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Mafalda di Savoia e il Nazismo

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Mafalda di Savoia


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La memoria richiama nuovamente la memoria e attraverso lo spirito di ricerca può ancora emergere dall’oscurità del tempo.

Mafalda di Savoia, figlia secondogenita del Re Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro, moglie del principe tedesco Filippo Langravio d’Assia – Kassel e madre dei principini Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.

Molteplici gli scritti storici, gli approfondimenti, i riconoscimenti alla memoria di un personaggio di spessore come la principessa Mafalda, eppure, non emergono dai meandri analitici della Storia, i risvolti del periodo trascorso come prigioniera nel campo di sterminio di Buchenwald. Non è certo questa una lacuna degli storici che molto hanno tentato di ricostruire in base ai pochi elementi a disposizione; ottimo il lavoro di ricerca dal punto di vista politico e soprattutto complottista attivato da Hitler e dal suo establishment che individuò in Mafalda il capro espiatorio, la vittima sacrificale della dinastia Savoia, finalizzata a colpire direttamente il Re, in seguito al proclama del Capo del Governo Pietro Badoglio dell’armistizio Cassibile dell’8 settembre con gli angloamericani, sigillando ufficialmente la fine dell’alleanza con la Germania.

E, infatti, proprio il 22 settembre la principessa, ingannevolmente, fu presa dai nazisti della Gestapo di Roma e spedita su un aereo in Germania. Dopo un breve passaggio a Berlino, la donna fu tradotta direttamente al campo di sterminio di Buchenwald, nella baracca 15, dove visse fino all’agosto del ’44, mese in cui morì dopo il bombardamento sul campo da parte degli Alleati, ma soprattutto per mano diretta e volontaria dei nazisti che, in piena agonia, la lasciarono morire dissanguata nel postribolo del campo, dopo un lungo e ritardato intervento chirurgico di amputazione del braccio sinistro, ormai in cancrena.

Personalmente, posso ben affermare che il periodo storico che va dal 1943 sino al termine del secondo conflitto mondiale nel ’45 sia stato il momento più drammatico della guerra in cui il peggio assoluto, da parte di tutte le forze politiche in causa, apportato a solo ed esclusivo discapito delle popolazioni e dei popoli!

La baracca 15 è stata l’ultima misera dimora di Mafalda; il luogo che l’ha resa prigioniera ma al contempo “protetta”, per quanto sia stato possibile, dall’efferatezza della guerra. Con lei vivevano un ex deputato tedesco e la moglie. Al suo servizio fu messa una donna di nome Maria Ruhran, finita nel lager anche lei per motivi religiosi, in quanto appartenente ai Testimoni di Geova. Da loro la principessa si faceva chiamare Muti, non rivelando la sua reale e regale identità, ma i nazisti le affibbiarono il nome di Frau von Weber per tenerla maggiormente celata e nell’anonimato.

Ma chi fu Mafalda a Buchenwald?

A questo interrogativo, soltanto chi ci è veramente stato, ha visto e ha parlato con questa donna straordinaria può testimoniare sulla sua feconda spiritualità, sul suo senso patriottico, sul suo sentirsi parte di un progetto di ribellione alle nefandezze naziste.

Non ha mai reciso il legame spirituale con i suoi cari, i suoi figli e il suo stesso popolo.
Ha rispettato la figura del marito fino all’ultimo dei suoi giorni e ci son stati momenti in cui ha ben saputo e tenuto testa ai militari del campo che tentavano di schernirla con il nome di Frau Abeba, riferendosi puerilmente, sia alla capitale dell’Etiopia che Mussolini aveva conquistato tra l’ottobre del ’35 e il maggio del ’36, sia al nome che era stato dato dalla Gestapo all’operazione segreta per catturarla, imprigionarla e deportarla successivamente a Buchenwald.

Mafalda, nel campo, aveva conosciuto molti partigiani emiliani ai quali chiedeva incessantemente delle gesta dei loro “fratelli” rimasti in Italia a lottare e a combattere i nazifascisti tra le fila della Resistenza.

Spesso ripensava al padre, in merito al valore di questi giovani italiani, alcuni addirittura ventenni ma con un coraggio e un’audacia fuori dal comune che, anche se “macchiati” di diserzione nei confronti del Regio Esercito, sacrificavano la propria vita per salvarne anche una soltanto, dalla morsa atavica del Nazismo e di ciò che effettivamente residuava del Fascismo.

Alcuni di questi partigiani deportati riuscirono a sopravvivere al lager e alla guerra stessa. Alcuni di loro sono arrivati sino a noi oggi, con un unico pensiero rivolto a Frau von Weber, o semplicemente alla loro Muti, in segno di promessa: “e di te si saprà, ciò che il tuo cuore serbava”.

Con ‘Shoah – La cintura del Male’, prossimo alla pubblicazione, a breve sapremo.

La memoria richiama nuovamente la memoria e attraverso lo spirito di ricerca può ancora emergere dalloscurità del tempo.

 

Autore Antonio Masullo

Antonio Masullo, giornalista pubblicista, avvocato penalista ed esperto in telecomunicazioni, vive e lavora a Napoli. Autore di quattro romanzi, "Solo di passaggio", "Namastè", "Il diario di Alma" e "Shoah - La cintura del Male".