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Napoli e la tauromachia: da Mitra a Pulcinella

Real Teatro di San Carlo di Napoli - foto Rosy Guastafierro

Real Teatro di San Carlo di Napoli - foto Rosy Guastafierro



Gli anni del secondo dopoguerra a Napoli furono caratterizzati da fame e povertà senza pari.

In ogni vicolo ci si arrangiava alla meno peggio, tanto che divenne uso comune cercare di placare i morsi della fame con ingredienti di scarto, come i baccelli vuoti di fave o piselli.

Per provare a reperire pasta, uova o un pochino di sugna bisognava industriarsi in ogni modo. Mia nonna Rosa chiedeva a mio padre, appena quindicenne, ma già maturo e responsabile, come tanti in quegli anni difficili, di salire in sella alla bicicletta per cercare di accaparrarsi qualcosa per il pranzo della famiglia.

Nonostante gli sforzi, ciò che si riusciva a trovare era sempre poco e, poiché la necessità aguzza l’ingegno, quando di sera le famiglie si riunivano intorno al desco, per tentare di distogliere l’attenzione dalla scarsità di cibo a disposizione, si diffuse l’abitudine, tra i singoli componenti del nucleo familiare, di raccontare le peripezie della giornata, arricchendole, magari, con tanta fantasia in modo da perseguire con maggiore efficacia l’intento.

‘Onna Ma’ o ssaie ca’ sotta ‘a cchiesa ro’ Carmene ai Mannesi è asciuta ‘na cosa antica?

Proprio così, a seguito dei massicci bombardamenti che nel ’43 ebbero la città di Napoli come obiettivo privilegiato, in una traversa di via Duomo, tra via San Biagio dei Librai e via dei Tribunali, esattamente a vico I Carminiello ai Mannesi, ritornò alla luce un complesso archeologico databile intorno alla fine del I secolo d.C. che includeva anche un piccolo edificio termale, in realtà un vero e proprio mitreo.

Nella Neapolis tardo-romana ebbe larga diffusione il mitraismo, religione monoteistica misterica di origine persiana, il cui culto, a dispetto dei suoi caratteri nettamente solari, veniva praticato in templi sotterranei, generalmente consistenti in un’aula rettangolare, una sorta di U rovesciata, il cui lato d’ingresso era lasciato libero, mentre i rimanenti tre erano occupati da scranni.

L’ara, situata in posizione opposta all’entrata e rialzata rispetto al piano di calpestio con tre gradini, aveva alle spalle, solitamente, un affresco, oppure un bassorilievo, in cui era rappresentato un prestante giovane col berretto frigio nell’atto di sacrificare il toro, su cui cavalcava, con un pugnale sacro, quasi come se stesse eseguendo un’antica danza acrobatica sulla schiena dell’animale.

Il Sole e la Luna contornavano la scena centrale, rispecchiandosi nelle altre simbologie cosmiche, quali il cane, il serpente, il corvo e uno scorpione lanciati all’attacco dello stesso quadrupede. Il sacrificio dell’animale ad opera di Mitra avrebbe reso prosperità, il suo sangue prodotto il vino, il midollo il grano, il suo corpo le piante medicinali, mentre dal suo seme avrebbero preso vita tutti gli esseri viventi.

Questo giovane dio piaceva ai discendenti di Partenope perché irradiava luce, non a caso i suoi seguaci festeggiavano la sua nascita nel giorno in cui, in seguito, sarebbe stata commemorata quella di Gesù dal mondo cristiano, a pochi giorni dal solstizio di inverno, quando appunto la luce torna a prevalere sulle tenebre.

Ma i partenopei avevano un rapporto privilegiato anche, e soprattutto, con il sacro animale di Mitra, poiché la stessa Sirena era stata generata da Acheloo, dio fluviale figlio di Oceano e Teti. Nella sua metamorfosi, durante la lotta contro Eracle, avrebbe preso sembianze taurine, perdendo un corno che sarebbe poi diventato emblema di abbondanza e prosperità.

Il legame di Napoli con l’animale simbolo della potenza fecondatrice è tale che non ci stupisce vederlo rappresentato nel gruppo scultoreo posto alla sommità del prospetto frontale del Teatro San Carlo nel quale campeggia Partenope, tra Leucosia e Ligea, che porge con la mano destra una corona e con la sinistra un serto di lauro. Ai suoi piedi un bassorilievo raffigurante un toro dal volto umano incoronato da una vittoria alata, iconografia ripresa anche in antiche monete cittadine.

Non senza una certa sorpresa, tuttavia, andando al di là del mito delle origini, si scopre che il connubio Napoli – toro trova la sua massima espressione nella pratica della tauromachia. È storicamente documentato che la lotta tra uomini e tori fu seguita e acclamata dai napoletani per circa tre secoli. Inizialmente, durante il Viceregno, furono trasformati in arena largo lo Palazzo e l’attiguo lo Castello.

Nel 1536, per accogliere degnamente l’imperatore Carlo V d’Asburgo, sul cui regno non tramontava mai il sole, Don Pedro da Toledo, Viceré della città, organizzò un evento memorabile per il quale si stava preparando già da tre anni. Una vera e propria corrida, spostata per l’occasione a piazza Carbonara.

Un grande slargo in terra battuta contornato da un palco ai piedi della bellissima chiesa rinascimentale di San Giovanni. Era presente tutta la nobiltà cittadina inneggiante al sovrano che diede prova di apprezzare lo spettacolo tanto da cimentarsi come matador, il Summonte nelle sue cronache riporta:

Mostrò grande destrezza e leggiadria.

Durante gli anni che seguirono il gioco de tori, come riportato da Domenico Confuorto nel suo ‘Giornale di Napoli dal 1629 al 1699’, continuò ad essere praticato, tanto da diventare tradizione annuale in concomitanza della festa di San Giacomo, patrono di Spagna.

Nella reggenza di Pedro Antonio d’Aragòn l’attuale piazza del Plebiscito veniva allestita con spalti a ridosso dello stesso Palazzo Reale. Le gabbie, con i tori scalpitanti, erano prese d’assalto dagli scugnizzi che, con lance e ferri acuminati, punzecchiavano gli animali. Si racconta che, per rendere lo spettacolo ancora più cruento nell’arena, gli inservienti introducessero anche dei mastini napoletani. La tradizione continuò, con ogni probabilità, sino alla prima metà dell’Ottocento.

Il toro e il suo sacrificio appartengono ad un retaggio simbolico preciso, è un rito ancestrale praticato sin dalla notte dei tempi, permea la nostra vita nella quotidianità trasformato in simboli apotropaici e benauguranti, come la cornucopia, a cui ciascuno di noi è legato pur professando, a volte, disinteresse e scetticismo.

Ancora oggi, entrando in qualche vecchia macelleria, vediamo in bella mostra, un corno di toro che dondola sospeso con un nastro rosso ad un architrave. Per non parlare poi dell’antica maschera atellana che indossa un coppolone frigio e che racchiude in sé tutto l’esoterismo che la città contiene nelle sue viscere e che esprime con popolana schiettezza: Pulcinella.

Autore Rosy Guastafierro

Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.

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