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Minor cessat

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Camera dei Deputati


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Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
Umberto Eco

È un fatto tangibile e scontato che i rapporti tra maggioranze e minoranze si pongano al centro delle moderne teorie dello stato democratico. Un rapporto spesso di forza, come i numeri impongono, fatto di individualismi che vincono per la leadership di questo o quel momento politico, piuttosto che per una più coerente e legittima urgenza sociale ed economica che premi la società.

Il principio maggioritario implica che scelte prese da un gruppo dominante producano effetti anche sulle parti non concordanti. Tale asserzione è alquanto evidente nella sfera istituzionale, ove una minoranza è intesa come forza politica che si contrappone alla maggioranza e che soccombe nelle competizioni elettorali o di scelta politica alle decisioni di quest’ultima. In quest’ambito specifico, entrambe sono destinate a mutare secondo l’elemento elettorale e preferenziale: è il voto che le esprime.

Nella vita di tutti i giorni o nell’ambito lavorativo, la relazione tra maggioranza e minoranza dovrebbe essere condotta con grande collaborazione in qualsiasi gruppo di persone tra loro associate. Ciò determina la pace e la serenità all’interno della compagine.

Questo non significa che al suo interno ci debba essere uniformità di vedute e di interessi. Se fosse così, mancherebbe di vitalità. Anzi, non sarebbe nemmeno un insieme di persone, ma un aggregato di animali o un mucchio di cose inanimate.

È pur vero, però, che la diversità di interessi e di vedute non deve essere causa di scontri violenti e sopraffattori tra parti dogmaticamente arroccate nelle proprie idee, disposte a non recedere di un palmo da esse, bensì a farle prevalere sulle parti opposte ad ogni costo.

Tuttavia, se in un contesto democratico i rapporti tra le maggioranze e le minoranze politiche assumono un momento meramente accidentale, la cui occasionalità è determinata dalla variabile del consenso/dissenso elettorale, il fenomeno che invece vede contrapporsi gruppi sociali con differenti tradizioni etniche, nazionali e linguistiche pone la predetta relazione maggioranza/minoranza in una condizione di stabilità permanente, costituendo una complessa e delicata questione all’interno degli Stati fortemente caratterizzati dalla presenza di minoranze etno-nazionali.

Allarghiamo la vista: la nozione di “minoranza” è necessariamente una “nozione in situazione”, cioè possiamo definirla contestualizzata. Non esiste una “minoranza in sé”. Occorre quindi parlare di situazione minoritarie nei riguardi di un determinato territorio, regionale o nazionale, di certe norme, di una data legislazione e in riferimento a specifiche strutture di potere e di una configurazione istituzionale risultante da una molteplicità di radici storiche o da un quadro emergente di una determinata situazione.

Di fronte a tutto ciò, sorge spontaneo domandarsi se il diritto, e quindi l’espressione delle varie attività legislative ricadenti in modo particolare sui diritti e le libertà fondamentali dell’individuo, si riduca meramente ad una questione numerica, e perciò fondato sul mero principio maggioritario, o se, invece, trovi nella più unanime convergenza delle varie contrapposizioni, non solo politiche e sociali, ma anche con riguardo alle diverse componenti etniche, la sua legittimità e la garanzia alle libertà individuali.

Nella definizione sociopolitica della minoranza due altri elementi svolgono un ruolo determinante, l’uno obiettivo e l’altro psicologico. Il primo ne designa i tratti distintivi: etnica, religiosa, linguistica e culturale. Il secondo la coscienza minoritaria che fa sì che i membri possiedono un “animus”. Questa coscienza assicura la coesione del gruppo e gli conferisce, diciamo, l’unità morale.

Alcuni studiosi parlano, a tal riguardo, di memoria collettiva e di volontà collettiva di sopravvivenza del gruppo. La minoranza non esiste senza questa volontà collettiva, che mira all’uguaglianza di fatto e di diritto con la maggioranza. Non si nasce minoranza, lo si diventa. Questo è, infatti, alla base di una delle questioni fondamentali della riflessione sociopolitica e si riallaccia ineluttabilmente al concetto di democrazia, termine questo di cui è frequente l’abuso e di cui soventemente si dà una definizione disordinata.

Da un lato si afferma che la democrazia, nella sua accezione tradizionale-classica, è il governo del popolo e che proprio attraverso la sovranità popolare, l’azione del governo trova la sua legittimità; dall’altro lato si suole asserire che la democrazia si pone in stretta correlazione con la garanzia dei diritti e delle libertà individuali.

Da questo punto di vista, se si considera la democrazia come mero ordinamento in cui solo il popolo è sovrano, vale a dire come governo che funziona in base al mero principio maggioritario, e che quindi si definisca tale solo quello che agisce in maniera ineluttabile attraverso il principio della maggioranza popolare, credo, nonostante questa posizione possa destare, prima facie, qualche perplessità, che non si possa affermare una connessione veritiera tra la sovranità popolare e le libertà individuali: questa, infatti non è asseribile concettualmente, e non risulta neppure provata storicamente.

Perché una minoranza non esiste che di fronte ad una alterità. È da qui che nascono conflitti di egemonia e di statuto che possono investire diverse forme e le cui soluzioni variano: annientamento, espulsione massiccia, segregazione, assimilazione forzata, marginalizzazione, riconoscimento tollerante, pluralismo.

Dunque, la dialettica o contrapposizione maggioranza-minoranza è costitutiva della democrazia, per il cui buon funzionamento ciascuna deve poter svolgere la propria peculiare funzione: alla maggioranza compete decidere e prendere iniziative, mentre l’operato delle minoranze è la sfida lanciata alla scelta identificata dalla prima. Da questo punto di vista, l’alternanza nell’occupare le posizioni di maggioranza e di minoranza da parte dei diversi schieramenti è parte della fisiologia della democrazia.

Questo vale, pur con le dovute differenze, all’interno di qualunque sistema che voglia qualificarsi come democratico: che si tratti dell’assetto istituzionale di un Paese o del funzionamento di un partito o di qualsiasi realtà associativa, l’esistenza di una maggioranza e di una minoranza in rapporto dialettico e la possibilità concreta dell’alternanza sono elementi che qualificano la democrazia molto più che il periodico ricorso a procedure elettorali; queste ultime, infatti, avvengono anche nelle dittature, che invece cercano con ogni mezzo di eliminare, soffocare o tacitare le minoranze.

È tutta qui la differenza tra il maior e il minor: dove c’è il primo, l’altro soccombe o deve accettare di vivere di opposizione. Ma ciò non ha smesso di favorire la formazione di una cultura in cui essere minoranza non significa necessariamente essere esclusi dal prendere decisioni, ma poter sfruttare il potere di veto bloccando decisioni e processi sgraditi: questa strategia di minoranza finisce così per rivelarsi più vincente della costruzione del consenso intorno a proposte realmente alternative.

Perché la democrazia è “contendibile” se le formazioni minoritarie potranno aspirare a crescere ed anche a diventare la futura maggioranza.

Sul piano politico è indispensabile che funzionino i sistemi capaci di produrre una rappresentanza responsabile, attraverso una legge elettorale appropriata che sappia coniugare sistemi proporzionali ed eventualmente correttivi maggioritari.

Un sistema elettorale che renda difficile o impossibile tutto questo, non è dunque un buon sistema elettorale.

Un pazzo non è che una minoranza formata da una sola persona.
George Orwell

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.