Eccola una nuova resa dei conti, e non sarà l’ultima. Ce ne saranno diverse e alcune grideranno libertà altre giustizia, altre ancora saranno ispirate dalla rabbia e ci porteranno a gridare vendetta. Lo scenario non è apocalittico ma non merita giubilo e urla di gioia.
Dobbiamo perseverare nella battaglia, evitare scoraggiamenti ma scongiurare soprattutto qualsiasi forma di allentamento dal rispetto delle regole che ci sono imposte nel bene comune. La resa dei conti non è completa, ha un finale tutto da scrivere e ce lo dobbiamo meritare.
È partita la fase due, ma ci sarà la fase tre e così via. Fino a quando non finirà, fino a quando non riusciremo a scacciare dalle nostre vite ora annoiate questo ospite inatteso e sgradevole. E con le fasi che stanno contraddistinguendo il nostro nuovo modello di adattamento alla società, che stanno implodendo dentro i nostri cuori, stiamo provando anche a rivedere il fine ultimo del nostro essere, assestandoci escatologicamente a nuove influenze filosofiche e religiose, risolvendo con immutabile contraddittorietà la visione del mondo che verrà.
La resa dei conti non è con il nemico collettivo ma con noi stessi: ecco che le fasi diventano – come i quadri che vengono superati in un videogame – uno step di iniziazione ad un successivo stato di apprendimento con una conoscenza delle cose e di se stessi forse più consolidata e pronta ad arginare fenomeni di inclemenza verso paure oscene e verso quello che non sappiamo e non vogliamo calcolare come coda dell’imprevisto.
E di imprevedibile vi è tutto il nostro circo dei sentimenti, le incognite che stanno progressivamente sviluppando in noi ancestrali angosce, il pacifico ma rumoroso vuoto provocato da un isolamento forzato, il baratro delle solitudini che molti fortunati non sanno capire. La domanda è se riusciremo a superare ogni giorno che ci divide dalla fine dell’incubo conservando un contegno intellettuale e una linearità di comportamento tale da conquistare la fiducia degli dei dormienti o se, invece, affogheremo i duri sacrifici in un balletto sfrenato e liberatorio ma più vicino ai baccanali che alla morigerata condotta che occorrerebbe.
È chiaro anche ai nostri bambini, forse più a loro, che la fase due non è un “liberi tutti” ma un graduale avvicinamento ad un ritorno alla cosiddetta normalità che merita coerenza e monitoraggio. Il rischio non è alle spalle, ci è di fronte, guarda con gli occhi di Caino il nostro futuro. Temo che per molti queste mie parole suoneranno come una litania accelerata e dolorifica, preludio di chi crede ad un conseguenziale ed abominevole castigo divino o ad una furiosa rivincita della natura sull’improvvido uomo; niente di tutto ciò.
Il vero rischio è nel far prendere il sopravvento alle nostre emozioni e alla voglia impulsiva di tornare al punto esatto dove il tempo si è fermato, riprendendo il filo delle nostre azioni come se niente fosse, come se la vita fosse in debito con noi e meritassimo di vederci riaccreditato ogni attimo perso, sfuggendo alla prigionia della noia con un fare indispettito da capriccio tipicamente all’italiana.
Dobbiamo, a mio avviso, ammirare la lentezza e guadagnare ogni fase successiva come in un rallenty, posizionandoci su di un piano di sequenza che pazientemente inquadra il passaggio della nuova scena con una calma che non è svogliatezza, con una diligenza che non è pigrizia, ma declina ogni immagine in un fermo d’autore.
Dobbiamo costruire un mondo che sappia gestire, senza furie rovinose, il post pandemia: consapevoli che molto dipenderà dalle prime azioni che introdurremo e dai progetti sui quali intenderemo investire. Il mondo cosiddetto 2.0 è domani. Per vederlo nelle sue nuove fondamenta e prendere parte alla sua costruzione abbiamo il dovere di pretendere una partecipazione di tutti abolendo ogni fattore di rischio, evitando di lasciarci governare dal buio dell’irragionevolezza, fronteggiando il male dell’incomunicabilità e del delirio dell’onnipotenza. Fagocitando ogni proposito ed ogni energia in un divagare insensato di scempi e di inarrestabile calpestio dei sacri doveri che potrebbero essere causa di degenerazione e di ritorno alla fase zero.
Noi tutti abbiamo, oggi più che mai, l’obbligo di tutelare il bene collettivo e la salute pubblica senza entrare in frizione con i nostri diritti civili e umani. Ed è giusto accettare certe decisioni senza viverle come un fraseggio temporaneo ed instabile. Dobbiamo evitare che l’afflizione di molti non muti in ira. Diventa necessario che da parte delle
Istituzioni e del singolo individuo vi sia una chiara e precisa assunzione di responsabilità. Sia sul piano politico-governativo sia su quello individuale. La parola responsabilità deriva dal latino respondere, rispondere. Respons – abilità è l’abilità di fornire risposte, di individuare ed accettare che i nostri pensieri, emozioni, atteggiamenti possono generare determinati risultati. Spesso dirompenti. Su questo punto possiamo collegare un’ultima riflessione: nella nostra cultura il concetto di responsabilità viene spesso associato a quello di colpa e capita che i due termini siano usati quasi come sinonimi.
La realtà non solo è diversa ma addirittura opposta: una persona è tanto più in grado di assumersi delle responsabilità quanto meno ragiona in termini di colpa. E colpa e responsabilità invadono uno stesso spazio all’interno dell’uomo e l’una può prosperare solo nella misura in cui l’altra si riduce. I sentimenti di colpa coinvolgono valutazioni e giudizi rispetto all’inadeguatezza, all’indegnità, all’essere o meno all’altezza della situazione.
La responsabilità è invece legata all’agire, e a quello che si determina come deduzione con la propria azione. Affidarsi una responsabilità è ben diverso dall’attribuirsi una colpa. Serve anche coraggio particolare che non nasce dalla paura, e una certa apertura mentale che, non possiamo nasconderlo, deriva da nostro livello culturale e affonda le radici nelle dinamiche comportamentali e sociali che investono la sfera privata del singolo.
Garantire l’adesione completa ad un diktat doveroso è un gesto di impegno civile, di rispetto alla vita propria e altrui, un affrancarsi dalla gestione burocratica che interviene quando il singolo non è riconosciuto capace di salvaguardare la vita e i suoi simili, elevando il suo valore umano ed attuando da solo una politica di illuminata iniziativa personale. Il mondo sarebbe perfetto se ognuno di noi riconoscesse a se stesso la leadership che merita, lavorando per gli altri e per il suo bene come un vero premier, piuttosto che affogare nel populismo, nell’indifferenza e nell’inettitudine.
È fondamentale, quindi, restare vigili perché l’urgenza provvisoria non divenga permanente. Ce lo rammentano da inizio crisi anche vari pronunciamenti delle Nazioni Unite che hanno incitato tutti gli Stati a promuovere qualsiasi iniziativa ed approccio alla gestione della pandemia sui diritti umani e a garantire il rispetto dei diritti inalienabili e, quindi, del diritto alla salute per le persone più vulnerabili. In questi giorni in cui dobbiamo rispettare rigidamente le indicazioni ripartite dalle nostre istituzioni, nazionali e territoriali non dobbiamo mai lasciare che questo generi una disgregazione permanente dei nostri diritti umani fondamentali e indivisibili.
Il Covid-19 in un certo modo ci obbligherà a costanti ripartenze creando dettami, condotte, consuetudini ed azioni sempre nuove e diverse dalle precedenti, dalle quali subiranno una vis che, a seconda del successo o dell’insuccesso dell’accaduto anteriore, comporterà un effetto domino di non facile analisi. Potremmo trovarci a scrivere il senso della civiltà di un nuovo mondo.
Quest’epidemia ha dalla sua la paura e l’impotenza: due mostri che ci spingono a inseguire una formula salvifica per lottare contro un nemico sconosciuto e a pretendere dallo Stato di andare al di là dei confini che lui stesso aveva fissato per le proprie azioni.
Di fronte ad una minaccia straordinaria, cerchiamo ricovero in una difesa inconsueta, come se solo l’inimmaginabile potesse sostenerci e darci ausilio per fronteggiare questo scenario impensabile se non nei nostri peggiori incubi. Se sarà un mondo diverso questo lo scopriremo non subito ma gradualmente, se le nostre coscienze avranno la capacità di rispondere alle emergenze che verranno con uno spirito di adattamento e di collaborazione più coerente e costante rispetto a quello del passato, lo potremo verificare solo al momento opportuno, evitando di sciorinare il catalogo dei luoghi comuni e affermando la verità delle cose.
La verità, bisogna pur dirlo, è intollerabile, l’uomo non è fatto per sostenerla; così la evita come la peste.
Emil Cioran
La situazione in essere vive su possibilità estreme e non può avere una strategia sola da seguire. Da una parte, è evidente che una riapertura arrischiata e non programmata delle attività economiche subito dopo un chiaro controllo del virus non fa che riaccendere il ciclo dei contagi.
Dall’altra, però,
esperti avvertono che, se il distanziamento sociale è troppo severo, esso darà luogo ad un’altra onda di contagi in autunno quando l’economia avrà appena incominciato a riprendere. Evitare una tale doppia trappola deve essere una delle priorità per una strategia vincente per uscire dall’impasse del Covid-19.
In verità dobbiamo ritenere che la congiuntura attuale non va gestita come un’emergenza dopo la quale si ritornerebbe ad uno stato di “normalità”. Bisogna passare da un sistema in crisi ad un sistema nuovo che muti completamente la società e ogni suo aspetto intrinseco.
Il tessuto sociale va trasformato e alimentato con razionalizzazione, promuovendo una visione di lungo periodo che sappia posizionarsi sul binario del cambiamento. Va accettato che il processo sia lento e non automatico e si basi, soprattutto nelle fasi iniziali, su una serie di fallimenti e/o test non completamente definiti.
Azioni sinergiche serviranno ma dovranno puntare sulla centralità della cultura della condivisione, dell’ordine e del rispetto delle urgenze comuni nella necessaria tutela della salute dell’uomo. La trasformazione delle relazioni sociali dovrà avvenire in una prospettiva di cooperazione mutualistica, circolare e rigenerativa. Non riuscirà nessuno a far passare subito questo concetto per le logiche dominate dagli interessi personali, economici delle lobby e dei Paesi che dovranno operare sotto effetto risiko. Bisognerà, allora, creare valore sostenibile compiendo azioni positive per anticipare le sfide globali che detteranno l’agenda del futuro.
Il mondo 2.0 ha un impegno con tutti ma non è chiaro chi si presenterà. La fiducia nelle parole e nell’uomo è subordinata dal significato che ciascuno di noi dona alla parola libertà che è soprattutto non fare male al prossimo.
Thomas Hobbes nel ‘Leviatano’ del 1651 descrisse una società ben ordinata, in cui ognuno poteva apertamente pervenire al proprio piacere. L’uomo civile è unito alla natura e all’artificiale in un solo moto, in una sola volontà.
Per essere organizzato in un corpo politico, ha necessità che il potere civile utilizzi strumenti artificiali, come le leggi civili, quali cause «esterne» ai moti naturali interni ai corpi individuali, così da rafforzare le leggi naturali, contrapponendosi a e/o modulando le volontà naturali degli individui a seconda dei casi:
La funzione delle leggi […] non è di impedire alle persone [the people] ogni azione volontaria, bensì di dirigerle e di mantenerle in un movimento tale da non ledere se stesse a causa dei loro desideri impetuosi […] come le siepi, poste non per fermare i viaggiatori, ma per tenerli in carreggiata. Perciò una legge che non è indispensabile, non avendo il vero fine di una legge, non è buona. Si può concepire che una legge sia buona quando è a beneficio del sovrano, anche se non è necessaria per il popolo, ma non è così, poiché il bene del sovrano e quello del popolo non si possono separare. È un sovrano debole quello che ha sudditi deboli.
Hobbes è ben consapevole che nessuna legge civile o naturale potrà mai divenire “la causa intera” di ogni singolo componente del corpo collettivo ma riconosce nella soggezione uno strumento finalizzante alla costruzione del suo metodo, con lo scopo di concretizzare una forma di convivenza che si impegni ed assicuri, mediante il diritto, ciò che i dettami o le prescrizioni della giusta ragione suggeriscono ad ogni uomo nei rari momenti in cui, nel suo animo, non protesta la forza delle sue passioni.
Il pericolo principale, quindi, potrebbe essere quello di non sentirsi in dovere di accettare le istruzioni del gioco che ci verranno fornite gradualmente e pretendere di inventarsi regole proprie, beffando ogni confronto, denigrando ogni coercizione benigna, alimentando ribellione sterile o provocazioni da sintomo di frustrazione.
Il mondo che verrà sarà la rappresentazione di ciò che siamo e di ciò che in effetti vogliamo. La forza della nostra volontà o della nostra voluttà. È una ricostruzione post-bellica e detiene tutte le incognite che porta una realtà da sopravvissuti. Le nostre utopie sono divenute distopie e dipenderà solo da noi se non diverremo lupi che marchiano il proprio territorio. Non so se impareremo a guardare l’altro con occhi diversi, riscoprendo il valore della fiducia e del rispetto ai principi educativi e civici. Altrimenti serviranno mascherine soprattutto sul cuore.
Il mondo 2.0 non è un romanzo, non lo possiamo inventare noi. Ha radici in ciò che siamo diventati nel tempo, avrà comunque i nostri fantasmi e le nostre ossessioni. Come un credo fanatico potremmo trovarci a riconoscere solo quello che ci tornerà utile alle nostre egoistiche necessità, potremmo parlare una sola lingua e pretendere un ritorno alla normalità finto, ambiguo e soprattutto irreale.
Se ancora oggi non siamo riusciti a trovare un vaccino allora non dobbiamo illuderci: faremo i conti con ogni tipo di rischio e ci troveremo a maturare celermente un senso di responsabilità ampio che prevederà il bisogno di sfruttare le tre P: prudenza, pazienza e perseveranza. O verremo spazzati via.
Credo che oggi fare ogni discorso sul post Coronavirus sia spinoso e potrebbe rivelarsi un flop sulle nostre qualità di chiaroveggenza. Il futuro non è chiaro e merita un avvicinamento lento e riguardoso. Avremo un’economia da riordinare, da ricostruire, con settori fermi o morti, limitati o amputati che dovranno essere rilanciati o spenti definitivamente offrendo, però, un nuovo assetto e una collocazione nel lavoro che verrà abissato. C’è una macchina da rimettere in moto e non sarà facile pensare che tutto fili come nel migliore dei mondi che idealizziamo.
Il mondo 2.0 potrebbe avere una nuova identità e correre un pericolo incendiario: potrebbe veder minato il potere democratico, potrebbe veder ridotta la libertà in una liturgia deragliata. Senza esasperare, dobbiamo farci trovare pronti perché quello che succederà oggi è in grado di decifrarlo. E chi ha una verità da raccontare spesso è senza voce.
Forse questo mondo è l’inferno d’un altro pianeta.
Aldous Huxley
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.