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Mediatore? Un Vulcaniano ribelle nel sistema della Mediacrazia

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Mediacracy


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Leggendo tra le righe dei miei articoli, probabilmente si intuisce l’esistenza di un filo conduttore che lega i miei spunti di riflessione.

Scrivendo questo pezzo svelo forse la mia recondita volontà di rivelarmi come un ‘pentito della manipolazione mediatica’? Sì, è vero.

Da circa 20 anni, da quando ho iniziato la mia ricerca in un programma accademico, ho continuato un personale approfondimento parallelo all’esercizio della professione nel campo della comunicazione, di marketing e nell’entertainment. Questi studi mi sono utili per cercare di comprendere meglio i meccanismi che regolano i processi di pensiero decisionali: conoscenze che mi sono necessarie per svolgere la mia attività.

Impegno molte delle mie ore lavorative sia nell’analisi delle ricerche elaborate da esperti nelle varie discipline che afferiscono all’affascinante materia delle scienze cognitive e comportamentali, che nel tentativo di verificare empiricamente ciò che apprendo dalle sintesi delle loro teorie.

Nel solco di questi esperimenti, questa settimana ho provato a postare su Facebook un’immagine corollata da una frase ed effetto, il messaggio era chiaramente sensazionalistico. Coerente con il sentiment imperante in questi mesi sulla rete per l’emergenza Coronavirus che ci sta affliggendo. Il post ha ottenuto un numero di commenti e condivisioni che non ero assolutamente abituato a collezionare sul mio profilo, rispetto al tipo di messaggi che per me sono più usuali nello scrivere per un target d’ascolto – benevolmente, vorrei dire – più critico.

Nel precedente articolo ‘E se fosse vero il complotto…?’ introduco la’Regola del Decimo Uomo’ come un protocollo operativo dei servizi di intelligence israeliani, una delle tecniche impiegate per tentare di contrastare i nefasti effetti del fenomeno psicosociale chiamato ‘Groupthink o Pensiero di Gruppo’. Questo bias cognitivo affligge i membri di gruppi sociali impegnati in sforzi ed attività collegiali quali, ad esempio, la definizione di strategie aziendali, politiche o di guerra, ma può influire anche sulle masse sottoposte a particolari influenze mediatiche inducendo i cosiddetti ‘Comportamenti del Gregge’.

Mi sono così imbattuto nei risultati di un approfondimento di due accademici olandesi, Jaron Harambam e Stef Aupers, che stanno studiando le teorie cospirazioniste. Nell’introduzione di I Am Not a Conspiracy Theorist’: Relational Identifications in the Dutch Conspiracy, essi assumono che le teorie della cospirazione abbiano una lunga storia, già a partire dalle Crociate nel Medioevo, e che, nella società occidentale contemporanea, sono diffuse fino al punto di individuare, in una parte minoritaria della popolazione, lo sviluppo di una vera e propria ‘cultura della cospirazione’.

Una cultura avversa che nella maggioranza delle persone porta allo sviluppo di strategie discorsive tese a squalificarne gli argomenti, per escludere i portatori di credenze alternative dal dibattito pubblico, promuovendo una loro immagine sociale che li descrive come “estremisti paranoici”.

Sono decenni che molti cattedratici hanno contribuito alla costruzione di un’immagine peggiorativa del militante teorico della cospirazione; per fortuna, in tempi recenti, altri universitari hanno avviato delle indagini in merito. L’analisi sembra dimostrare che, nonostante si osservi una comune opposizione al mainstream culturale nell’ambiente cospirativo fiammingo, in questo si rende evidente anche la presenza di tre gruppi distinguibili tra loro: Attivisti, Arretranti e Mediatori.

Tra questi tre insiemi, la militanza estremista radicale degli Attivisti è respinta con veemenza dagli ultimi due. Gli Arretranti, a loro volta, differiscono dai Mediatori. I primi si ritirano in una concezione del mondo psicologico-spirituale in cui suppongono che il cambiamento possa provenire solo dall’interno, quindi sforzandosi poco nel provare a costruire collegamenti tra visioni in conflitto come strada per il progresso, mentre i Mediatori hanno un’opinione più postmoderna e relativistica del pluralismo culturale, perché dotati di una vocazione che li sprona ad interagire con ‘quegli Altri’ che i Mediatori pensano siano ingabbiati nel cosiddetto ‘pensiero unico’, dominante in quella stragrande maggioranza della popolazione; soggetti che i teorici della cospirazione appellano come ‘Sheeple’ (sheep + people = pecore + persone) cioè che fanno parte del Gregge.

In questa ricerca risulta che

praticamente in tutti gli intervistati emerge la consapevolezza di riconoscersi per avere un pensiero critico, sottolineando come di non essere disposti a muoversi sulla scia delle grandi ondate della società, ma che invece si dichiarano scettici per natura; che osano pensare diversamente; che pensano fuori dagli schemi; che mettono dei punti interrogativi su quasi tutto. Ciò che comporta per loro il pensiero critico per è: guardare le cose da più prospettive, consultare più fonti, ma soprattutto pensare da soli ed essere capaci di adattare convinzioni precedentemente acquisite.

Spesso questa loro autoidentificazione è coerente con i loro ideali culturali di autonomia e ribellione verso il sistema. La prima conclusione è quindi che le persone che si ritrovano nell’ambiente delle teorie della cospirazione si distinguono collettivamente dal mainstream sostenendo che sono pensatori critici. Condividono un malcontento generale nei confronti delle istituzioni moderne – cioè lo stato, le industrie multinazionali, i media, la scienza e la tecnologia – e si dichiarano critici di quella propaganda che le altre persone considerano invece verità.

Viene evidenziato, inoltre, come molti truther – coloro che non credono alla spiegazione generalmente accettata per un evento o una situazione – usino collettivamente l’etichetta peggiorativa dei teorici della cospirazione per prendere le distanze da quelli realmente irrazionali nell’ambiente della cospirazione.

Essi sottolineano:

Spesso i tanti ‘stereotipati buffoni della cospirazione’ pretendono di essere riconosciuti come pensatori critici, ma in effetti non sembrano così critici delle proprie convinzioni: molti di loro soffrono della ‘visione a tunnel’: vedono solo ciò che vogliono vedere.

Se avanzi nei loro confronti un’altra teoria, iniziano subito a urlare che non è vero e si rifiutano di guardare ai fatti perché non hanno intenzione di cambiare le loro posizioni.

Molti soggetti sottoposti all’indagine mostrano questa visione del ‘fanatico estremista’:

Sembrano identificarsi molto nel pensare davvero alle cose in maniera critica e nel non voler seguire la folla, ma alla fine si ritrovano anche loro tutti con il loro branco ad andare nella stessa direzione […] ma se sei davvero un critico consapevole, non dovresti essere solo critico nei confronti di tutto ciò che è stabilito all’interno del tuo gruppo, ma anche nei riguardi di credenze consolidate all’interno del tuo gruppo […] questi stereotipati appassionati della cospirazione pensano sempre secondo la stessa griglia di pensiero e iniziano a urlare con violenza e reclamare sangue confermano esattamente così l’immagine che è costantemente descritta sui giornali dei teorici della cospirazione.
Un paio di pazzi si alzano e reclamano sangue, beh, allora è finita […].
Quello che pensiamo e facciamo noi è completamente diverso…

È importante notare che l’autoidentificazione dei Mediatori e degli Arretratori come pensatori critici funziona non solo per differenziarsi dalle masse dormienti, ma apparentemente anche dai “veri teorici della cospirazione: gli estremisti fanatici” che si autodeterminano in una sorta di Narcisismo Collettivo. Interessante è l’associazione concettuale degli estremisti fanatici in un saggio del filosofo, politologo ed accademico Jason Brennan che li definisce “Hooligans”, comparandoli ai tifosi del calcio, mentre i Mediatori potrebbero essere individuati nella sua definizione di “Vulcaniani”.

Nel testo si rimarca che, nella cerchia della cospirazione, l’attivismo possa essere inteso come una forma di azione sotto-politica. La consapevolezza pubblica delle questioni ecologiche, il lato distruttivo della tecnologia e i politici corrotti, hanno dato origine ad una forma di politica al di fuori dell’arena di governo formale, dal basso verso l’alto:

mettendo in discussione lo stato dei sistemi esistenti per chiedere un ripensamento dei vari schemi di classificazione […] e per chiedere l’invenzione di nuovi modi istituzionali.

In questo contesto socio-culturale orientato a facilitare – forse ad imprimere – un cambio di paradigma e che si diffonde e cresce ogni giorno, l’attivismo fanatico, che domina una parte considerevole dell’ambiente cospirativo, è considerato in termini negativi e viene messo al bando dagli stessi membri degli altri due gruppi perché:

la militanza della protesta non si adatta alle loro idee su come vivere la vita.

Gli Arretratori, sebbene condividano con gli Attivisti fanatici l’importanza del risveglio per indagare criticamente e comprendere ciò che sta realmente accadendo dietro l’apparenza superficiale della società, discutono contro l’attivismo fanatico fondato su motivi psicologici populisti, sostenendo che esso, basandosi su emozioni negative come l’aggressività e la paura, non vada bene

perché la paura è il nostro più grande nemico. Distrugge il nostro giudizio, i nostri sentimenti e le nostre capacità discriminatorie.

Anche i Mediatori si dissociano dagli Attivisti fanatici, ma a differenza degli Arretratori, che tendono a rinchiudersi nella contemplazione aspirando l’avvento di un mondo utopico, cercano di erigere ponti con la massa prigioniera nella Mediacrazia. L’obiettivo di queste persone è mediare tra le verità degli appassionati di cospirazione e il pubblico normale.

Da un lato ci sono quelli che credono pienamente in tutto ciò che viene loro comunicato nelle notizie diffuse nel mainstream, mentre dall’altro lato c’è chi si oppone fermamente a tutto ciò che viene inculcato ufficialmente ed escogita le idee più deliranti. Trovo interessante tirare entrambi i gruppi l’uno verso l’altro, farli guardare criticamente da soli e mostrare loro che l’altro non è completamente pazzo:

questa è la vocazione tipo del Mediatore.

Essi sostengono che il ruolo intermedio non sia una posizione facile e si sentono intrappolati tra l’incudine e il martello:

alla mia destra ho il sistema che difficilmente ascolta. Ma alla mia sinistra ho gli attivisti che lo contestano violentemente (…) la cosa strana è che non piacciamo neanche a loro, sembra che dormiamo con il nemico…

In sostanza, i Mediatori sfatano gli Attivisti come fondamentalisti improduttivi e criticano i Ritrattatori per essere troppo coinvolti nella crescita personale. Credono che il cambiamento del mondo avvenga principalmente creando un collegamento tra l’alternativa e il mainstream, tra diverse percezioni della verità e tra molteplici prospettive sulla realtà percepite.

Interpretando i concetti inscritti tra le righe di ‘Legislatori ed interpreti: su modernità, post-modernità e intellettuali’ di Zigmut Bauman si potrebbe affermare che:

una visione del mondo che sta alla base di questo approccio nell’ambiente della cospirazione è il pluralismo culturale: i Mediatori riconoscono che le differenze culturali sono fondamentali per la società contemporanea e, da questa posizione postmoderna, agiscono più come interpreti di diverse prospettive culturali che come legislatori di una grande narrativa.

In questa prospettiva, alimentata da consapevolezza professionale, mi sprono ad agire, come ‘provocatore culturale’, nel perimetro dei limiti concettuali sopra descritti, che caratterizzano un Mediatore, auspicando, di essere in grado, con i miei piccoli contributi, di gettare qualche fondamenta per ‘ponti culturali’’a beneficio di qualche profano che, sentendosi intrappolato in una stretta mediacratica, volesse traghettarsi verso conoscenze che gli potrebbero tornare utili per migliorare il suo benessere psico-fisico-sociale.

Rischio per democrazia

Che cos’è la Mediacrazia? Un rischio per la Democrazia

Ogni giorno è più forte la mia convinzione di come molte persone siano vulnerabili alla ‘manipolazione mediatica’. Tanti individui, sfortunatamente, sono privi di strumenti culturali necessari a comprendere autonomamente alcuni dei meccanismi di base del funzionamento della mente, dei processi percettivi che si attivano nelle elaborazioni soggettive della realtà e delle conseguenti dinamiche decisionali.

Molti rimangono prigionieri delle cosiddette ‘trappole cognitive’, quindi preda di un’informazione spesso al servizio della Mediacrazia

Il potere dei mezzi d’informazione, che influenzano e condizionano l’opinione pubblica

come l’ha definita Kevin P. Phillips in ‘Mediacracy. American parties and politics in the communications age’, già nel lontano 1975.

Philips ci racconta che le elezioni del 1968 segnarono

la fine della coalizione del New Deal e simboleggiarono l’ingresso delle società occidentali nell’era post-industriale delle nostre vite economiche. La nomina di George McGovern e il grande trionfo di Nixon nel 1972 furono chiari segnali che i partiti politici davano già significativi segni di declino

e che i

nuovi mandarini dell’emergente settore della conoscenza

intesa come ‘informazione’, stavano iniziando ad affermare il loro controllo sulla società

andando a costituire una nuova élite.

Phillips illustra l’ascesa di ciò che chiama ‘Industria della Conoscenza’, costituita da Istituti di Ricerca, operatori dell’Industria delle Comunicazioni, della Tecnologia Informatica e di esperti delle Tecniche di Istruzione e Comunicazione avanzata. Una nuova branca che sarebbe andata gradualmente a soppiantare la produzione industriale come pilastro delle nostre economie.

Egli suppone che le persone che avrebbero lavorato nel settore della conoscenza sarebbero state generalmente più istruite e liberali della popolazione in generale, intuendo che l’Industria della Conoscenza avrebbe avuto una sempre maggiore dotazione finanziaria. Le sue profezie risalgono a 45 anni fa e oggi nessuno può negare che una forma di Mediacrazia si sia definitivamente determinata.

Anzi, ancora più forte di quanto si potesse immaginare, poiché alle riflessioni dello scrittore e commentatore americano di politica, economia e storia, nonché stratega del Partito repubblicano, mancava la conoscenza di fenomeni a quel tempo ancora non presenti, come Internet.

Oggi è sotto gli occhi di tutti che questa nuova élite non si compone solo dei succitati soggetti, ma anche di altri attori, quali, ad esempio, nuovi governanti politici ed economici. Quasi a confermare un’altra previsione, questa volta svelata tra le righe di un romanzo di fantascienza, ‘1984’ di George Orwell, pubblicato 30 anni prima, di cui al termine dell’articolo citerò un passaggio saliente.

Anche Noam Chomsky, nel suo famoso saggio ‘La fabbrica del consenso’, tratta a fondo il concetto di Mediacrazia in relazione alla politica, anche se non fa esplicitamente riferimento al termine coniato da Phillips.

Afferma:

I mass media come sistema assolvono la funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. I loro compito è di divertire, intrattenere ed informare, ma nel contempo di inculcare negli Individui valori, credenza e codici di comportamento atti ad integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte. In un mondo caratterizzato dalla concentrazione della ricchezza e da forti conflitti di classe, occorre una propaganda sistematica.

Nei paesi in cui le leve del potere sono nelle mani di una burocrazia statale, il controllo monopolistico dei mass media, spesso integrato da una censura ufficiale, attesta in modo trasparente che essi servono i fini di una élite dominante. Dove invece non esiste una censura formale e i media sono privati, è molto più difficile vedere in essi un sistema di propaganda in azione…

Chomsky sollecita a munirci degli strumenti culturali necessari a sviluppare una coscienza critica nei confronti delle informazioni che ci vengono sottoposte in un regime mediacratico.

Proprio così, un regime, in cui molti di noi sono assoggettati, inconsapevolmente, all’azione de ‘Gli stregoni della notizia’, concetto che diventa il titolo del saggio di Marcello Foa, il cui sottotitolo è ‘Da Kennedy all’Iraq come si fabbrica informazione al servizio dei Governi’. L’autore spiega che, tutto sommato, non è vero che, in una società ossessionata dallo strapotere dell’informazione, i politici sono succubi dei media.

In realtà:

I Governi hanno imparato a usare (i media) a proprio vantaggio, grazie all’apparente supremazia della stampa grazie agli spin doctor, i moderni stregoni della notizia.

Foa ci chiarisce:

Come e perché sia possibile orientare e all’occorrenza manipolare l’informazione, spesso all’insaputa degli stessi giornalisti,

nel testo

ricco di aneddoti e retroscena sui grandi fatti recenti – dalla guerra in Iraq a quella in Siria, da Renzi a Macron fino alle fake news – svela con chiarezza le logiche, le tecniche, i trucchi usati dai grandi persuasori al servizio delle istituzioni.

Come riportato nella prefazione, questo è un testo indispensabile per

chi vuole iniziare a capire il ruolo e i misteri del mondo dell’informazione

e, aggiungo io, costituisce uno di quegli strumenti culturali che prima citavo, di cui noi tutti dovremmo dotarci per poter iniziare a sentirci Donne ed Uomini Liberati in una mediacrazia.

Concludo con alcuni passi del fanta-romanzo di Orwell, una finzione narrativa, che, tuttavia, sembra estremamente reale ai giorni nostri:

Fin dall’inizio del tempo che si possa ridurre alla memoria, e probabilmente fin dalla conclusione dell’Età Neolitica, ci sono state, nel mondo, tre specie di persone, le Alte, le Medie e le Basse. Esse sono state suddivise in vari modi, hanno avuto nomi diversi, in numero infinito, e la loro proporzione relativa, così come l’atteggiamento dell’una verso l’altra, sono stati diversi a seconda delle età: l’essenziale struttura della società non si è, però, alterata. Anche dopo enormi rivoluzioni e apparenti irrevocabili mutamenti, si è sempre ristabilito il solito schema, così come un giroscopio ritornerà sempre in equilibrio per quanto venga spinto lontano sia in una, sia in quella opposta

[…] Gli scopi di questi tre gruppi sono del tutto inconciliabili tra loro. Lo scopo del gruppo che chiameremo delle persone Alte è quello di restare dov’esse sono. Lo scopo delle persone Medie è quello di sostituirsi alle Alte. Lo scopo delle persone Basse, quando esse hanno uno scopo (perché è una peculiare caratteristica delle Basse d’esser troppo schiacciate dal peso del lavoro, durissimo e servile, che prestano per essere, se non di tanto in tanto, coscienti di qualche cosa che non siano le preoccupazioni della vita quotidiana) è quello di abolire ogni distinzione e creare quindi una società in cui tutti gli uomini siano eguali. Fu solo dopo una decade di guerre nazionali e civili, rivoluzioni e contro-rivoluzioni in tutte le parti del mondo che il Socing e le teorie rivali apparvero come ideologie politiche perfettamente elaborate. Esse erano state tuttavia preannunciate dai vari sistemi, generalmente definiti come totalitari, che erano apparsi nei primi decenni del secolo, e le linee principali che avrebbe assunto il mondo, una volta emerso dal caos, erano state per lungo tempo chiare. E che genere di persone avrebbero avuto il controllo del mondo era stato egualmente chiaro. La nuova aristocrazia era composta, per la maggior parte, di burocrati, scienziati, tecnici, organizzatori sindacali, periti di pubblicità, sociologi, maestri, giornalisti e politicanti di professione. Questa gente, che aveva avuto origine nelle classi medie salariate e nei gradi superiori delle classi lavoratrici, era stata formata e messa insieme dal mondo improduttivo dell’industria di monopolio e di governi a tipo centrale. Paragonati con le categorie corrispondenti del passato, essi erano meno avidi e anche meno tentati dal lusso, ma più affamati di pura potenza, e soprattutto più coscienti di quel che facevano e più preoccupati di sbaragliare l’opposizione.

Quest’ultima differenza era di capitale importanza. Paragonate con quella in atto ai nostri giorni, tutte le tirannie del passato si debbono considerare fiacche, mantenute su compromessi, e soprattutto inefficienti. I gruppi di governo erano sempre più o meno partecipi di ideologie liberali e tolleravano scappatoie d’ogni genere, giudicando solo degli atti materiali e palesi e disinteressandosi di quel che i sudditi effettivamente pensavano dentro le loro coscienze. Persino la Chiesa Cattolica del Medio Evo, considerata secondo lo standard odierno, era abbastanza tollerante. Tra le ragioni per questo comportamento c’era anche quella che i governi del passato non avevano il potere e i mezzi di tenere i cittadini sotto una sorveglianza costante e continua.

L’invenzione della stampa, tuttavia, rese più semplice il compito di manipolare l’opinione pubblica, e il cinematografo e la radio perfezionarono non poco tale tecnica e ne accrebbero le possibilità. Con l’invenzione e lo sviluppo della televisione, e il progresso tecnico che rese possibile di ricevere e trasmettere simultaneamente sullo stesso apparecchio, il concetto di vita privata si poteva considerare del tutto scomparso. Ogni cittadino, o meglio ogni cittadino che fosse abbastanza importante e che valesse la pena di sorvegliare, poteva essere tenuto comodamente sotto gli occhi della polizia e a portata della propaganda ufficiale, e avere nello stesso tempo tutte le altre possibili vie di comunicazione precluse. La possibilità d’ottenere non solo una totale ubbidienza alla volontà dello Stato, ma anche una completa uniformità di vedute su tutti gli argomenti, esistette, da allora, per la prima volta.

[…] Le masse non si rivoltano mai di propria iniziativa, né si rivoltano soltanto perché sono tenute in oppressione. In realtà, se si impedisce loro di fare paragoni con altri strati della popolazione, non arrivano mai nemmeno ad accorgersi che sono oppresse. Le cicliche crisi economiche dei tempi passati erano del tutto inutili, e non si permette loro di accadere ora: e tuttavia altri ed egualmente vasti mutamenti possono darsi, e si danno, ma senza risultati politici, poiché non c’è alcun modo in cui il malcontento possa articolarsi. Per quanto riguarda il problema delle eccedenze di produzione, che è stato latente nella nostra società fin dall’epoca dell’invenzione della macchina, esso è risolto facilmente mediante l’ingegnoso procedimento della guerra continua, che si presta anche a essere sfruttata per tenere costantemente in stato d’eccitazione il morale delle masse.

[…] Lo scopo principale della guerra moderna (secondo i princìpi del bispensiero, questo scopo è simultaneamente riconosciuto e negato dalle menti dirigenti del Partito Interno) è di consumare i prodotti della macchina senza migliorare il generale livello di vita.  Fin dalla fine del diciannovesimo secolo, il problema di quel che si dovesse e potesse fare con le eccedenze dei beni di consumo è stato latente nella società industriale.  Al momento presente, quando cioè solo pochi fortunati esseri umani hanno abbastanza da mangiare, tale problema non è più urgente, e avrebbe anche potuto non diventarlo, pur se non fosse stato messo in opera alcun processo di distruzione artificiale.  Il mondo d’oggi è un luogo nudo, affamato, dilapidato, se si paragona al mondo che esisteva prima del 1914, e anche di più se si paragona all’immaginario futuro al quale cercava di dar corpo l’uomo medio di quel periodo. Nella prima parte del ventesimo secolo, la visione d’una società futura incredibilmente ricca, tranquilla, ordinata ed efficiente (un mondo splendente di vetro, d’acciaio e di candido cemento) faceva parte del bagaglio ideale di qualsiasi persona che non fosse analfabeta.

La scienza e la tecnica progredivano con tale velocità, rinnovandosi continuamente, che pareva naturale pensare che si sarebbero sempre più sviluppate.

[…] Ma fu anche chiaro che un generale accrescimento della ricchezza avrebbe minacciato la distruzione (e davvero, in certi casi, si trattò di distruzione) di una società organizzata per gerarchie. In un mondo in cui ognuno avrebbe lavorato soltanto poche ore al giorno, avrebbe avuto abbastanza da vivere, sarebbe vissuto in appartamenti con bagno e frigidaire, e avrebbe avuto l’automobile e perfino, talvolta, l’aeroplano, la più ovvia e forse la più importante forma di disuguaglianza sarebbe scomparsa. Una volta divenuta generale, la ricchezza non avrebbe più potuto costituire un segno di distinzione. Era possibile, senza dubbio, immaginare una società in cui la ricchezza, nel senso del possesso personale e del lusso, fosse equamente distribuita, mentre il potere restava appannaggio di una piccola casta privilegiata. Ma in pratica una società simile non avrebbe potuto durare stabilmente. Poiché se la tranquillità e la sicurezza fossero state godute da tutti nello stesso modo, la maggior parte degli esseri umani che sono di solito intorpiditi dalla povertà avrebbe appreso, invece, a leggere e a scrivere e, quel che è più importante, a pensare col proprio cervello; e una volta che fossero arrivati a far questo, non avrebbero tardato, prima o poi, a capire che la minoranza privilegiata non aveva alcuna reale funzione e avrebbero fatto in modo di scalzarla. Alla lunga, una società organizzata su basi gerarchiche era possibile soltanto sul fondamento della povertà e dell’ignoranza. Il ritorno al passato agricolo, che costituì pure il sogno di alcuni pensatori all’inizio del secolo ventesimo, non era una soluzione che consentisse un effettivo sfruttamento pratico. Era in aperto conflitto con la tendenza, per contro, alla meccanizzazione, che era divenuta una specie di istinto in quasi tutto il mondo, e, quel che più conta, ogni paese che fosse rimasto industrialmente arretrato, si trovava più debole anche nell’efficienza militare ed era soggetto a cadere sotto il dominio, diretto o indiretto, dei suoi rivali più progrediti. Né era una soluzione soddisfacente quella di tenere le masse in stato di povertà col ridurre la produzione dei beni: ciò fu tentato, soprattutto, durante la fase finale del capitalismo, e cioè, press’a poco, fra il 1920 e il 1940. L’economia di parecchi paesi fu costretta a segnare il passo, in alcune terre si smise di coltivare, i capitali non furono accresciuti, grandi strati di popolazioni furono tenuti lontano dal lavoro e mantenuti malamente in vita dalla carità dello Stato. Ma questo portò seco anche la decadenza militare, e poiché le privazioni che ne erano il risultato costituivano, agli occhi di tutti, un male non necessario, l’opposizione divenne inevitabile. Il problema parve risolversi col mantenere in moto le ruote dell’industria senza tuttavia che si accrescesse la reale ricchezza del mondo. I beni dovevano essere prodotti, ma non dovevano essere distribuiti. Ed in pratica, l’unico modo per raggiungere quel risultato era di mantenersi perpetuamente in guerra. L’atto essenziale della guerra non consisteva tanto nella distruzione di vite umane quanto nella distruzione dei prodotti del lavoro umano. La guerra è, essenzialmente, un modo di fare a pezzi, di dissolvere nella stratosfera, ovvero di sprofondare negli abissi del mare, quei materiali che altrimenti si sarebbero potuti usare per render più comoda la vita delle masse, e quindi, a lungo andare, renderle anche più intelligenti. Quando le armi per la guerra non vengono propriamente distrutte le une dalle altre, la produzione delle stesse costituisce anch’essa un modo assai conveniente di spendere l’energia senza produrre nulla che possa essere consumato. Una Fortezza Galleggiante, per esempio, racchiude in sé la somma di energie che occorrerebbe a costruire numerose centinaia di navi da carico. Quando poi cade in pezzi ovvero diviene superata, dal momento che non ha potuto portare nessun beneficio a chicchessia, con un nuovo formidabile dispendio di energie si passa a costruire una seconda Fortezza Galleggiante. Come principio, gli sforzi di guerra sono sempre progettati in modo da consumare tutte le eccedenze che possono restare dopo che si è venuti incontro ai bisogni indispensabili della popolazione. In realtà i bisogni della popolazione sono sempre stimati a un livello minore di quello che in realtà rappresentano, col risultato che sussiste una penuria cronica di metà almeno delle prime necessità della vita: ma tutto questo viene considerato, naturalmente, come un vantaggio. Ed è anche un calcolo deliberato in quel procurare che i gruppi favoriti restino in qualche modo sufficientemente vicini al margine della miseria, dal momento che uno stato generale di povertà aumenta e anzi sottolinea, per contrasto, l’importanza dei piccoli privilegi e così rende anche più marcata la distanza fra un gruppo e l’altro.”

[…] Dal punto di vista dei governanti attuali, quindi, gli unici pericoli effettivi possono essere costituiti dal sorgere d’un nuovo gruppo di persone abili e assetate di potere da una parte, e dal possibile diffondersi d’uno scetticismo di tinta liberale nelle loro medesime file. In altre parole si tratta di un problema essenzialmente educativo. Tale problema infatti consiste nel plasmare di continuo sia le coscienze degli appartenenti al gruppo dirigente, sia quelle di coloro che appartengono, invece, al gruppo che potremmo chiamare esecutivo e che si trova immediatamente al disotto di quel primo. La coscienza della massa occorre che sia influenzata solo in modo negativo.

'1984' George Orwell

Autore Vittorio Alberto Dublino

Vittorio Alberto Dublino, giornalista pubblicista, educatore socio-pedagogico lavora nel Marketing e nel Cinema come produttore effetti visivi digitali. Con il programma Umanesimo & Tecnologia inizia a fare ricerca sui fenomeni connessi alla Cultura digitale applicata all’Entertainment e sugli effetti del Digital Divide Culturale negli Immigrati Digitali. Con Rebel Alliance Empowering viene candidato più volte ai David di Donatello vincendo nel 2011 il premio per i Migliori Effetti Visivi Digitali. Introducendo il concetto di "Mediatore della Cultura Digitale" è stato incaricato docente in master-post laurea.