Una società che celebra l’omologazione nel nome dell’integrazione, sembra dimenticare persino il Natale. Nelle antiche tradizioni, invece, il cuore pulsante della nostra identità, la luce che ci guida verso chi siamo davvero
C’è un filo sottile ma potente che ci lega al passato, un filo che attraversa i secoli e che ci parla di chi siamo stati, di chi siamo e di chi potremmo diventare.
Le antiche tradizioni ricorrenti non sono soltanto riti ripetuti anno dopo anno, ma simboli, memorie viventi di una cultura che ha saputo intrecciare spiritualità, semplicità e legami con la terra.
Ritorna ciclicamente un momento dell’anno in cui il tempo sembra rallentare, in cui le luci calde di una candela accesa e l’aroma familiare di un dolce appena sfornato ci riportano a un luogo dentro di noi che credevamo perduto.
È il Natale, non quello frenetico delle vetrine luminose o degli acquisti compulsivi, ma quello profondo e autentico, scolpito nelle antiche tradizioni che ci parlano di chi siamo stati e di chi potremmo ancora essere.
Eppure, queste tradizioni, così cariche di significato e memoria, rischiano di svanire, in un mondo che celebra l’omologazione, troppe volte confondendo integrazione con cancellazione, e volerle custodire sembra quasi un atto di ribellione.
Conservare le nostre usanze non è chiudersi al mondo, ma affermare con orgoglio che il nostro passato ha valore. È un gesto d’amore verso le generazioni che ci hanno preceduto e un dono per quelle che verranno.
Lasciare che il presepe, la Befana, i canti di novena o i falò dell’Epifania si perdano, significherebbe spezzare un filo prezioso che ci tiene legati alla nostra identità.
Non è razzismo, né chiusura, voler conservare ciò che ci rende unici. È, al contrario, un atto di rispetto verso noi stessi e verso gli altri, perché solo chi conosce e ama le proprie radici può davvero aprirsi con autenticità al mondo.
La modernità comporta uno stato di frenesia che erode le tradizioni rischiando di dissolverle, e con esse la lezione di umanità e autenticità, preziosi messaggi custoditi che non possiamo permetterci di dimenticare, e non esiste popolo e nazione che non abbia conservato le proprie, reiterandole di generazione in generazione.
Il Natale non è solo una festa: è una porta che ci invita a rientrare in casa, riscoprendo in noi i valori che ci hanno forgiato; un invito a custodire con cura il nostro cuore, in un momento in cui la società sembra volerci strappare via ciò che ci rende umani.
Sta a noi accendere quella luce, tenerla viva, e ritrovare, nel calore delle nostre tradizioni, la forza di essere chi siamo davvero.
Il Presepe è un richiamo alla semplicità a cui diede vita San Francesco nel 1223, riportando la Natività non solo alla sua essenza, nella semplicità della vita di pastori e animali, ma divenendo l’origine di una rivoluzione spirituale, per traguardare oltre alle apparenze e ritrovare la bellezza nella povertà e nella purezza di un Dio che sceglie una stalla per venire al mondo.
Il presepe non è solo una decorazione, ma un ponte tra cielo e terra, un invito a riscoprire il valore delle piccole cose, delle relazioni autentiche e di una fede che nasce dall’umiltà.
Nelle strade di borghi e città, le novene e le melodie degli zampognari hanno accompagnato per secoli i giorni che precedono il Natale, canti che non sono solo note, ma preghiere, storie, radici.
Ogni melodia è un pezzo di memoria collettiva, un sussurro che ci invita a fermarci, ad ascoltare e a ritrovare un senso di comunità ormai raro.
I falò accesi nelle campagne e i riti legati alla terra ci ricordano un tempo in cui l’uomo era profondamente connesso ai cicli naturali.
Il fuoco, simbolo di purificazione e luce, non illuminava solo il buio della notte, ma anche l’anima di chi lo guardava, un richiamo al mistero della vita, un invito a riconciliarsi con la propria fragilità e con la promessa di un nuovo inizio che ogni inverno porta con sé.
L’Epifania, che segna la fine del periodo natalizio, è una festività densa di simbolismi legati al ciclo di morte e rinascita. Un momento che nell’antica cultura contadina italiana, non era solo un passaggio religioso, ma un evento profondamente radicato nei ritmi della natura, scanditi dal solstizio d’inverno e dall’attesa del ritorno della luce.
La Befana, una delle figure più simboliche del nostro folklore che arriva nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, è l’evocazione di un’anziana donna che rappresenta il passato, esprime la chiusura del vecchio anno, ciò che è stato e ciò che deve essere lasciato andare.
Con la sua scopa, la Befana non porta solo doni o carbone, ma spazza simbolicamente via le impurità del tempo trascorso, preparando il terreno per il nuovo.
Nel calendario contadino, questo periodo era un momento cruciale per riflettere sul ciclo naturale della vita. Era il tempo in cui la terra, apparentemente morta sotto il gelo, iniziava a prepararsi per il risveglio primaverile, il lavoro dei campi era fermo, e si attendeva che la luce crescesse per riprendere le semine e i raccolti.
Uno degli elementi centrali delle celebrazioni dell’Epifania era il fuoco. In molte regioni italiane, venivano accesi falò nei campi e nelle piazze per salutare l’anno passato e purificare il nuovo.
Le fiamme rappresentavano la trasformazione del vecchio che bruciava per lasciare spazio al nuovo.
Le ceneri dei falò venivano poi utilizzate come fertilizzanti, spargendole nei campi per favorire un raccolto abbondante, gesto che racchiudeva un significato simbolico profondo: ciò che muore non scompare, ma si trasforma in nutrimento per ciò che deve nascere.
Nella tradizione popolare, il carbone della Befana era più di un ammonimento per i bambini birichini.
Simboleggiava il residuo di ciò che era stato consumato, l’energia rilasciata dalla trasformazione, per riscaldare ardendo nella stufa. Allo stesso modo, i doni dolci erano segni di abbondanza futura, una promessa che il lavoro e il rispetto per la terra avrebbero portato frutti.
La Befana, con il suo aspetto di vecchia che portava semi di rinnovamento, era anche una figura archetipica della Madre Terra, severa ma generosa, dispensatrice di vita attraverso il ciclo eterno di morte e rinascita.
Il termine ‘Epifania’ significa ‘manifestazione’ ed è legato all’apparizione della luce, non solo quella che ha guidato i Re Magi verso il Bambino Gesù, ma anche quella che, nel ciclo naturale, comincia a prevalere sulle tenebre invernali.
Per il contadino, segna l’inizio di una lenta trasformazione: il giorno si allunga, e il sole, pur debole, inizia a riconquistare il cielo, cambiamento accompagnato da riti che celebrano la speranza e la certezza che, dopo il buio, tornerà la vita.
Nel nostro tempo, il simbolismo dell’Epifania può insegnarci molto: la tradizione contadina, attraverso i riti legati alla Befana, ci ricorda che ogni morte è necessaria per una rinascita, dove la fine è la soluzione di continuità che rinnova e trasforma, reiterandosi di anno in anno.
È un invito a guardare al passato con gratitudine, a lasciarlo andare senza paura e a prepararsi con fiducia per ciò che verrà, come per il contadino che attendendo la primavera, accoglie l’inverno sapendo che, sotto il gelo, la terra si prepara a fiorire di nuovo.
Celebrare l’Epifania significa riconnettersi con questo ciclo eterno. È un momento per fermarsi, riflettere, e riscoprire il valore della pazienza e della fiducia.
È un richiamo a ritrovare un equilibrio con la natura e con noi stessi, onorando il passato e abbracciando il futuro con la certezza che, anche nel cuore dell’inverno, la vita continua a germogliare.
In un’epoca di modernità sfrenata, queste tradizioni rischiano di essere liquidate come folklore o curiosità. Ma perderle significa perdere una parte di noi stessi, di senso di appartenenza e identità che dà significato alla nostra esistenza.
Il presepe, la Befana, le novene, i falò non sono solo simboli, ma legami con la nostra terra, con i nostri antenati, con una dimensione di vita più profonda e autentica. Sono un invito a ricordare che, anche nel gelo dell’inverno, c’è sempre una promessa di rinascita.
Non dimentichiamo le nostre tradizioni. Custodiamole, raccontiamole, viviamole. Perché in esse c’è la nostra storia, il nostro cuore, la nostra speranza, e perché, forse, nel riscoprire ciò che eravamo, potremo capire meglio chi vogliamo essere.
Nell’era della tecnetronica il valore della terra è offuscato, dimenticato, accantonato, considerato ormai superato. Orrore, questo, di cui saremo edotti quando la Terra Madre non produrrà più cibo sufficiente per tutti, oppure per le devastazioni provocate dalla scelleratezza di pochi uomini con il potere di distruggere tutto in pochi istanti di deflagrazioni nucleari.
Nessuno al mondo, tra i sopravvissuti, avrà più computer e tecnologie a disposizione, tantomeno non necessarie, allora il ritorno alla terra sarà l’unico passo da compiere per la sopravvivenza, e solamente i pochi che avranno Terra Madre e capacità di renderla produttiva, seppur contaminata per secoli a venire, saranno in grado di trasformare la distruzione in nuova vita.
Il ritorno alla Terra Madre, quale fonte da cui attingere, per il cui possesso sono state determinate rivalità, combattute guerre per la conquista del potere poiché chi più ha terra più è potente. Tutto il resto è effimero, necessario ma non indispensabile, molte volte inutile.
La Terra Madre, invece, è essa stessa tradizione, vita, morte, rinascita, in questa grande Culla dell’Umanità in cui siamo raccolti.
Autore Adriano Cerardi
Adriano Cerardi, esperto di sistemi informatici, consultant manager e program manager. Esperto di analisi di processo e analisi delle performance per la misurazione e controllo del feedback per l’ottimizzazione del Customer Service e della qualità del servizio. Ha ricoperto incarichi presso primarie multinazionali in vari Paesi europei e del mondo, tra cui Algeria, Sud Africa, USA, Israele. Ha seguito un percorso di formazione al Giornalismo e ha curato la pubblicazione di inchieste sulla condizione sociale e tecnologia dell'informazione.