A circa quattro ore di minibus ad ovest di Katmandu, capitale del Nepal, il panorama che scorre dai polverosi finestrini, subito dietro la mia tempia, regala straordinarie sorprese.
Il caotico centro della capitale sembra ormai un mondo lontano anni luce da queste vedute paradisiache: risaie a terrazze e verdeggianti colline si alternano con fangosi sentieri; il tutto è continuamente sovrastato dalle lontane vette innevate dell’Himalaya che da 6-7000 m di altezza osservano la lussureggiante vegetazione delle valli.
Ghiacciai e giungla in un solo scenario, sembra un binomio paradossale. Ipnotizzato da tali contrasti, quasi non faccio più caso alle forti scariche di adrenalina causate dalla guida isterica del conducente del minibus che sfreccia a tutta forza tra le curve della Prithvi Highway, evitando trattori, motociclette, precipizi e pigre vacche.
Il veicolo trasporta meno di una quindicina di passeggeri, dei quali più della metà è diretta nel paese di Bandipur, per riabbracciare la famiglia prima dell’attesissimo festival religioso del Dasain. Il bus mi lascia a 6 Km dalla cittadina di Muglin, presso un minuscolo villaggio di nome Cheres che si disloca, in tutta la sua estensione, lungo un singolo incrocio; poco dopo, un arco di mattoni rossi indica la strada per raggiungere la funivia.
È qui che i pellegrini, carichi di offerte, iniziavano una scalata di 5 ore, elevandosi per oltre un chilometro di altitudine con lo scopo di raggiungere il tempio oltre le nuvole.
A quanto pare il gioco valeva la candela: la parola Manakamana (mana = mente/anima; Kamana = desiderio) designa questo irraggiungibile tempio induista situato in cima ad una collina a 1300 m di altitudine, ma è anche il nome di una divinità femminile capace di esaudire ogni desiderio.
Fino al 1998 il tempio era una meta di pellegrinaggio ed anche una prova di volontà, ma poi tutto è cambiato quando il principe Dipendra Bir Bikram Shah Dev ha ordinato la costruzione di una sofisticata funivia in grado di trasportare i pellegrini dalle rive del fiume Trisuli fino al tempio in meno di 10 minuti. Questo mezzo di trasporto, di fabbricazione austriaca, ha raddoppiato in pochi anni il numero di visite al tempio, ma, di contro, ha seriamente messo in difficoltà quella piccola corte di albergatori, venditori e ristoratori che basavano la loro sussistenza sull’onere fisico, gravato dalla geografia impervia del tragitto, a cui il pellegrinaggio sottoponeva i fedeli, tanto che nell’agosto 2001 un gruppo di persone ha assaltato uffici e biglietterie della funivia, costringendola ad una settimana di chiusura. Oggi il servizio è ripristinato, efficiente e presidiato da una guarnigione militare.
Prendo con euforia una carrozza assieme a una famiglia indiana che lungo il percorso si sforza di sorvegliare la vettura che ci precede: un carrello di metallo, privo di copertura che trasporta una grossa capra nera per il sacrificio. La funivia prevede, infatti, due diversi tipi di carrozze: una cabina per le persone ed una per il bestiame; a quest’ultima viene applicata una tariffa di sola andata. Dalle carrozze si gode una vista mozzafiato ed i rapidi cambi di pendenza della collina movimentano di continuo la prospettiva. A metà tragitto si raggiunge l’inclinazione maggiore ed è qui che si oltrepassa lo strato più basso di nuvole; metto fuori una mano dal finestrino non appena la mia cabina mi immerge nelle nubi: non ne avevo mai toccata una!
Avanti e dietro si possono scorgere circa 15 metri di cavo, per il resto tutto è bianco.
La velocità della funivia è perfetta poiché, non essendo rapida come quella di un aereo o lenta come una passeggiata, permette di cogliere tutti i cambiamenti del paesaggio, evidenziando la percezione dei contrasti.
Una volta fuori dalle nuvole tutto è cambiato, la vegetazione è diversa ed anche la temperatura, il cielo limpido e soleggiato sembra appartenere ad un’altra stagione.
Mi volto indietro per cercare le altre carrozze, ma quelle nuvole sembrano l’orizzonte degli eventi di un buco nero e lasciano trapelare solo sfocate sagome.
Saliamo più in alto: adesso le nubi sembrano un laghetto bianco tra le montagne.
Giunto a destinazione ritorno alla fantasia di aver attraversato un buco nero, poiché, ad accogliere i passeggeri della moderna funivia, c’è un’atmosfera tardo-medievale fatta di candele, allevamenti, cucine all’aperto e case di legno, che stridono con le rare luci al neon degli ostelli.
Il devoto della Dea
Finalmente a Manakamana. La leggenda narra che nella prima metà del 1600, il re di Gorkha sposò la sua bellissima moglie Ram Shah il cui corpo, però, celava l’incarnazione di una dea. Nessuno era a conoscenza della vera identità della regina, tranne il suo unico devoto Lakhan Thapa. Un giorno, il re vide la moglie nella sua forma divina e incredulo ne parlò a Lakhan. In quello stesso istante il re morì.
Prima dell’avvento degli inglesi nei regni Himalayani veniva praticata la brutale pratica del Sati, un rito che obbligava le vedove ad essere arse vive, poco dopo la cremazione del marito, come estremo e dovuto atto di fedeltà. Nonostante il suo rango nobiliare e la sua natura divina, Ram Sha in quanto donna, non poté sottrarsi all’usanza.
Ai piedi della pira, il suo devoto Lakhan piangeva per l’esecuzione della dea, ma ella lo rassicurò, annunciandogli il suo ritorno. Pochi mesi dopo, infatti, un contadino scoprì una roccia affiorante nel suo campo dalla quale sgorgavano sangue e latte. Lakhan Thapa subito capì il messaggio della dea e fece innalzare, in quello stesso punto, l’attuale tempio.
La dea Manakamana gode di un elevatissimo numero di fedeli, ma viene venerata unicamente in cima alla sua montagna, a differenza delle altre divinità del pantheon induista alle quali vengono innalzati templi in ogni luogo.
La funzione della dea è sicuramente quella di esaudire i desideri dei fedeli, ma la sua natura ibrida, tra umano e divino, la rende una delle più intense e convincenti manifestazioni dell’esistenza degli dei sulla terra.
Il sacrificio
Oggi una breve stradina a gradoni, circondata da bancarelle che propongono oggetti sacri e offerte rituali, conduce alla piazza centrale e a poco più di una decina di caseggiati in muratura.
Lungo la via osservo l’impassibilità degli abitanti del luogo di fronte alla sfilata di pellegrini SAARC, molti dei quali provenienti dall’India benestante, che sfoggiano scarpe da ginnastica occidentali.
In un batter di ciglio giungono da Ovest delle nubi alte che lasciano cadere una debole pioggia. Avvolgo l’obiettivo della mia Canon in una sciarpa, sollevo il cappuccio della felpa per proteggermi dalle gocce e per passare quanto più inosservato tra la folla, mimetizzandomi tra i venditori di fotografie della Kumari, una bambina di cinque anni considerata l’ultima incarnazione della dea Bhawani.
La piazza del tempio è gremita di gente, qualcuno si ripara dalla pioggia sotto le tegole, qualcun altro è in fila per il sacrificio, mentre i Sadhu, gli erranti asceti induisti, sono tutti accovacciati lungo un solo lato.
Quando a Katmandu ho sentito parlare dei sacrifici animali di Manakamana da un ex portatore di etnia Sherpa, immaginavo che le uccisioni fossero un atto solenne scandito da una serie di movimenti rituali, come spesso ci suggerisce la cultura cinematografica, ma, in realtà, la vera e sola spiritualità del sacrificio consiste nel rito di benedizione del bestiame.
Un labirinto di passamano obbliga i pellegrini e le loro offerte a seguire un percorso che conduce all’interno di un tempio, dove solo gli induisti possono accedere.
L’ingresso, attraverso un’angusta porta, è sorvegliato da due giovani militari ai quali è affidato anche il grande onore di proteggere il pujari, il diciassettesimo discendente di Lakhan Thapa, il primo devoto della dea: è lui che benedice gli animali e qualsiasi genere di offerta prima del sacrificio.
In questo istante mi rendo conto che nella cultura Hindu i protagonisti delle vicissitudini di Manakamana sono considerati personaggi storici la cui esistenza è viene percepita dai fedeli come una continuità delle divinità in terra, come d’altronde la Kumari.
Il sant’uomo pronuncia tra i denti una preghiera e sporca la fronte degli animali con la Tika, una mistura benedetta di colore rosso intenso fatta di pasta di legno di sandalo, cenere, argilla e kumkum, pigmento a base di curcuma e zafferano mescolati alla calce spenta, che viene cosparsa anche sulla fronte dei fedeli. Con questo atto, viene pattuito un metaforico scambio tra l’offerta ed il desiderio da esaudire.
Il sabato è il giorno di riposo per i popoli SAARC, ma anche un’occasione per dedicare tempo al proprio culto religioso. Disorientato dalla folla, decido di seguire le sorti di una giovane coppia con al seguito una piccola capra nera con una macchia bianca sul capo. Entrambi provengono da Katmandu e sono sposati da pochi mesi. Il marito ha una piccola attività commerciale nel vivace quartiere di Thamel ed è anche l’unica persona che parla inglese, sopra le nuvole.
Dopo circa due ore di fila la coppia e la capra entrano nel tempio e dopo due minuti sono di nuovo fuori, ciascuno con una brillante macchia di Tika rossa sulla fronte.
A capo chino, bisbigliando una preghiera, continuano il percorso fuori dal tempio, incamminandosi verso un recinto di mattoni rossi nel quale riesco a entrare solo dopo aver chiesto il permesso a vari Sadhu, al “boia” ed ovviamente ai proprietari della capra.
All’interno di questa piccola struttura a cielo aperto c’è un tempio alto poco più di un metro che custodisce un’effige della dea, mentre sul lato un ceppo di legno sostiene uno sporco ma affilato coltello Gurkha, una sorta di Machete nepalese, con il quale il boia decapiterà l’animale. L’uccisione è quasi istantanea.
Nel piccolo piazzale il pavimento si incunea leggermente verso uno stretto scolatoio che, a detta del Sadhu, giunge fin dentro le viscere della montagna.
Il boia e il pellegrino si assicurano che il corpo decapitato della capra, i cui riflessi continuano a far dimenare, versi abbastanza sangue nel buco ed irrori le profondità della roccia, mentre la giovane moglie, che preferisce non assistere allo spettacolo, attende all’esterno.
Come la maggior parte dei pellegrini, la coppia ha espresso alla dea il desiderio di ottenere un primogenito maschio che nella cultura Hindu è un grande privilegio, non soltanto per il proseguo dell’attività di famiglia, ma anche per garantirsi una degna cremazione che solo i figli maschi possono organizzare ai genitori.
Subito dopo, il corpo esangue della capra viene posto in una busta di plastica e riaffidato al proprietario, poiché, dopo la funzione religiosa, il bestiame sacrificale torna ad essere bestiame commestibile; nello stesso tempo il boia getta dell’acqua sul pavimento e sui suoi piedi per ripulire tutto il rosso, ormai indistinguibile di Tika e sangue.
Fuori dal sacro mattatoio giace una grande campana che si affaccia sul laghetto di nuvole dal quale, solo le vette dell’Himalaya riescono a spuntare fuori come bucaneve; il giovane suona un rintocco e mi sussurra: «è una cultura molto diversa dalla tua».
Sta per piovere di nuovo e i fedeli si affrettano ad accendere una batteria di candele e incensi che circondano il tempio, prima che l’acqua metta fine a tutto.
L’atmosfera è ridiventata nebbiosa e scorgo, in lontananza, un tumulto di macchie giallo-arancio: sono i Sadhu che provano a difendere una scimmietta domestica dal morso di un cane randagio e ci riescono a stento prima di disperdersi a cercare riparo dall’acquazzone.
La scimmia ha ancora il pelo bagnato dalla saliva del cane e si nasconde dietro la nuca del Sadhu, il quale, si accovaccia sotto un’ampia tettoia; lo raggiungo e lui mi rivolge con le mani un gesto pacato, come per rassicurarmi delle condizioni del suo animale.
Piove ormai a dirotto e le pesanti gocce riescono a spuntare dei deboli rintocchi sulle campane più piccole, sparse per la piazza che, rapidamente, si svuota.
Il pescatore di Pokhara
Circa tre settimane dopo, nel turistico centro di Pokhara, mi ritrovo a parlare con un giovane pescatore del lago che camminava scalzo per un sentiero ai margini della città, provando a vendere alle taverne i suoi prodotti.
Nel suo credo Hindu egli è particolarmente devoto ad Hanuman, il dio scimmia, così gli chiedo se anche gli altri Dei siano in grado di esaudire i desideri in cambio di un pellegrinaggio al tempio ed un’offerta; mi dice che tutti gli dei gradiscono le offerte, ma nessuno contraccambia con la stessa generosità di Manakamana.
D’altronde, se la maggior parte dei pellegrini chiede alla dea un figlio maschio, ci sarà, con buona approssimazione, un 50% di desideri esauditi.
Un figlio maschio incrementerà la forza lavoro della famiglia e porterà avanti l’attività anche quando i genitori non saranno più in grado di lavorare.
Diversamente, una figlia femmina non aumenterà il bilancio, ma, anzi, lo intaccherà pesantemente quando, in età da matrimonio, avrà bisogno di una dote.
Una recente conseguenza di questa bassa considerazione delle donne proviene dalla sostituzione degli antichi sacrifici animali con la moderna tecnologia medica.
È ancora in voga, tra le donne incinte SAARC, effettuare esami ginecologici, non tanto per assicurarsi che la gravidanza proceda bene, quanto per conoscere e selezionare il sesso del nascituro, praticando eventualmente l’aborto selettivo.
Molte organizzazioni umanitarie non governative stanno promuovendo campagne contro questo fenomeno, sia per impedire decessi inutili, che per evitare di ritrovarsi, tra dieci o quindici anni, con una iperpopolazione maschile, in età da matrimonio, della quale gran parte non riuscirà a trovare un partner e promuovendo, come feed-back negativo, un postumo crollo demografico.
Il pescatore, continuando a camminare a piedi scalzi, mi regala un’ultima sorpresa, raccontandomi che oggi il Manakamana Temple Nepal ha un account su Facebook, dove i giovani che hanno visto realizzarsi un desiderio, ringraziano sentitamente facendo click sul tasto “mi piace”.
Non è poi una cultura tanto diversa.
Tutte le immagini fotografiche pubblicate all’interno di questo articolo sono di titolarità esclusiva di Dario David e del sito www.expartibus.it, ne è pertanto vietata la riproduzione, permanente o temporanea, l’adattamento, la comunicazione al pubblico, la diffusione, la distribuzione al pubblico senza il preventivo ed espresso consenso del titolare dei diritti d’autore sulle medesime immagini fotografiche.
Autore Dario David
Dario David, naturalista e antropologo, classe '79. Ha lavorato nel settore elettromedicale diagnostico, contribuendo a farlo andare in crisi. Si occupa di e-commerce e dark-marketing.