato il protettore della pelle per cui, a causa dei danni dovuti all’uso smodato di coloranti e fissatori, fu eletto patrono dei setaioli.
Il complesso, oltre ad adempiere all’importante ruolo di guida spirituale, era dotato di un Tribunale per tutti i membri con il preciso compito di dirimere le controversie civili e penali che potevano sorgere, di un conservatorio, ad uso della prole di sesso femminile, che all’età di 9 anni, veniva accolta per essere introdotta, oltre alla vera e propria arte della seta, anche ad un’istruzione musicale.
Giunte all’età di 15 anni avevano l’opportunità di maritarsi con giovani scelti tra i figli dei corporati o prendere i voti rimanendo nel convento per continuare l’opera d’istruzione.
Ancora oggi ai lati dell’altare maggiore sono visibili le grate che consentivano loro, senza svelare, di assistere ai riti liturgici.
Sul portone d’ingresso ritroviamo le statue dei due Santi opera dello scultore Sammartino, famoso per il Cristo Velato della Cappella San Severo, risalenti alla ristrutturazione effettuata nel ‘700 ad opera di maestri marmorari, come Crescenzo Trinchese, di cui ricordiamo l’urna marmorea della Farmacia degli Incurabili e il Pagano, mentre per gli affreschi artisti della fama di Jacopo Cestaro.
L’Altare in legno con intarsi in oro, oggi conservato nella sagrestia che ospita, inoltre, una statua dell’Immacolata il cui vestito in seta contiene filamenti d’oro proveniente dalla chiesa di Santa Luciella, che dobbiamo a Marco Antonio Tibaldi, il quale, su disegno di Domenico Antonio Vaccaro, lo intagliò nel 1712, così come il trono dello stesso materiale, mentre il pavimento di maioliche è opera dei già famosi fratelli Massa.
All’interno della struttura ritroviamo una pianta risalente al 1628 che ci fa comprendere la maestosità del complesso, rivelando che la stradina che divideva i due palazzi ormai era parte integrante.
Inoltre, nei sotterranei è presente una cripta con scolatoi, terra santa e ossari con un altare per celebrare messa dove trovavano il riposo eterno gli ospiti del complesso.
Oggi è visitabile grazie all’Associazione Respiriamo Arte che, come abbiamo anticipato per la Chiesa di Santa Lucianella altrimenti della Luciella, sta riportando in vita, ripulendoli, siti che diversamente non sarebbero visitabili.
In alcuni periodi dell’anno nella chiesa venivano appesi all’alto soffitto i drappi di stoffa affinché i mercanti potessero proteggerle dall’intemperie e gli avventori effettuare i propri acquisti.
In particolar modo molto apprezzate erano le pezze del famoso nero partenope o napoletano, colore così intenso da essere l’unico a non sbiadire assumendo una tonalità pariglia, rimanendo vivido e lucente grazie anche alla particolare lavorazione dei fili sottilissimi.
Questo fiorente artigianato cittadino iniziò il lento declino a causa del disegno utopico di San Leucio e l’avvento delle macchine, ma resistette sino alla fine dell’Ottocento, quando cedette definitivamente il passo a causa della rivoluzione industriale.
Autore Rosy Guastafierro
Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.